Cento milioni di dollari di perdite nel primo trimestre del 2025, tutto per colpa di utenti che rateizzano e poi scappano.
Da giorni si parla del “Klarna Debts Trend”, la pratica cioè di non pagare le rate di app come Klarna e poi farci sopra un beffardo balletto su TikTok. Klarna, per chi non lo sapesse, è una fintech svedese con ormai oltre 100 milioni di utenti in tutto il mondo basata sul modello “buy now, pay later”, cioè sull’idea di fornire una sorta di carta di credito virtuale ai ragazzini per comprarsi tre paia diverse di New Balance senza particolari garanzie sul credito e (per il momento) senza poter mandare qualcuno a spezzargli i pollici se poi non pagano. Non ci crederete ma il modello di business sta incontrando qualche difficoltà, e più che rovinarsi la vita i cattivi pagatori rischiano di mandare il salmone di traverso ai dirigenti di Klarna: perdite di oltre 99 milioni nel primo trimestre del 2024, più che raddoppiate rispetto a un anno fa, e quotazione in borsa rinviata a data da destinarsi, un po’ come i pagamenti degli utenti, solo che nessuno a Klarna pare in vena di balletti.
La radice del problema a quanto pare è negli Stati Uniti, dove notoriamente ci si indebita anche per comprare le sigarette – i luoghi comuni degli europei sugli americani sono generalmente più fondati di quelli contrari, se non altro perché prestiamo agli USA molta più attenzione di quanta loro ne prestino a noi – e quasi la metà della popolazione ha sperimentato ritardi nei pagamenti nell’ultimo anno.
Rateizzare tutti i giorni, tutto il giorno
Questo dato apre uno scorcio su uno scenario decisamente meno instagrammabile, descritto in questi giorni da un lungo articolo del New York Times: sempre più consumatori americani utilizzano Klarna o servizi analoghi come Affirm e Afterpay non per spese eccezionali o guilty pleasure, ma per il cibo e la spesa di tutti i giorni.
Il pane altrui sa di sale, e chissà di cosa sa il burrito che, nel momento in cui lo addentano, appartiene ancora in buona parte a un’oscura multinazionale dei servizi finanziari, ma grazie alla policy a interessi zero di queste piattaforme – che guadagnano invece dalle convenzioni coi partner commerciali – le famiglie trovano un po’ di sollievo dall’assedio dei prezzi, che Trump aveva promesso di rompere ma a cui finora non ha fatto nemmeno il solletico.
Avete mai sentito parlare di tecnofeudalesimo? In caso opposto vi spiego, dato che in quanto servi della gleba ci spetta almeno la consolazione della magniloquenza. Recentemente popolarizzato da un pamphlet di Yanis Varoufakis (ok, forse “popolarizzato” è un po’ troppo) il concetto in realtà galleggia da anni nella mariglia di quel filone di critica radicale al capitalismo contemporaneo che potremmo accademicamente definire molto depresso.
Dal capitalismo al tecnofeudalesimo
L’idea è che il capitalismo non è soltanto come tutti sappiamo veramente malvagio, ma è anche cafone e se ne è andato senza salutare né avvisare lasciando il posto a qualcosa di molto peggio, un sistema ancora più estrattivo e predatorio: il tecnofeudalesimo, appunto, che dall’assolata Mordor della Silicon Valley abbraccia ormai con le sue tetre ali il globo intero. Con una sintesi un po’ brutale, si può dire che nel tecnofeudalesimo i capitalisti non operano più in termini di profitti ma di rendite, immensi feudi digitali – i social, le piattaforme, gli ecommerce – popolati di utenti che pagano con dati e/o denaro praticamente ogni aspetto della vita quotidiana – ordinare la spesa, spostarsi in città, guardare un film – senza arrivare ad acquistare definitivamente, e quindi a possedere davvero, mai nulla. Una visione del mondo d’oggi che dà conto anche di quelli che David Graeber chiama bullshit job, o che riviste più garbate definiscono ascesa del “do nothing management”. Il middle management del tecnofeudalesimo funziona più o meno come il vassallaggio nel modello originale: più che di dirigere le operazioni ha il compito di sorvegliare le terre del signore, assicurarsi che i contadini non si mettano in testa strane idee, organizzare di quando in quando palii, tornei, fiere e ordalie, che oggi come sappiamo si chiamano team building o Ceo Awards.
La rateizzazione dell’esistenza
Che si parli di subscription era o rateizzazione dell’esistenza, quindi, la condizione fondamentale del consumatore contemporaneo non è più quella della spesa ma quella del debito, che sempre David Graeber, nel suo fondamentale saggio eponimo, chiosa così: «Se la storia ci insegna qualcosa, è che non c’è modo migliore per giustificare relazioni sociali fondate sulla violenza (…) che riformularle nel linguaggio del debito: soprattutto perché in questo modo sembra che sia stata la vittima a fare qualcosa di male».
Se il giornalismo attempato può quindi vedere nei tiktoker che rifiutano di pagare Klarna l’incubo del bambino di Mary Poppins, che tirando la barba al banchiere fa crollare il sistema creditizio globale, qualcun altro potrà scorgervi dei piccoli Luigi Mangione – grazie al cielo incruenti – eroi fuorilegge dediti in realtà, consapevolmente o meno, a una causa ben più alta dell’acquisto di un nuovo paio di New Balance.