Cultura | Letteratura
Marco Missiroli, finalmente libero
Intervista allo scrittore in libreria con il suo nuovo romanzo, Avere tutto, il libro che segna un cambiamento dopo il successo e le aspettative di Fedeltà.

Fotografia di Mattia Zoppellaro
Dopo Fedeltà, il libro apparentemente “definitivo” che divenne anche una serie tv Netflix, Marco Missiroli esce con Avere tutto, un libro finalmente scarico di aspettative, nato sulla tavola di cucina della casa d’infanzia di Rimini, accanto a un mazzo di carte, nel primo lockdown. Un libro ad altissima densità, dove le parole, scritte a penna col contagocce giorno a giorno, guidano la trama e sono un precipitato della lentezza e di quella bolla di silenzio (sua figlia, neonata, la tenevano i nonni). Un padre e un figlio si incontrano, nel grande vuoto lasciato dalle loro donne, per dirsi addio. La trama principale è rotta, a singhiozzo, dalle storie dei demoni di padre e figlio: l’azzardo e il ballo. La tripartizione aumenta di intensità fino a prendere il ritmo frenetico delle balere, quando, nell’ultima parte, si salta in modo sincopato tra il Gran Galà di Gabicce – l’ultima gara di ballo dei genitori – e la ricaduta ludopatica del figlio, rimasto orfano. Ma il padre gli ha lasciato un bigliettino nel mazzo di carte che dice: amracumand. E prima di morire gli ha detto «Brucia l’orto!», perché voleva lasciarlo totalmente libero. Libero come si è sentito Marco Missiroli scrivendo questa storia.
ⓢ Uno scrittore in pieno lancio del libro. Come sta?
Lo scrittore deve scrivere. Lettori e librai sono la parte bella delle uscite, ma l’esposizione del sé è terribile. Quando mi fotografano, io divento gobbo, mi sembro mio nonno.
ⓢ Non solo presentazioni, ma anche il rapporto con gli influencer, che ti taggano nelle stories e vogliono dire la loro. Tu stai al gioco, o rimpiangi il vecchio mondo?
Ho un grande rimpanto del pre-2008. Il secolo secondo me è finito nel 2008 con la crisi dei mutui subprime. Prima di allora era tutto diverso: c’era una costituzione della parte letteraria dettata all’antica. Il tribunale una volta era igienicamente confinato al sabato mattina in edicola. Tu andavi in edicola, vedevi se ti avevano stroncato o no, chiudevi il giornale e finiva lì. Oggi appena accendi il telefono c’è un giudizio su di te. Ma ne sono anche grato: è il motore che ti porta a vendere. Però è complesso a livello percettivo. Mi interessa molto l’assetto neuronale: come hai visto, nel libro il poker viene affrontato neuronalmente. E a me interessa capire come si muovono ossitocina, istamina, cortisolo in base a questo bombardamento. L’ho sperimentato nel 2015 con Atti osceni. Lì, per la prima volta, conobbi cicli giornalieri di esaltazione e abbattimento. E con Fedeltà uguale. Questo libro ha più up che down: pericoloso come la cocaina. Certo, si potrebbe anche spegnere il telefono, ma dato che ci sei si balla. Io sono poi molto colluso col sistema di Instagram: il colpetto di endorfina me lo do sempre la mattina.
ⓢ È interessante che tu abbia paragonato l’andamento giornaliero del tuo libro sui social alle botte che dà il gioco d’azzardo.
Perché è così. Chi ha giocato, come me, lo sa. C’è una ciclotimia legata a quando è in programma un tavolo, se di giorno o la sera. E man mano che il contatto col demone si avvicina sei up, e dopo sei down. E credo che il tempo presente di tutti sia ciclotimicamente vicino all’azzardo per tante cose. È l’iphone che ha reso l’esperienza percettiva quotidiana simile al gioco.
ⓢ Con il tuo ultimo libro, sembrava che avessi fatto il libro che vogliono tutte le case editrici, il libro della vita che deve vincere tutti i premi. Con questo ti sei un po’ smarcato?
Fedeltà fu l’incarnazione dell’hype. E aveva in sé anche un anatema: la preannunciata vittoria dello Strega, che non farà mai valutare un libro per quel che è. Fedeltà è stato vittima della modernità del lancio editoriale del libro. Certo, ne ha guadagnato perché è stato di grande dibattito. La grande fortuna di uno scrittore è provare tutte le forme del lancio editoriale e poi vedere dove ti assesti. Questo va detto e ridetto: nessuno scrittore vuole l’oblio. Se deve passare per una forma di modernità dove l’hype devia la percezione, ci sta.
ⓢ E dopo l’hype, ti sei sentito più libero.
È una questione di anima: ti riempi di quella roba lì e poi non vedi l’ora di fare l’opposto, qualcosa di quieto che la scrittura assorbe. Come se fossi andato una sera a bere vodka e il giorno dopo hai bisogno di vino. Avere tutto si è smarcato perché è stato un libro senza aspettative, e ha tirato fuori la mia lingua migliore. La casa editrice ha seguito questa mia naturalezza già dalla scelta della copertina, e spero che il libro abbia un decorso naturale: che sia il lettore a dire è buono non è buono, e che non abbia sopra un’elettricità che devia i pareri. Però sono molto contento perché questo libro mi ha messo a posto: editorialmente, letterariamente, sentimentalmente, con me stesso.
ⓢ Il libro è disseminato di registri tecnici, pieno di studio dietro.
Viene da Houellebecq: l’oscillazione a sinusoide della scrittura per cui le parti “basse” possono essere come vuoi tu, a seconda del sentimento e del cuore che hai per quella scena, ma per le parti alte, quando cioè vai in zone specifiche, devi scomodare la parte positivistica della questione.
ⓢ Come agisce la ricerca sulla scrittura?
La ricerca sono i preliminari che vorresti non finissero mai. Io arrivo al libro che sono murato di roba. E studio così tanto che la roba che ho studiato è già introiettata e non tecnicamente riversata, perciò fluisce all’interno della scrittura.

ⓢ Il libro è densissimo. So che hai ottenuto densità scrivendo poco al giorno.
Quattro o cinque righe a penna, senza riscrittura, venivano naturali e fluenti. La depurazione era eccezionale da sé, così ho lasciato stare questo ritmo. Se aggiungevo righe, le cancellature aumentavano. La gittata buona era la prima. Il libro si è tirato tantissimo: per una pagina, 5 giorni. La prima frase che mi veniva aveva già la densità che un tempo ottenevo con le riscritture.
ⓢ Come funziona, con questa pratica lenta, la costruzione dell’intreccio?
Prima sono sempre stato ostaggio del plot. In questo caso, è il contrario: partivo con un clima sentimentale – che era il sentimento riminese, la malinconia del fuori stagione – e questo clima dava la lingua, e la lingua dava la trama. Non c’è ansia da prestazione nel libro. L’incipit («Mi chiama mentre sono al supermercato») all’inizio era «Mi chiama mentre sono all’Esselunga di via Ripamonti», ma non sapevo cosa sarebbe venuto dopo. Ho fatto fare tutto alla lingua e a Rimini.
ⓢ È un romanzo maschile?
No, affatto. Sono due maschi che si ritrovano sotto il segno delle donne che hanno perso e tutto quel che fanno è guidato dalle donne. Ballano, cucinano, sparecchiano. I loro gesti sono dolci, rifanno i letti per bene. La vera domanda è: perché sta alle donne rifare i letti? Quando mio padre andò in pensione per un infarto, nel 1999, cominciò lui a fare i lavori di casa. Io sono cresciuto in questo ribaltamento del patriarcato.
ⓢ Cosa succede agli scrittori nelle case dove sono cresciuti? Cosa è successo a te?
Succede che cambia tutto. Io l’ho scritto in quella cucina dove è ambientato il libro, sul tavolo di legno, con le carte da briscola appoggiate sulle noci. A volte, nel bar dell’Ina Casa. Fedeltà l’avevo scritto in un bar milanese. E si vede. Bisogna stare molto attenti a dove si scrivono i libri.
ⓢ Qual è stata l’occasione per passare tanto tempo a Rimini?
La pandemia. Io mia moglie e nostra figlia di 5 mesi eravamo partiti a fine febbraio 2020 col sentore che qualcosa stava succedendo. Ed è lì che ho impostato il libro. Infatti il libro ha un silenzio, una bolla che viene da lì. Il luogo raccontava il romanzo e il romanzo raccontava il luogo, e non si finiva mai.
ⓢ Per lo scorso libro, hai mappato Milano. Come è stato farlo con Rimini, la tua città dai predecessori illustri?
Se questo romanzo deve qualcosa lo deve a Zurlini, con La prima notte di quiete, non a Fellini. A differenza di Milano, che ha una divisione molto precisa tra quartiere, Rimini no, e questo mi ha portato allo sconfinamento, in particolare verso il mare. E poi mi ha riportato a quando vivevo lì. Dopotutto, gran parte dei temi dei libri nascono prima dei 19 anni.
ⓢ I genitori del protagonista, per capire se il figlio è dentro o fuori dal vizio, si chiedono se è “lui” o “l’altro” (quello che gioca). E tu? Sei tu o l’altro, quando scrivi?
Io quando scrivo sono tutti e due. Sono nato con la faccia da bravo ragazzo, poi ho capito che Lombroso aveva sbagliato, che avevo bisogno di deflagrare. E mi fido molto delle persone che vivono le loro ombre, non mi fido di quelli che vivono solo le parti bianche.
ⓢ Essere orfani è essere liberi, scrivi. Come si vive la morte di un padre quando non si ha discendenza, come il tuo personaggio?
Questo viene da Annie Ernaux, che mi disse: molto spesso, la libertà è sapere che non abbiamo nessuno davanti e nessuno dietro. E io dissi: è terribile… è meraviglioso. E ci ragionai. In effetti, la libertà viene quando non abbiamo niente da perdere niente da dare in eredità. Sandro si trova in un’occasione d’oro: diventa orfano a 41 anni, e non darà orfananza. La paternità per me è stato un forte interrogativo su questo. Ho pensato: adesso sono fregato, adesso dovrò cercare di morire più tardi possibile. Il tempo ticchetta più rumoroso quando devi pensare al futuro. Soprattutto, Annie Ernaux ha smesso di darci la futuribilità per forza, non sempre dobbiamo essere futuribili, e non per forza dobbiamo essere nel passato, credo che la libertà sia questa. Solo una volta, nella vita, ho provato la libertà assoluta: era il 2011, ero su un cavalcavia in via Ripamonti (ancora, ndr), con la bici a noleggio, non avevo debiti, fidanzate, vizi, figli e mi son sentito liberissimo. Ricordo perfettamente quello Zeitgeist di non tracciabilità. Quando Sandro arriva a casa orfano, accende tutte le luci: il gesto che il padre odiava.
ⓢ Il papà di Sandro smette di ballare dopo un inciampo, e poi ricomincia col “salto Scirea.” Qual è il tuo inciampo?
Ne ho così tanti… Però ogni volta che sono inciampato, dopo ho saltato non più in alto o meglio, ma diverso. Il salto “Missiroli” è un salto un po’ matto e mi viene bene.