Cultura | Cinema
Francis Ford Coppola, fallisci ancora, fallisci meglio
Con Megalopolis, il suo nuovo (e forse ultimo) film, vuole ridicolizzare l'industria cinematografica e dimostrare che non c'è forza più grande della volontà di un regista. Nemmeno a Hollywood.
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Se fosse per i film, Francis Ford Coppola sarebbe povero. E non povero di quella povertà che fa dire “non posso permettermelo, questo” ma di quella che fa dire “non posso permettermelo, e basta”. Povero indigente, nullatenente, in mezzo a una strada. La colpa però non è dei film: a Coppola il successo commerciale non è mancato (quasi) mai, gli incassi al botteghino sono sempre stati nelle sue priorità. Di quel successo e di quegli incassi però non ha mai saputo bene che farsene: i consulenti finanziari negli anni gli hanno proposto investimenti di ogni tipo, da quelli oculati e prudenti ai più rischiosi e spericolati, ma Coppola non è mai riuscito a cogliere il senso dell’investimento in sé. Fare soldi per fare soldi per fare soldi non è mai stata la prospettiva che lui vedeva per sé. C’è un aneddoto che Coppola stesso ha raccontato per spiegare il suo peculiare – e disastroso e sconvolgente – rapporto con i soldi (vale la pena precisarlo: con i suoi stessi soldi): quando è preso dalla voglia di fare, l’immaginazione lo porta sempre in uno scenario ipotetico in cui gli eventi gli hanno concesso in sorte una cifra che sta tra i 300 e i 500 milioni di dollari. Ogni volta si mette a pensare a cosa potrebbe fare con una cifra così enorme e ogni volta l’unica cosa che riesce a pensare è la stessa: andare in banca e vedere quanti soldi gli presterebbero se mettesse a garanzia quei 300, 400, 500 milioni di dollari. Solo allora, con quell’altra cifra potrebbe mettersi a pensare davvero.
Megalopolis esiste come esiste perché Coppola negli anni ha ripetuto questo aneddoto – che era un po’ vero ma anche un po’ uno scherzo, confessione ma anche autoironia – talmente tante volte che a Hollywood hanno cominciato a crederci davvero. Non a caso, da quando di Megalopolis si è cominciato a parlare (e ormai se ne parla così tanto da così tanto tempo che è strano pensare che questo film non lo ha visto quasi nessuno ancora) al nome di Coppola sono stati attaccati gli stessi aggettivi che lo perseguitano da tutta la vita. “Maverick”, “gambler”, numerose variazioni sul tema di imprudente e spericolato. Un uomo che non si preoccupa di buttare soldi suoi, figuriamoci quelli degli altri. Un regista a cui non è mai importato di un’opinione che non fosse la sua, e fino al Dracula di Bram Stoker ha avuto ragione (quasi) sempre lui, ma dal Dracula di Bram Stoker in poi non ha ne azzeccata più una. Questa è la cruda verità dietro al mito fondativo di Megalopolis: se il film è indipendente e autofinanziato non è soltanto perché le case di produzione – tutte, maggiori e minori – lo hanno immediatamente considerato “invendibile”, ma soprattutto perché Coppola è considerato irrimediabilmente inaffidabile.
«Mi è già successo tutto con Apocalypse Now», ha detto Coppola ogni volta che qualcuno gli ha chiesto com’è possibile che un venerato maestro come lui sia costretto a ipotecare i suoi amatissimi vigneti, i suoi remunerativissimi hotel per mettere assieme i 120 milioni necessari a produrre il suo nuovo film (questa può sembrare una cifra enorme e lo è per il cittadino-risparmiatore Francis Ford Coppola, ma per un grande studio hollywoodiano «that’s just the cost of doing business»: Sony ha speso 100 milioni per fare Madame Web, tanto per capirsi). E in effetti gli è già capitato davvero con Apocalypse Now, che è stato un altro dei diversi Megalopolis realizzati da Coppola in una carriera in cui il successo gli è servito sempre e soltanto a rilanciare. Lui, Coppola, è sicuro di conoscere già la fine della storia: finirà come con Apocalypse Now, appunto. Vale a dire che Megalopolis sarà un successo, che quei 120 milioni gli ritorneranno nel conto in banca con gli interessi così come gli erano ritornati i 30 che aveva preso dal suo patrimonio personale per girare Apocalypse Now. E alla fine Coppola si potrà pure tenere i negativi come trofeo da aggiungere alla sua immensa bacheca personale: «Sai perché di Apocalypse Now i negativi ce li ho ancora io? Perché all’epoca non li ha voluti nessuno», confessò una volta in un’intervista al New York Times in cui diceva pure che tutta la sua vita di regista era stata la scommessa di un povero. «Quando ho cominciato a girare, non potevo permettermi nemmeno la cinepresa. Sai che ho fatto? Sono andato in banca, ho prelevato 1000 dollari e sono andato a Las Vegas convinto che ne avrei vinti 20 mila».
Magari andrà davvero come prevede lui e l’uscita nelle sale di Megalopolis diventerà davvero una data nei libri di storia del cinema. Se così fosse, a quasi novant’anni Coppola avrebbe compiuto la missione che si è autoassegnato quando non ne aveva nemmeno trenta: dimostrare ai produttori di Hollywood che nessuno ha davvero bisogno di loro. «Se non trova spazio per i film come Megalopolis, Hollywood è finita», ha scritto su Vulture il critico Bilge Ebiri (che ha anche descritto il film come «la cosa più assurda che ho mai visto»). Ma Hollywood per come la conosciamo potrebbe essere finita in ogni caso, anche se lo spazio per Megalopolis alla fine dovesse trovarlo: diventerebbe questo il precedente in cui un regista ha costretto l’industria tutta a distribuirgli un film esattamente come lo voleva lui, a farsi veicolo di un successo nel quale l’industria ha avuto solo una tardiva e limitata e recalcitrante parte. «Non voglio farlo io, ma se l’unica maniera di farlo è farlo io, allora lo farò», aveva detto Coppola quando ancora sperava di trovare qualcuno che gli desse quei 120 milioni di dollari. Quelle parole adesso suonano come una minaccia, come una profezia di sventura in diversi uffici ai piani altissimi di Los Angeles.
Ma Megalopolis potrebbe pure essere il disastro del quale diversi critici stanno cercando di avvisarci dopo la prima al Festival di Cannes. Potrebbe non essere Apocalypse Now ma Un sogno lungo un giorno, il film nel quale Coppola reinvestì – sarebbe più giusto dire scommise – tutti i soldi che aveva fatto proprio con Apocalypse Now. Per realizzare quel film Coppola fondò gli Zoetrope Studios nel 1980, annunciando in pompa magna e in conferenza stampa che la tirannia dei vecchi studios era finita e che il suo avrebbe fatto il cinema come andava fatto. Per girare Un sogno lungo un giorno spese quasi tutti i suoi soldi, costruì set mastodontici che ricreavano strade intere di Las Vegas, chiamò Tom Waits a comporre la colonna sonora: fu un disastro commerciale che incassò solo otto milioni di dollari in tutto il mondo, costringendo Coppola a dichiarare bancarotta – aziendale e personale – tre volte nei dieci anni successivi nel tentativo di tenere a bada i creditori imbestialiti. Alla fine si salverà grazie all’unico investimento oculato della sua vita: l’acquisto di diversi vigneti in California (bottiglie della Francis Ford Coppola Winery le trovate su Tannico, se siete curiosi di assaggiare), e di immobili riconvertiti in alberghi. Tutto quello che ha ipotecato per farsi prestare dalle banche i soldi necessari a girare Megalopolis, per capirci.
E a questo punto è inevitabile chiedersi perché Coppola abbia fatto tutto questo, di nuovo. La risposta a questa domanda è ovvia per chi conosce quella fenomenale generazione di registi americani passata alla storia con il nome collettivo di Nuova Hollywood. Questi registi non avrebbero mai immaginato di diventare i fenomeni commerciali che poi sono effettivamente diventati, perché la loro unica, vera aspirazione era eguagliare gli autori ai quali si ispiravano e che li avevano spinti a diventare autori essi stessi. L’approccio al cinema della Nuova Hollywood era in parti uguali talento, istinto, spericolatezza, giovanilismo, antiautoritarismo, improvvisazione e pretenziosità. Per chi pensa che un film come Megalopolis, che mette assieme «quarant’anni di appunti» su 43 artisti che vanno da Euripide a Kurosawa, e su temi che vanno dall’impero romano alla storia newyorchese passando per le teorie della New Left e i pensatori della filosofia utopica, sia pretenzioso in sé, sarà sufficiente guardare il documentario Heart of Darkness, in cui Eleanor Coppola racconta le riprese di Apocalypse Now. A un certo punto, Coppola (Francis Ford) confessa che secondo lui per un regista l’unica cosa peggiore di fare un film pretenzioso è farne uno inutile. «E io li sto facendo entrambi», chiosa, ridendo, riassumendo in una frase teorie e pratiche della Nuova Hollywood.
È per questo che lo “scoop” del Guardian in cui si riassume il «disastro produttivo» di Megalopolis nel fatto che Coppola abbia licenziato tutto il reparto effetti speciali nel mezzo delle riprese o nel fatto che il regista passasse ore e ore nella sua roulotte fumando erba in cerca d’ispirazione non ha impressionato minimamente chi sa della Nuova Hollywood. Coppola è un regista che ha passato due anni nella giungla per girare un film che avrebbe dovuto finire in tre mesi. Di questi due anni, due settimane le ha passate chiuso in una capanna, con le riprese interrotte, in compagnia di Marlon Brando nel tentativo di convincerlo a rasarsi a zero per interpretare il colonnello Kurtz (Coppola in realtà voleva si rasasse perché Brando era ormai obeso, con i capelli lunghi appariva ridicolo e il personaggio Kurtz tutto poteva permettersi tranne che di apparire ridicolo). Brando però non ne voleva sapere perché diceva che lui Cuore di tenebra lo aveva letto ed era evidente che Kurtz avesse i capelli lunghi. Disperato, un giorno Coppola decide di arrendersi e va nella capanna a dire a Brando che ha vinto lui: Brando a quel punto gli dice che la notte precedente ha letto tutto Cuore di tenebra ed è d’accordo con lui, è ovvio che Kurtz è rasato. Ma come, non l’avevi già letto, gli chiede Coppola. No, ho mentito, gli risponde Brando. Per chi ha vissuto peripezie come questa, mezza giornata chiuso in roulotte a fumare erba è l’equivalente di una pausa sigaretta per un impiegato.
E dunque perché Coppola ha deciso di girare Megalopolis? Forse semplicemente per dire che è possibile, come ha spiegato nella conferenza stampa tenutasi a Cannes il giorno dopo la prima e che ha preso una svolta sorprendentemente esistenzialista (Coppola parla ormai come un uomo che conta i giorni che gli restano come se gli bastassero le dita di due mani). O forse lo ha fatto per spiegare definitivamente quell’aneddoto in cui si immagina di ritrovarsi a sorpresa con 300 milioni di dollari in più nel conto in banca. Nelle tantissime interviste concesse in questi mesi, ha spiegato che in realtà questo aneddoto nasce dall’unico sogno che nella sua vita non è riuscito a realizzare. È un sogno che per avverarsi ha bisogno di fondi assai superiori a quei 300 milioni di dollari, ed è per questo che pensa sempre a quanti soldi una banca gli darebbe se potesse mettere a garanzia del prestito una cifra così alta. Il sogno che Francis Ford Coppola non è mai riuscito a realizzare e al quale continua a tornare è fondare una città. Una megalopoli, per la precisione, ha detto.