Con spettacoli come Einstein on the Beach portò musica, videoinstallazioni e l’interdisciplinarietà a teatro, modernizzandone il linguaggio.
Questa estate 2025, arrivata ormai a metà tragitto, sarà ricordata come una delle più stranianti, angoscianti e piene di timori: il perché è facilmente intuibile, dando un’occhiata alle prime pagine dei giornali. Sta tornando a girare la parola “ipernormalizzazione”: in breve, scrivevamo in questo articolo, «indica una scissione vissuta dall’individuo all’interno di regimi politici decadenti, dove la consapevolezza che il sistema è allo sfascio — inefficiente, corrotto, senza alternative all’orizzonte — non impedisce affatto di continuare la propria vita come se nulla fosse». Ci ipernormalizzeremo anche al mare e in montagna, ora che finalmente le nostre teste sono libere dalle incombenze lavorative quotidiane, oppure no? Questa lista di consigli di letture serve anche a scappare, per un po’, da una realtà per niente piacevole: libri escapisti, li abbiamo chiamati, per viaggiare in mondi lontanissimi, il più lontano possibile dalla memorialistica e dalla quotidianità che ci circonda. Buona lettura, e buona estate.
Graham Greene, L’americano tranquillo (Sellerio)
Traduzione di Alessandro Carrera
Fuggire come un personaggio di Graham Greene, ritrovarsi da un’altra parte del mondo con pochissime certezze, se non quella che la vita valga la pena di essere vissuta, cosa che peraltro non mette al riparo da cinismi e amarezze assortite. Identificarsi con Thomas Fowler, voce narrante de L’americano tranquillo, il romanzo forse più bello dello scrittore inglese, immaginarsi come lui, giornalista di mezz’età fallito inviato in una colonia sull’orlo del collasso, il Vietnam degli anni ’50, con l’occupazione francese che sta per essere sbaragliata e gli americani che iniziano ad affacciarsi nel Paese. Romanzo tropicale con dentro guerra, oppio, triangoli amorosi e agenti del caos dall’apparenza bonaria, non riesco a immaginare un libro migliore da portarsi in vacanza. O per fuggire. (Cristiano de Majo)
Gianni Montieri – Non era un mostro strano (66thand2nd)
Non esiste, credo, un mezzo di trasporto più “poetico” del treno. Ma attenzione vorrei che non fraintendeste quest’aggettivo così abusato. Poetico nel senso di capace di produrre poesie, più che “poesia”. Paesaggi che cambiano, persone che salgono e scendono, squarci di luce e di tempo, come se fosse squadernata davanti ai nostri occhi una raccolta di versi. Non è strano allora che Gianni Montieri, di formazione poeta, abbia scelto il treno come luogo da raccontare in questo libro, anche se ha scelto di farlo con la prosa. Non esattamente una prosa narrativa in realtà. Nel senso che sì, ci sono storie, aneddoti, piccoli racconti, ma quello che riesce particolarmente bene qui è proprio la restituzione di quegli squarci di luce e di tempo che si vivono nei treni, in viaggio, da fermi, in stazione. Ed è, secondo me, la quintessenza dell’altrove, anche se non sei ancora arrivato. O forse proprio per questo. (Cristiano de Majo)
Giorgio Manganelli – Esperimento con l’India (Adelphi)
In questo libriccino Giorgio Manganelli racconta il suo primo viaggio nel Paese dell’Assoluto, compiuto nel 1975. È uno dei tanti resoconti di viaggio del Manga, «viaggiatore tardivo e magistrale» come lo definisce la sinossi di Adelphi, ed è anche molto breve: centodue pagine per parlare di India, per stanare le parole sul viaggio per antonomasia, il luogo per eccellenza, la destinazione di default. Solo Manganelli poteva riuscirci, a portarci dentro al rompicapo indiano con la sua prosa che non offre risposte, eppure affronta tutto quello che anche il più scettico, se ha mai avuto modo di pensarci, si è sempre chiesto su questo Paese che è la madre e la fine di tutto. Sarei dovuta andare in India nell’aprile 2020, cosa che non è successa per ragioni ovvie, e non volevo andarci perché mi interessasse la retorica che noi occidentali le abbiamo appiccicato, ma perché ammettevo di sentire anch’io il bisogno proletario di vedere quelle strade, quelle città, quei templi pieni di fiori e frutta. Manganelli mi ci ha portato, facendomi riflettere su quel bisogno e anche ridere, come solo Manganelli sa fare. «Entrare a Bombay [oggi Mumbai, ndr] provenendo dall’aeroporto dà la sensazione di conoscere un qualche grande corpo penetrandolo dallo sfintere», esordisce a pagina 24: non c’è anfratto in cui non abbia guardato, mendicante che non abbia interrogato (e sfidato), fregio di cui non abbia letto la storia, lascito colonialista che non abbia deriso. Centodue pagine e vi tornerà la voglia di India, e di viaggiare come Manganelli. (Silvia Schirinzi)
Sergio Peter, Altavìa (Il Saggiatore)
Forse questo romanzo non sarà escapista nella trama, ma certamente lo è nella forma. Altavìa è ambientato poco lontano dal posto in cui sto scrivendo queste parole, che sarebbe Milano zona nord: è ambientato in questa città, nella campagna qui intorno, e nelle Alpi che crescono a settentrione da questa pianura, su fino alla Svizzera. Ma è un romanzo coraggioso, decisamente un po’ pazzo, non per tutti, va detto, perché coi libri bisogna essere onesti, scrivere bene i bugiardini altrimenti diventa marketing inutile. Ero molto curioso di Altavìa, non so perché, forse il merito era di qualche articolo che l’autore aveva scritto per questa testata e per Undici, la sua cugina sportiva. Eppure non ero pronto a tanta materia, tanta anarchia, ma anche tanta organizzazione: qui dentro c’è tutto, nel suo essere la storia picaresca di un gruppo di ragazzi e ragazze in montagna e del loro rapporto coi lupi. A un certo punto compare il santino di Roberto Bolaño, ed effettivamente I detective selvaggi è la più robusta ispirazione e aspirazione che queste quasi 450 pagina abbiano, per la dimensione avventurosa, per l’eterogeneità, per quanto questo treno narrativo deraglia continuamente da quello che un romanzo beneducato dovrebbe fare. Ma è un viaggio appassionante e soprattutto inedito, al fresco tra i lupi. (Davide Coppo)
Matthew P. Shiel, La nube purpurea (Adelphi)
Traduzione di J. Rodolfo Wilcock
Questo libro mi ha cambiato la vita, penso: mi ha fatto capire quanto la letteratura possa terrorizzare e portare, quasi, sull’orlo della pazzia. E se a inizio Duemila mi sembrava un sogno drogato e delirante, adesso invece, con una crisi climatica esplosa, sembra quasi profetico. È la storia di un novello Adamo che si trova, un giorno, unico uomo sulla terra, dopo che una “purple cloud” ha avvelenato tutti. Fin qui, tutto abbastanza canonico. La meraviglia di Shiel sta nel climax di follia che il protagonista scala anno dopo anno, la sete da conquistatore e distruttore, la sfida lanciata a Dio, il gozzovigliare distruttivo sulle rovine della civiltà. Fino a che non si accorge, forse, che non è davvero il solo essere umano rimasto. (Davide Coppo)
Herman Melville, Typee. Avventura in Polinesia (Piano B Edizioni)
Pochi giovani uomini arrabbiati lo sono stati più di Herman Melville. Non gli piaceva il suo mondo, quindi quello che moltissimi giovani uomini arrabbiati facevano all’epoca: salì su una nave e partì. Sognava di fare l’avventuriero e ci riuscì (e poi si pentì e infine tornò a casa), diventato avventuriero divenne pure scrittore. Il suo primo libro, Taipei (Typee: A Peep at Polynesian Life, 1846), è un romanzo d’avventura ma soprattutto un riuscitissimo esercizio di autofiction. Se c’è un motivo per leggere questo libro sono le descrizioni quasi febbrili che Melville fa dell’isola di Nuku Hiva, parte dell’arcipelago delle Marchesi, dei suoi abitanti, dei riti, delle relazioni, della ritualistica. Melville, in quel periodo passato su Nuku Hiva, in certi momenti raggiunse il massimo della pace interiore che la sua indole gli consentiva. Persino il dolore cronico di cui soffriva alla gamba (causato da un incidente mai davvero chiarito avvenuto proprio su Nuku Hiva) quasi smetteva di tormentarlo, nei momenti estatici passati sull’isola. Ovviamente, non bastò tutto il benessere mentale, come lo chiamiamo oggi, a convincere Melville a rimanere con i Taipi. Alla fine tornò nel mondo dal quale era fuggito, ma Taipi non se la dimenticò mai. Perché la gamba continuò a fargli malissimo per il resto della sua vita e, soprattutto, perché grazie a quell’avventura divenne famoso come “l’uomo che aveva vissuto tra i cannibali”. Anche se, forse, tra i Taipi non c’era nessun cannibale. (Francesco Gerardi)
Lawrence Osborne, Cacciatori nel buio (Adelphi)
Traduzione di Mariagrazia Gini
Perdersi in un luogo tropicale, svegliarsi privati di tutto quello che si aveva, anche di una consistente vincita a un casinò della zona. Svegliarsi frastornati, senza sapere bene dove ci si trova e decidere – o forse non decidere mai davvero – di lasciarsi trasportare dagli eventi, proprio come su una barca lungo il fiume verso la città più vicina. Provare a dimenticare chi si era, dove si viveva, come e con chi si costruiva i giorni e la realtà per provare a costruirne un’altra di nuova, con un nuovo nome, abiti diversi, ricordi differenti. Chissà se sarebbe davvero possibile, se davvero sfidare l’ignoto e gli abissi dentro sé stessi potrebbe risultare davvero una via plausibile se dove ci si trova è il confine tra Thailandia e Cambogia, come nel caso di Robert, il protagonista di Cacciatori nel buio di Lawrence Osborne. Un luogo magico e offuscato dove le piogge del monsone e il caldo afoso che le seguono accompagna il protagonista in continui bivi esistenziali, come in una sorta di videogame dove le vite sembrano infinite, le possibilità potenzialmente terrorizzanti ma non per questo impossibili da vivere. Robert poco alla volta, uno schermo alla volta, abbandona la sua vecchia vita, quella di un insegnante senza troppi guizzi del brumoso Sussex e abbraccia la vita da barang, da occidentale in Estremo Oriente, e costruisce il suo passato e il suo futuro sfidando soprattutto ciò che era, provando a capire chi potrebbe diventare. (Teresa Bellemo)
Werner Herzog, La conquista dell’inutile (Mondadori)
Traduzione di Monica Pesetti e Anna Ruchat
In Fitzcarraldo di Werner Herzog, ambientato in Amazzonia tra ‘800 e ‘900, Brian Sweeny Fitzgerald, detto Fitzcarraldo, è un uomo dominato da un unico, assurdo obiettivo: costruire un grande Teatro dell’Opera in un piccolo villaggio sperduto nella foresta Amazzonica dove si esibiranno i più grandi nomi della lirica, tra cui Enrico Caruso, di cui è ossessionato. Un progetto che ovviamente fallirà rovinosamente, ma darà come risultato un film sublime e altrettanto “folle”, difficilissimo da girare, le cui riprese vennero rallentate e interrotte da un’incredibile sequela di disgrazie e incidenti. La conquista dell’inutile è il diario tenuto durante i due anni e mezzo di lavorazione del film nella giungla amazzonica, tra il giugno 1979 e il novembre 1981, in cui Herzog, ormai tutt’uno col suo protagonista, scrive: «Se io abbandonassi questo progetto sarei un uomo senza sogni, e non voglio vivere in quel modo». In questi diari, pubblicati oltre vent’anni dopo l’uscita del film, Herzog parla soprattutto del difficile rapporto con la foresta pluviale. Ma la migliore descrizione la dà lui stesso nell’incipit scritto in occasione della pubblicazione: «Queste annotazioni non sono il resoconto delle riprese, a malapena accennate, né possono essere considerate diari, se non nel senso più ampio del termine: sono qualcosa di diverso, un paesaggio interiore partorito dal delirio della giungla». (Clara Mazzoleni)
Jo Walton, Fra gli altri (Ne/oN)
Traduzione di Silvia Costantino
Bloccata in un detestabile collegio inglese del 1979, invisa per la sua zoppia e il suo carattere pungente, Morwenna trova conforto tra le pagine di qualsiasi libro su cui riesca a mettere le mani. Fra gli altri di Jo Walton è il diario di una lettrice forte che trova nella lettura un’evasione dalla realtà ostile che la circonda. Incidentalmente, è anche il memoir letterario dell’autrice, che rilegge il rapporto difficile con la propria madre attraverso un romanzo che parla sia agli adulti sia agli adolescenti.La scrittura matura e personale di Walton rilegge i libri della sua adolescenza con occhio adulto e ironico, trasformando la lettura da strumento per evadere dal mondo reale a tramite per la costruzione di una comunità. Fra gli altri è anche la storia di un gruppo (oggi diremmo un fandom) che in un’epoca priva di cellulari, Internet e connessioni veloci tiene insieme solitudini in una comunità fondata sulla passione comune per i romanzi.Quando uscì nel 2013 vinse i premi Hugo e Nebula. Dopo una prima edizione italiana ben presto scivolata ben presto fuori catalogo, è stato di recente riscoperto e ripubblicato da Ne/oN. (Elisa Giudici)
Ian McDonald, Luna (Mondadori)
Traduzione di Lia Tomasich
Immaginate Succession (o ancor meglio Dallas, per chi ha qualche estate di letture e visioni alle spalle in più) ma ambientato sulla Luna ormai ampiamente colonizzata, divisa tra gli interessi economici di gruppi commerciali cinesi, brasiliani, africani e statunitensi. Luna di Ian McDonald è abbastanza lontano nel suo puntuale, avvincente racconto alla corsa alle preziose materie prime lunari da non far salire l’ansia nel lettore e appassionante quanto la miglior serialità contemporanea (e le soap di un tempo) nel suo racconto di come tre generazioni di coloni si emancipino progressivamente dalla Terra, creando una loro società e cultura pericolosa, mercenaria, radicale e dannatamente sexy. Pochi romanzi su uno scenario economico e politico sempre meno “fanta” e sempre più vicino sono così in grado di far dimenticare di stare (ancora) sulla Terra, con un mix irresistibile di tradimenti sentimentali, guerre commerciali e legal drama e tanto, tantissimo su cui riflettere per mano di un maestro del genere che sa trasformare i suoi lunghi studi sull’economia lunare (già avviatissima) in un intreccio avvincente perfetto da portarsi in vacanza. (Elisa Giudici)