Con I convitati di pietra Michele Mari si è dato all’horror

Una chiacchierata con lo scrittore in occasione dell'uscita del suo nuovo libro appena pubblicato da Einaudi, una specie di versione milanese, colta, erudita di Squid Game.

03 Dicembre 2025

Dopo aver pubblicato Leggenda privata, otto anni fa, Michele Mari ha pensato che non avrebbe scritto più nulla. Quel romanzo che, per dirla alla James Wood, sembrava “la cosa più vicina alla vita”, per lui sembrava essere un punto di non ritorno. E invece eccoci qui, a parlare del suo nuovo romanzo, I convitati di pietra, appena pubblicato da Einaudi. Siamo nel 1975, a Milano, a un anno dall’esame di Maturità, durante la cena per il primo anniversario, e quelli che sono ormai ex compagni di classe decidono di stringere un patto, di organizzare una riffa, di versare ogni anno una somma di denaro di cui potranno godere solamente gli ultimi tre che rimarranno in vita. E anche se nel romanzo e nella quarta viene citato Compagni di scuola, come se fosse un po’ un depistaggio, sembra di assistere a una versione milanese, colta, erudita di Squid Game. Mari mi confessa di aver pensato ai film horror, tipo Scream o quelli in cui si comincia con sette, otto personaggi, e alla fine rimane solo l’assassino. Tornano, come sempre, le sue ossessioni, la letteratura, il cinema (su tutti Gene Hackman), i fumetti, il calcio. E anche se Mari mi racconta di aver cominciato a scrivere questo romanzo in modo irresponsabile, senza sapere come sarebbe andata a finire, chi avrebbe vinto questa riffa, mi interessa capire l’origine di questa storia, di questa struttura narrativa così elaborata, capace di seguire con ironia, senza mai perdere la pietas, questi personaggi per decenni, per gran parte della loro vita.

ⓢ Com’è nata l’idea di questo libro?
Probabilmente è qualcosa che si lega a fantasie antiche, che avevo già in tempo reale da studente, da compagno di classe, quando considerando i miei compagni, considerando la classe, già incominciavo a domandarmi, non proprio in termini di mortalità, chi se ne sarebbe andato e come, chi per primo, chi per secondo, ma per esempio che destino avrebbero avuto i miei compagni, chi avrebbe seguito una strada artistica, visto che facevamo il liceo classico, chi invece sarebbe andato a lavorare in banca, chi avrebbe avuto figli, chi no, insomma considerazioni che poi ho continuato a fare nel tempo, diciamo ex post, riguardando fotografie di classe o nell’imminenza di cene di classe a cui ho partecipato sistematicamente fino a una certa altezza cronologica, fino a quando avevamo sulla cinquantina. Poi ho incominciato a perdere un po’ di colpi, un po’ perché la mia vita si era spostata a Roma, quindi lontano da Milano, e poi anche perché una volta tornato a Milano stentavo, anno dopo anno, decennio dopo decennio, a riconoscere i miei vecchi compagni nei panni di questi signori, di queste signore che nel frattempo erano diventate mamme, nonne, e quindi ho preferito conservare la memoria del nostro tempo come era stato.

ⓢ E che ricordi hai della scuola, della tua classe? E per quanto riguarda te, hai fatto quello che immaginavi di fare quando stavi al liceo?
Sì, direi di sì, perché io fin da piccolino, ma ben prima di andare al liceo, sapevo che avrei voluto avere a che fare con i libri, letti o scritti o studiati o maneggiati o collezionati. Tant’è vero che in famiglia i miei si ricordavano di una delle mie primissime risposte alla domanda cosa vuoi fare da grande, quando dissi: “L’edicolante, il giornalaio”. In modo da poter stare tutto il giorno a leggere i giornali. La mia idea era quella, stare chiuso in un’edicola e anziché vendere i giornali, leggermeli, quindi sì, penso di aver fatto quello che volevo fare, in questo senso. Il mio cursus studiorum è stato molto coerente perché ho fatto il liceo classico, poi Lettere, ho poi lavorato da studioso e da docente nell’ambito che poi praticavo in proprio in quanto lettore e autore. Per quanto riguarda la mia classe reale, non è presente in questo libro, credo che nessuno dei miei compagni, qualora mi leggesse, si potrebbe riconoscere in uno o in un altro personaggio. Della mia classe reale ho un bel ricordo, è forse l’unica classe nella mia vita di cui abbia un bel ricordo, tant’è vero che poi per anni ci siamo frequentati. Diciamo che era una classe molto alta intellettivamente, perché come scrivo nel libro eravamo nella sezione A, che allora nei licei era la sezione più acculturata, con i docenti più bravi, più prestigiosi, più esigenti, quindi c’era gente che a metà del liceo mollava la sezione per retrocedere alla C o alla D dove l’insegnamento era più morbido, quindi noi avevamo anche un po’ di orgoglio e di vanità, come se rappresentassimo una specie non dico di college, ma una classe d’eccellenza, sì, anche con tutti gli aspetti negativi del caso, come la spocchia, l’alterigia, l’arroganza. Insomma c’erano dei personaggi anche piuttosto insopportabili con i quali io litigavo, però devo riconoscere che era una classe di cervelli pensanti, una bella classe, sicuramente stimolante.

ⓢ C’è il personaggio di Semprini, che un po’ ti somiglia, che è ossessionato dai fumetti e dalla morte di Gene Hackman. E qui, insieme ai fumetti, tornano omaggi alla letteratura, al cinema, al calcio. Com’è il rapporto con le tue ossessioni, quando scrivi? In quale modo le accogli, le fai entrare mentre stai scrivendo una nuova storia?
Sì, in effetti Semprini, per i fumetti, è uno dei personaggi più corrispondenti a me. Ce ne sono altri, c’è Brodo, per esempio, che per altri aspetti mi somiglia. Le mie ossessioni, comunque, mi si offrono abbastanza naturalmente, spontaneamente, sono come un armamentario, un repertorio retorico, topico-retorico, topico per cui io so che qualsiasi costruzione, qualsiasi edificio narrativo io voglio costruire deve essere fatto con quei materiali, con quelle strutture. È come se io, incominciando a scrivere, dopo un po’ di libri pubblicati, non sia davvero vergine, come se la pagina bianca non sia totalmente bianca, ma sia in parte già scritta. Questo per dire che mi sento come condizionato a priori da un immaginario e da un armamentario che fluisce poi quasi fisiologicamente nella mia scrittura.

ⓢ Quindi è un po’ come se tu fossi influenzato da te stesso, da quello che hai scritto in passato.
Sai, una volta, non parlando di me, però, a proposito di queste dinamiche, coniai il termine automanierismo, credo che possa essere pertinente a questo proposito.

ⓢ E come sei riuscito a creare questa galassia di personaggi strani, disperati, apparentemente spietati, tutti così credibili?
Sono personaggi molto molto stilizzati, nel senso che, se tu ci pensi, di loro, tranne qualche eccezione, tranne qualche piccolo spunto isolato, nella maggior parte dei casi io non dico assolutamente nulla, non parlo della loro famiglia, non dico se hanno o non hanno la fidanzata, se si drogano, se non si drogano, se hanno o non hanno la moto, mi limito a dare un referto secco che riguarda l’età e l’abitazione, il numero civico, la via. Quindi sono come scontornati, ritagliati via dalla loro famiglia, dal loro contesto, esistono solo in quanto compagni di classe, che era un po’ il modo in cui io li vivevo. Io ho fatto poche amicizie al liceo e mi sono accorto, anche a posteriori, che di fatto frequentavo i miei compagni di classe solo in classe, letteralmente, ma non mi vedevo con loro il pomeriggio al baretto o a casa loro a una festa o per un’attività sportiva. Erano sempre dentro a un contesto, in qualche modo, nascevano e morivano con la campanella scolastica.

ⓢ All’inizio il lettore, così come i personaggi, pensa che l’obiettivo della riffa sia il denaro. Però poi viene detto, e si percepisce, che la vittoria, insieme alla giovinezza, è il gioco in sé, quello che si prova giocando, non quello che potrai ottenere. Questo è un po’ il tuo modo di concepire anche la letteratura?
Sì, adesso non me la sento di darti una conferma in termini assoluti, ma in parte sì. È l’idea che la letteratura sia un piacere in sé, sia premio a sé stessa, che il valore risieda nella performatività. Nel caso di questo romanzo c’è in ballo il denaro, però nella letteratura le corrispondenze potrebbero essere chiaramente, che so, avere un pubblico ampio, vincere dei premi, oppure fare i soldi, ma sono effetti non collaterali, effetti consecutivi dello scrivere. Il bello di scrivere è nello scrivere, non è nel ritirare un assegno, certo poi se ci guadagni anche sopra, se sei blandito, coccolato, vezzeggiato va bene.

ⓢ Leggendo, mi è tornato in mente un passo di Joan Didion ne L’anno del pensiero magico, quando lei, dopo la morte del marito, si accorge di essere invecchiata di cinquant’anni in un istante, che lei era abituata a guardarsi, a pensarsi ventenne, come quando l’aveva conosciuto.
È così, è anche il modo con cui io ho continuato a vedere i miei compagni, dalle prime cene di classe, cercando di portare per esempio la conversazione sempre sugli anni del liceo, sull’occupazione, su chi era innamorato di chi, cose di questo genere, mentre invece mi scocciavano, mi pesavano tutti i discorsi legati al dopo, cioè la loro carriera, le loro famiglie, il presente, tutti argomenti di cui non poteva fregarmene di meno. E quindi io remavo contro e tenevo il timone verso il nostalgico, il timone della nostalgia.

ⓢ Parlando di calcio, mi ricordo che è una delle tue ossessioni, ti volevo chiedere il tuo rapporto col calcio oggi, con il Milan in particolare, se è ancora un rapporto così profondo come prima.
Devo dire di sì, riesco ad arrivare a livelli di sofferenza inaudita e spasmodica, a volte non riesco a vedere in modo continuato una partita perché sto troppo male, se si sta vincendo il tempo non passa mai, se si sta perdendo il tempo è troppo veloce, e metto in atto tutta una serie di rituali scaramantici che non si possono rivelare. Patisco, patisco, e devo dire che io invidio molto le tifoserie che hanno una sola squadra, tipo il Napoli a Napoli, la Fiorentina a Firenze, perché in quel modo nella gioia e nel dolore si è comunque uniti. A Milano, a Roma, a Torino pesa l’astio, il dileggio, il pernacchio, lo sfottò dell’altra metà della città per cui la sconfitta è duplice, così come la vittoria è duplice. E tutto viene amplificato. Io sono arrivato alla finale di Champions quest’anno letteralmente terrorizzato dall’idea che l’Inter potesse vincere, e quindi per me quel 5-0 è stato un godimento, una goduria, ho visto trasmissioni sportive per una settimana.

ⓢ C’è un momento in cui Semprini, dopo aver visto il finale de Gli Spietati, ha pensato che “il mondo non aveva più senso”. È successo anche a te di pensarlo, ogni tanto?
Sì, adesso non vorrei gigioneggiare, però questo preciso pensiero, cioè basta, da questo momento in poi non ha senso più nulla, io lo ebbi la sera del famoso 3-3 con il Liverpool, nel 2005, quando andammo all’intervallo sul 3-0 e finì in quel modo. A parte che ho seriamente meditato di buttarmi dal balcone, e poi, mentre guardavo giù in strada, mi sono detto proprio questo: Basta, non ha più senso nulla. In generale queste espressioni, che hanno a volte molta enfasi giornalistica un po’ ridondante, in alcuni casi celano anche una profonda verità, per esempio una frase come quella che hanno scritto dopo la morte di Gene Hackman, cioè che era morto il cinema, ecco, per me, in fondo era vera, anche se molto retorica, molto sopra le righe. Per restare in tema calcistico, quando Baresi ha lasciato il calcio e il Milan ha ritirato la maglia numero sei, anche lì avevo gli occhi lucidi, avevo come l’idea che una parte della mia vita fosse finita, fosse andata in pensione insieme a Baresi, ma questo ovviamente vale per la morte di un musicista, di un pittore o anche di persone non necessariamente di persone famose, di persone che per te hanno avuto un gran significato, una grande importanza.

ⓢ C’è un altro passaggio in cui scrivi: «Concepire quella gara mostruosa quando il premio era già in loro, con loro, ed era la giovinezza, semplicemente». Qual è il tuo rapporto con la giovinezza, con l’invecchiamento, con il tempo che passa?
Me la vivo in termini di rimpianto, ma non nel senso nostalgico del termine, nel senso di aver capito di non essermela vissuta o di non essermela vissuta completamente questa giovinezza, di essermela perduta. È un argomento sul quale sono tornato più volte, soprattutto a proposito di Rosso Floyd. In quel periodo quando mi chiedevano: Ma come mai? Non sapevamo che tu fossi un appassionato di rock! Tutti erano convinti che io fossi un supporter dei Pink Floyd, che avessi girato l’Europa dietro ai loro concerti, quando io non sono mai andato a un concerto in vita mia, a un concerto rock e non solo, quando io nemmeno li sentivo i Pink Floyd, perché ero attardato, perché ero fuori dal flusso, ero retrogrado, ero chiuso e quindi per me scrivere un libro sui Pink Floyd ha avuto il significato di un risarcimento, di un recupero di qualcosa che non avevo vissuto all’età in cui sarebbe stato giusto viverla. Quindi questa giovinezza che viene tematizzata nel libro è qualcosa che mi è un po’ scivolata via fra le mani, senza che io l’abbia realmente vissuta. Mi ricordo, non so più se è ne Il mestiere di vivere o da qualche altra parte, c’è una frase di Pavese molto bella che si ispira a un passo dello Zibaldone di Leopardi ed è, più o meno: “Se mi avessero detto quanto era prezioso essere un bambino, ne avrei approfittato, mi sarei divertito, cioè avrei fatto il bambino, però nessuno ha pensato a dirmi che l’età bella per fare il bambino era quella, quindi io sono cresciuto senza esserlo, senza farlo”.

ⓢ Mi perdonerai, ma questa è una domanda che faccio sempre. Com’è la tua giornata tipo?
Allora, premesso che è già qualche anno che sono in pensione, quindi non ho più gli oneri dell’insegnamento e soprattutto della macchina burocratica, del ministero e dell’università, la mia giornata tipo è una giornata molto solitaria, molto sedentaria, in cui mi aggiro in casa mia mettendo a posto libri, scegliendo un libro da leggere, oppure in poltrona o preferibilmente a letto, leggendo o scrivendo, se è un periodo di vena creativa. Sul tardi, il pomeriggio o dopo cena, vedo un film. Direi che questa è la mia giornata tipo, anzi è la mia giornata ideale. Oltretutto, adesso, da quando mi sono trasferito da Milano a Bergamo, ho una casa molto grande dove finalmente posso far stare tutti i miei libri, tutte le mie cose, tutto quello che ho ereditato dai miei genitori, opere d’arte, quadri, oggetti. Quindi è una casa diventata un po’ una casa museo, e io mi aggiro in questa casa come se fossi il custode.

ⓢ Non sapevo ti fossi trasferito. Quindi al Meazza non ci vai più?
No, al Meazza no, anche perché io ci andavo ai tempi eroici quando ancora non c’era il terzo anello, quando c’erano i gradoni di cemento e soprattutto quando non c’erano i posti numerati dove chi arrivava primo si metteva dove voleva, che è uno dei motivi per cui non vado più al cinema, perché non sopporto l’idea di avere il posto assegnato, è una cosa che mi fa girare le palle. Io sono cresciuto in un’epoca in cui non solo non esistevano i posti assegnati, ma si poteva entrare a getto continuo e c’era gente che solo per ripararsi dalla pioggia o dalla depressione stava in sala dalle due del pomeriggio alle dieci di sera. Un altro mondo, insomma.

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