L’industria dell’intrattenimento americana non si è mai davvero ripresa dalla crisi cominciata con la pandemia. Una crisi che è diventata quella di un modello economico intero e di tutta una città, Los Angeles.
Se credessimo ai segnali dell’Apocalisse, la California a breve dovrebbe aspettarsi una pioggia di rane dal cielo. Il Golden State, il modello anti-Maga, la quarta economia del mondo (ha di recente superato il Giappone), il luogo dove i sogni diventano realtà – prima con l’oro poi con Hollywood – sta diventando un magnete delle calamità ecologiche, capitaliste e politiche.
Piogge torrenziali, aridità biblica, poi fuochi sempre più violenti e ingestibili, senzatetto che costruiscono tendopoli sulla walk of fame, ispanici che diventano trumpiani, sceneggiatori in sciopero, l’AI che minaccia il cinema, supermercati che vendono fragole singole a 19 dollari, genietti del tech che passano da Obama a Julius Evola, agenti federali anti-immigrazione che fanno le ronde nelle scuole medie, poliziotti antisommossa, marines, automobili autoguidanti in fiamme, monopattini a noleggio lanciati dai cavalcavia, proiettili di gomma sulle gambe delle reporter australiane. Sembrano scene di film co-diretti da John Carpenter e Michael Bay, con un po’ di Blues Brothers – “io li odio i nazisti della Silicon Valley”.
L’esperimento
Los Angeles, isola felice, “sanctuary city”, come si dice in gergo migratorio, è il set di questi paradossali scontri. Città che ora vede le sue strade diventare la manifestazione fisica della lotta ideologica isolazionista, dove l’America first si incarna nelle guardie che trascinano via i latinos tatuati e nelle promesse di deportazioni di massa. A lungo si è parlato di “modello California”, cioè di un’America orgogliosamente woke, che grazie al sistema di indipendenza federale – che ora Trump sta mettendo alla prova – voleva dire al mondo: “Noi non diventeremo mai come quelli lì, noi non saremo mai come i redneck complottisti”.
Ma il wokismo si è ripiegato troppe volte su sé stesso e ha creato dei cortocircuiti. Ora il Kennedy trumpiano, RFK Jr., ha portato con sé le mamme bio nella sua crociata contro i coloranti e contro il latte pastorizzato. Quando ci sono i fuochi devastanti di gennaio scorso, l’amministrazione fa una figura tremenda perché a guidare i vigili del fuoco – in una narrazione ancora più potenziata dalla destra – c’è una donna scelta in virtù della sua diversity e dell’impegno sull’inclusione, e non delle sue capacità di gestione delle emergenze.
Dopo l’invio della guardia nazionale la sindaca di LA Karen Bass ha detto che la sua città sta venendo usata come un test per l’autoritarismo, un esperimento di dispotismo. Ma Los Angeles è sempre stato un esperimento. Lo è stato a livello urbanistico e lo è stato a livello politico e ideologico (quante sette, quante sottoculture sono nate qui?) e anche “geografico”, deviando fiumi per verdeggiarla. Basta leggere Mike Davis, o anche l’ultimo libro di Chiara Barzini. Diceva Davis nel suo City of Quarz: «Los Angeles non dovrebbe esser capita come una mera città. Al contrario, dal 1888, è una merce. È un qualcosa che si può pubblicizzare e vendere alla gente degli Stati Uniti, come le automobili, le sigarette o il collutorio». Oggi questa merce è meno attraente – le città come LA, ma anche New York, bastioni blu, perdono popolazione, mentre sale quella delle città del Texas, della Florida, dell’Arizona e del North Carolina (e la colpa è anche del mercato immobiliare). Ora LA è l’esperimento del Project 2025, se le manovre bannoniane riescono qui riusciranno dappertutto.
Kristi Noem, segretaria della sicurezza interna statunitense, ha bollato LA come “città di criminali”. Trump usa gergo da guerra. Dice ai soldati “libereremo Los Angeles”. Nel frattempo, seguaci di alto e basso livello – tipo il senatore Ted Cruz – condividono fake news per giustificare il pugno duro, usando video vecchi e screen di videogiochi per mostrare la violenza delle folle arrabbiate. Trump distrugge il modello California con l’esercito, ma può farlo perché era già marcio dentro. Il soft power losangelino per eccellenza, quello di Hollywood, scema sempre più, e così il suo impatto sugli elettori.
Cosa viene dopo Los Angeles
A cosa è servita la Brat Summer, a cosa sono serviti i post della “gattara” Taylor Swift, a cosa sono serviti i cocktail di raccolta fondi con Clooney e Spielberg e Oprah se poi il vero potere di influenza ce l’hanno avuto i podcaster dell’alt right, gente che commenta i video sui rettiliani e dice che Joe Biden è stato sostituito da un androide? La California ha prodotto la più grande perdente presidenziale – Kamala Harris, che ha permesso a Trump 2.0. di evolvere. Due delle icone repubblicane per eccellenza sono prodotti californiani. Uno esplicito, per quanto a volte piegato a piacimento alla propria agenda: Ronald Reagan, nato in Illinois ma qui diventato star e poi governatore. L’altro inconscio, feticcio del risentimento contro la coolness democratica, Richard Nixon, che diceva «un uomo non è finito quando è sconfitto, è finito quando smette». Quello che sudava mentre l’oppositore dem-aristocratico che andava a letto con Marylin Monroe era tutto bello fresco in tv. Il quacchero paranoico e il cowboy ultraliberista rappresentano insieme l’anima sotterranea del repubblicanesimo in potenza.
Parlare della fine della California come l’abbiamo sempre conosciuta, e di Los Angeles come morta, è esagerato. Ma ci si chiede cosa resterà dello Stato, della “repubblica di California”, e della città degli angeli, se diventano il terreno di scontro di quello che sembra un inedito tentativo di stiracchiare la Costituzione. Secondo alcune fonti, nel 1977 l’allora presidente Jimmy Carte disse, in un incontro di gabinetto: «Tutto quello che inizia in California ha sfortunatamente la tendenza ad allargarsi».

Abbiamo curato due talk per "The Red View - Unveiling Passion", l'evento di Campari che negli scorsi giorni ha animato il sedicesimo piano dell'edificio milanese, finalmente ristrutturato e restituito alla città dopo 5 anni di lavori.