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Killers of the Flower Moon è il più grande inganno di Martin Scorsese

Esce oggi nelle sale uno dei film più attesi e chiacchierati dell'anno, un dramma familiare che il regista usa per riscrivere la nascita della nazione americana.

di Francesco Gerardi

Francis Ford Coppola ha detto recentemente che Martin Scorsese è il più grande regista vivente, e ha ragione. Non è una tesi che necessiti di essere provata, ma se si volesse farlo basterebbe portare l’esempio dell’attesa creatasi attorno a Killers of the Flower Moon nonostante il regista abbia fatto di tutto per stemperarla. Lo ha presentato all’ultimo Festival di Cannes però fuori concorso (e non si è mai capito davvero perché, sembra per questioni aziendali del produttore Apple Tv+, i malpensanti dicono che se fosse stato in concorso la Palma d’oro non gliel’avrebbe tolta nessuno e questo avrebbe portato aspettative eccessive). È il film in cui è riuscito a mettere assieme tre premi Oscar per il Miglior attore protagonista – Leonardo DiCaprio, Robert De Niro e Brendan Fraser – ma fino all’ultimo è girata una voce secondo la quale in realtà i premi Oscar presenti forse sarebbero stati soltanto due, che forse la parte di Fraser era stata girata ma poi tagliata in post produzione. Ma come, ha lasciato nel film duecento e rotti minuti di girato e proprio quelli con protagonista un premio Oscar doveva tagliare. È stata questa una delle proteste di chi già si stava lamentando della durata “eccessiva” del film: troppo lungo per essere visto al cinema, meglio aspettare la distribuzione in streaming e spezzettare la visione a seconda delle circostanze personali e delle individuali soglie di tolleranza. Anche in questo caso, la risposta di Scorsese è stata il contrario di ciò che un bravo addetto stampa consiglierebbe per convincere il pubblico a pagare il biglietto e sedersi in sala: ve ne state seduti sul divano, davanti alla tv, per ore e ore di bingwatching, che differenza c’è tra questo e starvene seduti su una poltroncina, per tre ore, davanti allo schermo grande, ha detto. E ha ragione, ovviamente.

La differenza sta nel fatto che negli sterminati cataloghi delle piattaforme non esiste nulla di nemmeno lontanamente paragonabile a Killers od the Flower Moon. L’unico paragone possibile e accettabile è proprio il penultimo film di Scorsese, The Irishman, originale Netflix. Ma in The Irishman eravamo in terra conosciuta, era lo Scorsese che ci si aspetta, quello più vicino alla sua stessa fama e più simile alla sua immagine fissata nell’immaginario collettivo. Con Killers of the Flower Moon siamo invece nella stessa terra incognita che il regista ha esplorato nei suoi film “altri”, quelli che non parlano di America e/o di gangster (ed è strano, perché Killers of the Flower Moon parla di America e di gangster): L’ultima tentazione di Cristo, Kundun e Silence, per capirci. È lo Scorsese spirituale, questo di Killers of the Flower Moon. È il regista – l’uomo, in realtà – arrivato a un punto della vita in cui sente il dovere di rispondere all’appello del Papa che chiede agli artisti di tutto il mondo di raccontare più e meglio Gesù, cioè l’amore. È l’artista che nelle interviste parla del suo tempo che finisce e della fine che si avvicina: ha detto di avere ancora tante cose da fare al cinema, Scorsese, ma di sapere che a ottant’anni la capacità di gestire il tempo rimasto gli sta venendo a mancare. E anche in questo caso ha ragione.

Killers of the Flower Moon è in effetti un film sul tempo. Sui tempi, che cambiano e finiscono eppure sembrano sempre tornare e ripetersi. Nella morte violenta della tribù nativa degli Osage, Scorsese rivede e riscrive i miti dei pionieri americani, dei cercatori d’oro e dei capitani d’industria che hanno ingrandito il mondo, unificandolo sotto la bandiera verde del dollaro americano e con i metalli pesanti della ferrovia. Killers of the Flower Moon dovrebbe essere una crime story ambientata in questo punto dello spazio e del tempo: il West americano e gli anni Venti, l’Oklahoma in cui le parole pellerossa e visopallido fanno ancora parte della lingua parlata, i searcher di John Ford rivelati come killer. Quantomeno la storia è quella nelle pagine del libro da cui il film è tratto, il true crime storico, best seller certificato dal New York Times di David Grann (qui l’edizione italiana) adattato per il cinema dallo stesso Scorsese e da Eric Roth.

È lecito aspettarsi quello e per questo è sorprendente trovare tutt’altro: dove dovrebbe esserci un’epopea, la verità sulla nascita di una nazione, c’è invece una saga familiare, un triangolo di odio-amore-avidità che tiene assieme i tre personaggi che sono tutto il film, che fanno tutto il bene e tutto il male di Killers of the Flower Moon. Leonardo Di Caprio/Ernest Burkhart, il marito inetto, svampito e avido; Lily Gladstone/Mollie Burkhart, la moglie sacrificale, ingannata, derubata e avvelenata; Robert De Niro/William Hale, lo zio detto “il re”, il gangster puro e semplice, stavolta senza redeeming qualities che lo salvino, a capo di una tribù di gangster (i bianchi), l’America che incombe famelica sulle terre del fu popolo del cielo, come si chiamavano gli Osage prima di cominciare ad annegare, letteralmente, nel petrolio.

Sono i volti di questi tre attori che riempiono lo schermo per due terzi del film, in una estenuante successione di dialoghi in campo e controcampo di alterna riuscita. Se quelli tra Di Caprio e Gladstone, quest’ultima oggettivamente la sorprendente protagonista del film, sono spesso riusciti, quelli tra lo stesso Di Caprio e De Niro paiono talvolta una buffa gara di smascellamento, in cui più convessa si fa quella dell’uno e altrettanto concava si fa quella dell’altro. Sono le facce di questi tre co-protagonisti che svelano presto l’inganno di Scorsese: siete venuti per l’azione e io invece vi do il verbo, siete qui per la violenza e invece ecco qui l’amore, siete entrati per la storia americana e io invece vi do la parola di Cristo. Ci si sente strani a dirlo, ma Killers of the Flower Moon è forse il film di Scorsese che più di tutti gli altri parla d’amore. Dell’amore come arma, e poi come (auto)inganno, e ancora come ricatto, e infine come illusione tardiva e salvezza mancata. Dell’amore nella sua manifestazione più quotidiana e quindi imperfetta: la famiglia.

Non è il film che ci si aspetta, Killers of the Flower Moon, se ci si aspetta di vedere ampliate e ingrandite le immagini – a questo punto solo promozionali – di nativi che danzano in slow motion attorno a geyser di petrolio e bianchi che camminano sui pezzi dei corpi smembrati delle loro vittime, con l’incedere sicuro di chi cammina verso il secolo americano. Il tempo è passato e cambiato anche per Martin Scorsese: adesso non ha più voglia di raccontare (soltanto) la parte ferina dell’umanità, ha voglia di parlare di amore e compassione e accettazione. Il male rimane, ovviamente. Ma ora è spogliato di carisma e fascino, è instupidito e inacidito, veste male o banalmente, entra in scena accompagnato dal suono minaccioso dei tamburi di guerra e non è più accolto da ballabilissime tracklist di classici del pop e del rock ‘n’ roll. A ottant’anni, Scorsese ha rifondato il suo mondo, facendo quello che non aveva quasi mai fatto prima: separare il buono dal cattivo e mettersi da una parte.

È quasi il racconto di un’utopia mancata, Killers of the Flower Moon. Di un’utopia che piano piano – ma veramente molto ma molto piano: un problema di editing questo film ce l’ha, di saliscendi del ritmo, di ripetitività di certe scene-dialoghi, di chiarezza del montaggio e dei salti temporali, ma capisco che nell’epoca in cui il nome del regista è quasi l’unica cosa che faccia vendere un film sia molto difficile andare da Martin Scorsese e dirgli che il suo film dura un’ora di troppo e che quell’ora va tagliata – degrada in realtà: all’inizio la Nazione Osage sembra l’America che avrebbe potuto essere e che non è stata, in cui bianchi e nativi convivono e condividono, si sposano e si mescolano. Poi scopriamo che la nascita della nazione americana è un fatto che non ammette eccezioni, un evento che tende alla ripetizione di se stesso in ogni tempo e luogo: «Sono avido» e «Amo i soldi» sono le confessioni con le quali ci viene presentato Ernest e le frasi che contengono tutto della sua tragedia. La tragedia sua e della sua famiglia, cioè degli americani nativi e di quelli colonizzatori, dell’America.