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Confessioni di un maniaco delle app meteo

Il mercato delle applicazioni per le previsioni e il controllo del tempo cresce a dismisura. Perché ci piacciono così tanto?

di Davide Coppo

Nei giorni in cui l’uragano Milton si stava avvicinando alle coste della Florida, sentivo l’apprensione che si prova per i grandi momenti storici, anche tragici, vissuti dal vivo: un misto di terrore e però anche di emozione, di naturale eccitazione. Anche diversi amici e colleghi, mi sembrava, vibravano della stessa vibrazione. Ci siamo abituati a vivere gli eventi climatici come un fatto collettivo, da temere prima e poi da commentare. I giornali dicevano: è il primo caso di uragano passato dalla categoria 1 alla categoria 5 in soltanto sette ore. La notte prima, ho aperto la mia applicazione meteo preferita e ho scrollato con le dita sulla mappa del mondo fino ad arrivare alla Florida, pinnando e swipando sull’Oceano Atlantico. Ecco la perturbazione tutta colorata, in arrivo da ovest, con l’occhio viola scuro, il contorno bordò, poi rosso, poi giallo: tutti i piccoli indicatori del vento circolavano intorno all’occhio del ciclone in modo animato. Poi, sulla destra, ho cliccato il tasto per vedere dove stavano cadendo i fulmini: una tempesta elettrica su Palm Beach, sulla costa est, lontana dal cuore del fenomeno. I pallini monodimensionali scoppiavano come pop corn tutti gialli e virtuali. Poi ho messo il pollice sulla barra sul lato basso dello schermo, e l’ho fatto scorrere da sinistra verso destra: così ho simulato lo scorrere del tempo, e l’avanzamento del ciclone sulla terraferma fino al suo sgretolamento.

Le applicazioni meteorologiche hanno un seguito di appassionati autodidatti, ossessionati dal prevedere il tempo o dall’illusione di controllarlo. Io sono tra questi. Ci sono app di molti tipi, per assolvere molte funzioni: oltre alla temperatura e alle precipitazioni, ci sono gli indicatori barometrici della pressione e quelli della qualità dell’aria. Alcune hanno anche le previsioni dei pollini prodotti dalle piante. Le mie preferite sono quelle basate su delle mappe interattive, per monitorare ovunque le masse di pioggia, i venti, i fulmini, oltre alle temperature. In questo momento, alle 16:50 di venerdì 11 ottobre, sul pianeta sta piovendo pochissimo: un po’ a Porto Alegre, più intensamente su una vasta zona tra Minsk e San Pietroburgo; c’è un grosso fenomeno temporalesco su Padang, Kuala Lumpur, Bandar Seri Begawan, ma quasi senza vento; pioviggina a Faenza. Il mercato globale di queste applicazioni, dice una ricerca di Statista, supera il miliardo e mezzo di dollari di valore.

Nella cartella Meteo del mio smartphone ho una decina di app. Non le uso tutte, ma quasi. Dipende da cosa devo fare: se è per prevedere la temperatura della serata o delle giornate successive, o per organizzare la valigia di un weekend fuoriporta, mi bastano le più semplici. Se, d’estate, devo scegliere se cenare all’aperto o al chiuso e il cielo promette male, cerco di studiare le mappe delle perturbazioni, zoomando fin quanto mi è possibile sul quartiere che mi interessa e usando la simulazione dello spostamento delle nuvole. Se decido di correre il rischio, fidandomi di una app come Meteo & Radar, allora quando sono al tavolo del bar sono tentato di scrutare come una sentinella le nuvole vicine, con appresione, sì, ma forse più per confermare la bontà della mia scelta. Se sono al mare, magari su un’isola, e c’è da scegliere quale spiaggia sarà la meno battuta dal vento, allora controllo la app specifica per i venti (che è quella che serve più che altro a chi va a vela, ma io non ci so andare). In questo caso, non sempre funziona, ed è bello quando qualcuno che vive o conosce l’isola guarda il cielo e dice: no, il libeccio sta calando, domani fa bello. E alla fine ha ragione lui.

Alcuni siti americani l’hanno chiamato “weather porn”, con quella straordinaria malleabilità ed efficienza della lingua inglese, e in effetti l’eccitazione ha un ruolo importante nel voler a tutti i costi conoscere cosa succederà nel cielo nel futuro più prossimo. In questa popolarità c’entra la famosa gamification, ovvero il modo in cui sono disegnate le interfacce delle applicazioni e pensate le loro funzioni: naturalmente seguire l’andamento dell’uragano Milton su un mappamondo a portata di mano è divertente, è curioso, è intrattenente. Sbirciare che tempo fa ad Addis Abeba o a Hydra (tengo salvati nei preferiti i luoghi che ho più amato nel mondo, in un moto di affetto o di narcisismo, non saprei) ha un che di magico, come quando, nei primi anni Duemila, si navigava su internet a cercare le prime webcam installata in certe piazze delle grandi città, per poter vedere un posto lontanissimo dalla scrivania di casa. Solo che quelle piazze sono, adesso, le nuvole cariche di pioggia.

Ed è chiaro che in questa meteomania c’entra il cambiamento climatico: forse è che più il clima ci sembra imprevedibile e pericoloso, più vogliamo provare a incastrarlo in una rete di previsioni, di radar e satelliti e numeri, disinnescandolo o esorcizzandolo con simbolini gialli e tondi per il sole e nuvolette bigie a indicare i giorni tristi. Poi, c’entra anche una certa ossessione del controllo? Certo, rispondo, se devo guardare a me. Odio le sorprese, e odio sommamente le sorprese che potrebbero bagnarmi mentre sono in bicicletta senza un ombrello. Conoscere come sarà il cielo di domani offre l’illusione di avere un ordine in un mondo in cui l’ordine è un’illusione. Non perché sia più disordinato oggi che qualche decennio fa, però: piuttosto, credo, perché la quantità di informazioni a cui abbiamo accesso oggi, volenti o nolenti, ci fa sentire di vivere in un costante. Fa rumore, e fa confusione.

Non è una novità, alla fine, che ci piaccia parlare del tempo atmosferico: è da sempre un rompighiaccio universale, e andrebbe rispettato di più, questo tipo di chiacchierare, proprio per questa sua utilità da passepartout. Non è una banale conversazione superficiale, ma al contrario, il necessario inizio di una conoscenza più profonda. Nelle arti del passato il clima era un elemento importante: nell’epica, quella religiosa e quella non, molte pagine erano dedicate al tempo. Le tempeste e le siccità della Bibbia, quelle a cui deve sopravvivere Ulisse per tornare a Itaca. Nel Frankenstein di Mary Shelley il peggioramento delle condizioni atmosferiche segue fedelmente la discesa della trama nel terrore, o meglio, ne è lo specchio. Con l’inizio del Novecento le cose cambiarono. Fu merito del progresso, che rese gli spostamenti meno condizionabili dalle nevicate, le case calde d’inverno, le città più confortevoli. L’elemento meteorologico si ritirò dalla letteratura e si trasformò, passando da minaccia imprevedibile a quotidiano argomento di conversazione. Con la meteorologia le forze tremende e imperscrutabili che governavano le piogge e i venti diventavano comprensibili, a portata di mano. Tanto che quando un’applicazione sbaglia, ci sembra un affronto. Qualche anno fa ne parlai (qui) con Paolo Sottocorona, il meteorologo e volto televisivo di La7, che mi disse: «Siamo stati viziati dall’informatica e dalla tecnologia. l’uomo della strada dice: se possiamo mandare una sonda su Marte che dice se su quel pianeta esisteva dell’acqua un milione di anni fa, allora perché non posso sapere se pioverà domani sulla mia città? Ma la meteorologia non può dare queste risposte. Non è questo tipo di scienza».

Per anni Tom Scocca, un giornalista di The Awl (defunto, geniale e compianto sito degli anni Dieci), tenne una rubrica che era il contrario delle previsioni del tempo: si chiamava Weather Reviews, recensioni del tempo. Scocca, in poche righe e con una prosa elegante, recensiva la giornata appena trascorsa dal punto di vista meteorologico. Per esempio: «New York, 1 agosto 2017. Tre stelline». Descrizione: «I marciapiedi appena lavati emanavano un odore sgradevole. Un uomo agitava la maglietta per far entrare aria mentre stava sulla banchina della metropolitana. Ogni tratto del percorso attraverso la città aveva un odore particolare: sudore e forse vomito nel lungo corridoio verso i treni di Eight Avenue a Times Square; sudore e acqua di colonia sulla lunga scala mobile nei pressi della East 50th; colazione andata a male in una traversa. La luce era più chiara e il cielo più azzurro di quanto avrebbero dovuto essere. Un ciclista ha fatto un’impennata fino a Union Square e l’ha attravrsata. Il sole premeva forte sul petto. A fine giornata si è raccolto in un bagliore viola, gonfio e informe, mentre i frammenti di nuvole in alto sono rimasti bianchi».