Anticipato dal singolo e dal video di "Berghain", Lux uscirà il 7 novembre. Per la critica è il disco che trasforma Rosalia da popstar in artista d’avanguardia.
Immensa e corale, Fata Morgana: memorie dall’invisibile, la mostra della Fondazione Trussardi a Palazzo Morando aperta fino al 30 novembre, potrebbe chiamarsi Il Palazzo Enciclopedico, come la Biennale di Venezia del 2013. Entrambe portano la firma di Massimiliano Gioni, direttore artistico della Fondazione dal 2002, al quale ho avuto modo di rivolgere qualche domanda. Sicuramente troppo poche, vista la portata dell’esposizione: oltre duecento opere di settantotto autori tra medium, pazienti psichiatrici, artisti storici e contemporanei, tutti alle prese con il tema immenso dell’ultraterreno.
La densità è cifra tipica delle mostre di Gioni, come dimostrano La Grande Madre (Palazzo Reale, 2015) e La Terra Inquieta (Triennale, 2017). Ma Fata Morgana, il cui titolo riprende una poesia surrealista di André Breton, ha il valore aggiunto di essere site specific: Palazzo Morando fu infatti la dimora della contessa Lydia Caprara Morando Attendolo Bolognini, aristocratica che tra Ottocento e Novecento coltivò una profonda passione per lo spiritismo, ospitando salotti eccentrici e collezionando scritti esoterici.
Astrazione, femminismo, occultismo, malattia mentale, subconscio, religione e intelligenza artificiale risuonano tra loro, con la collezione permanente del museo e con la memoria muta del palazzo stesso. A Massimiliano Gioni, che ha curato la mostra insieme Daniel Birnbaum e Marta Papini, il compito di setacciare tale cacofonia per trarne un filo conduttore, che ci guidi nel buio dell’ignoto sovrannaturale e dell’ambiguità dell’arte.
Col risultato che Fondazione Trussardi dona un’opera pubblica di qualità e ricchezza superiori a qualsiasi mostra a pagamento e molti musei permanenti. Non lasciatevi ingannare dall’ingresso libero o dalla durata ridotta: Fata Morgana è una mostra imponente, tanto affascinante da incantare ogni curioso e abbastanza coerente da soddisfare i più esigenti appassionati d’arte, pur essendo soltanto la punta di un iceberg di dimensioni incommensurabili, destinato a suggestionare la mente ben oltre la visita. Che comunque richiede diverse ore, quindi tenetevi il pomeriggio libero.

Eusapia Palladino, Seduta con la medium Eusapia Palladino. Alla presenza di Sally Proudhomme e della Baronessa de Watteville, tra gli altri, 1985 – 1900
ⓢ Definisci Fondazione Trussardi una “fondazione senza spazi”, legata a eventi spesso site specific e volatili. Da dove nasce la volontà di organizzare mostre museali come Fata Morgana?
Chiamiamo la Fondazione un “museo nomade”: non abbiamo una sede fissa, ma cerchiamo luoghi che si adattino ai progetti e agli artisti. Di norma presentiamo mostre monografiche con nuove produzioni, anche se il bello della Fondazione è che non c’è una norma. A volte, come in questo caso, il contesto richiede un progetto più complesso. Pensavamo da tempo a Palazzo Morando, ma non si prestava a una monografica. Il progetto ha preso forma quando abbiamo approfondito la figura della Contessa Morando, la cui storia ha dato senso all’intera mostra, dedicata all’influsso dell’occultismo sull’arte del primo Novecento e sulle sue ramificazioni contemporanee.
ⓢ Quando è iniziato il lavoro di ricerca?
Come molti miei progetti, ha una doppia genesi: da un lato una ricerca che porto avanti da anni — avevo per esempio già presentato Hilma af Klint, cuore di Fata Morgana, alla Biennale e al New Museum — dall’altro il lavoro specifico per la mostra, avviato un anno e mezzo fa con Daniel Birnbaum e Marta Papini.
ⓢ Come avete lavorato insieme?
Con Birnbaum collaboro da tempo. È nel consiglio della fondazione Hilma af Klint e curò la sua prima grande retrospettiva al Moderna Museet nel 2013. Papini aveva collaborato alla Biennale di Cecilia Alemani, tematicamente affine a Fata Morgana; ci siamo divisi ricerche e contatti con collezionisti. La produzione è stata relativamente veloce, grazie all’expertise di tutti e tre.
ⓢ Hai descritto la mostra come «una collettiva che parte dal tema del soprannaturale per raccontare l’astrazione, oltre e prima di Mondrian e Kandinskij», ma in mostra c’è anche molto figurativo.
La mostra nasce dalla storia della Contessa e dall’occasione di presentare un importante gruppo di opere di Hilma af Klint. Da lì si apre una riflessione sulla nascita dell’astrazione e sul suo legame con l’occultismo e il ruolo della donna. Poiché Fata Morgana parte dalla figura femminile nell’Ottocento, era inevitabile anche una riflessione sul corpo, che conduce alla figurazione. Le medium, del resto, incarnano la stessa iconografia di molti stereotipi femminili poi sovvertiti da artisti storici e contemporanei.
ⓢ Dalla grande mostra alla Tate di Hilma af Klint di due anni fa a Chiara Camoni al prossimo Padiglione Italia della Biennale, oggi sembra esserci un ritorno d’interesse per lo spirituale nell’arte. Da cosa dipende?
Da una parte è una reazione, anche salutare, alla commercializzazione dell’arte: si vuole ribadire la sua complessità rispetto all’immagine contemporanea del mondo dell’arte professionalizzato e laicizzato. Da qui l’inclusione in mostra di figure eccentriche e di artisti mai riconosciuti come tali. Dall’altra, è forse una risposta al clima di crisi globale, di fronte al quale lo spirituale diventa rifugio. Tuttavia c’è anche il caso del Surrealismo, un movimento non apolitico e che voleva trasformare la realtà attraverso il sogno. Infine c’è la lettura di Adorno, per cui l’occultismo è l’altra faccia del fascismo perché rialza la testa nei momenti di crisi autoritaristiche, offrendo una via di uscita nell’irrazionale. Fata Morgana cerca di essere meno moralista, mostrando come queste credenze “bislacche” abbiano contribuito a rinnovare rapporti di potere — ad esempio di genere — aprendo la strada ad artisti che, senza il pretesto o il sostegno di presunte entità soprannaturali, non avrebbero mai potuto esporre le proprie opere.

Stanisława Popielska, Séance photo, 1913, Elmar R. Gruber Collection of Mediumistic Ar
ⓢ È provocatoria la scelta di usare l’intelligenza artificiale per le didascalie. In un’intervista l’hai definita una fonte dell’inquinamento visivo contemporaneo, eppure è presente anche in alcune opere. Come la immagini nel futuro dell’arte?
Se guardi le foto delle sedute spiritiche di inizio Novecento, probabilmente le ansie e le speranze che suscitavano non erano molto diverse da quelle di oggi sull’intelligenza artificiale. Il nuovo medium tecnologico della fotografia veniva assoldato per creare quelli che oggi chiameremmo deepfake e per dare veridicità scientifica a fenomeni inesistenti. Artisti come Jeanne Wintsch, che nel 1921 scriveva je suis radio, o poetesse come Adrienne Rich, che descriveva la donna come antenna del cosmo, testimoniano che paure legate a tecnologia ed energie invisibili erano già presenti un secolo fa, e siamo riusciti a processarle. E, anche se quelle immagini — così come oggi — nascevano da un trauma, c’è dell’ottimismo nel constatare che quei problemi si erano già posti e che ogni tecnologia può essere sperimentata. Ricorre poi in tutta la mostra il tema della scrittura automatica, mito non solo del surrealismo ma di tutta l’arte. Molte conversazioni sull’AI ruotano attorno a questa fantasia, purtroppo spesso mascolina, del creare nuova vita. Già Omero raccontava di automi creati da Efesto — guarda caso, cameriere meccaniche. Queste associazioni tra sessualità e tecnologia si ripetono da secoli. L’arte può aiutarci a vedere come quei miti antichi si reincarnino nei nuovi, e la responsabilità dell’artista è scardinarli, magari creando dei contro-miti.
ⓢ Legandosi al rapporto tra tecnologia e sessualità, viene in mente Duchamp, centrale nella mostra. Oltre all’opera esposta e alle citazioni esplicite, viene spontaneo tracciare un parallelo tra il suo Grande Vetro e i disegni meccanici dell Air Loom di James Tilly Matthews. Lo trovi corretto?
Duchamp è un pozzo senza fondo che esplicita la qualità polifemica di tutta l’arte del Novecento, ossia che l’opera d’arte è una domanda senza risposta, alla quale lo spettatore porta la sua storia, la sua interpretazione. La somiglianza con Matthews è forse una coincidenza, ma evocativa: sia il diagramma di Matthews, che dice di essere controllato da quella che Duchamp chiamerebbe una “macchina celibe”, sia il Grande Vetro di Duchamp ci parlano di una relazione di amore e odio, spesso sessualizzata, tra la tecnologia e l’umano, nata con la rivoluzione industriale. Rispetto a una lettura “mediumistica” di Duchamp, è interessante che proprio quando smette teoricamente di fare arte — mentre prepara Étant Donnés ed è considerato il padre dell’arte concettuale — ribadisca che l’artista è un “essere medianico”. Anche Sol LeWitt scrive nei Paragraphs on Conceptual Art che “l’artista concettuale è un mistico”. È un fatto curioso, specie dato che si pensa all’arte concettuale come razionalista, più che oracolare. Anche Umberto Eco, che in Opera Aperta definisce l’artista un ingegnere o programmatore, lo chiama però “mistico dell’aritmia”: colui che porta l’eccezione, la rottura della regola, trasformando la tecnologia da meccanismo prevedibile a dispositivo aperto al caso e al caos.

Diego Marcon, La Gola, 2024 © Diego Marcon, courtesy the Artist; Sadie Coles HQ, London;Galerie Buchholz, Berlin/Cologne/New York;Kunstverein Hamburg; Kunsthalle Wien; andCentre d’Art ContemporainGenève for BIM ’24
ⓢ Nel testo della Biennale del 2013 scrivevi di «sogno, visioni e immagini interiori in un’epoca assediata dalle immagini esteriori». Potrebbe descrivere anche Fata Morgana. È un filo conduttore nel tuo lavoro?
Indubbiamente. A me, in fondo, e non lo dico con sufficienza, non importa davvero di questi presunti fenomeni paranormali, né dell’occultismo. Ciò che mi affascina è come, in un momento di trasformazione tecnologica e sociale non dissimile da quello attuale, la figura del medium — non a caso parola che usiamo anche per i mezzi di comunicazione — diventi simbolo del rapporto tra tecnologia e immagini. Oggi siamo tutti medium e media, ricettori e trasmettitori di immagini. Cercando negli angoli più strani del nostro passato si possono trovare modi per ripensare questa relazione, che mi pare centrale oggi.
ⓢ Come è cambiata la tua interpretazione del tema in dodici anni?
Non so se nella mia testa sia cambiata molto. È cambiata, vertiginosamente, la scala del fenomeno. Già allora la quantità di immagini mi sembrava enorme, ma era nulla rispetto a oggi. Le premesse, però, restano le stesse, così come il mio approccio nel fare mostre, che resta una reazione a questa condizione. Per questo, nelle mie esposizioni, accanto alle opere includo materiali di antropologia visiva: lo stato dell’immagine contemporanea, così pervasiva e volatile, ci invita a riflettere non solo sull’arte, ma sulle immagini in generale.
ⓢ L’anno prossimo la Fondazione Trussardi compie trent’anni. Anticipazioni sui prossimi progetti?
Quella nata nel 1996 era l’avventura di Nicola Trussardi, mentre la Fondazione nella sua forma attuale è del 2002, quando Beatrice Trussardi e io abbiamo iniziato a lavorare insieme, quindi tendiamo a considerare quello l’anno d’inizio. Non ci sono ancora anticipazioni, ma ora che me lo dici forse dovremmo festeggiare. Grazie per avermelo ricordato.
Immagine: Chiara Fumai, “The Book of Evil Spirits”, 2015, courtesy Archivio Chiara Fumai
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