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Tutta la vita e tutta l’arte di Jonas Mekas

Il duo di curatori Francesco Urbano Ragazzi racconta la grande mostra che celebra il centenario dalla nascita di una delle figure più importanti del cinema underground, Images are Real, fino al 26 febbraio al Mattatoio di Roma.

di Riccardo Conti

Jonas Mekas, In an Instant It All Came Back to Me, 32 stampe su vetro (dettaglio), 2015

Nasceva cento anni fa a Semeniskiai in Lituania Jonas Mekas, figura leggendaria del cinema indipendente. Durante la guerra, quando il paese venne occupato prima dai russi e poi dai tedeschi, si oppose a entrambi, pubblicando un giornale clandestino. Fu quindi internato col fratello Adolfas in un campo di concentramento nazista e poi, alla fine della guerra, in un campo profughi. Nel 1949 l’organizzazione internazionale dei profughi consentì a lui e al fratello di andare a New York. Fin dai primissimi giorni Mekas iniziò a tenere il suo diario filmato. Nel 1955 pubblica col fratello la rivista Film Culture, che diverrà la casa principale del cinema underground. Dal 1962 fondò la Film-makers’ Cooperative e poi nel 1970 l’Anthology Film Archives, vera e propria memoria di tutto il cinema irregolare. La scrittura di poesie che lo ha accompagnato per tutta la vita correva parallelamente alla sua attività di critico, fu la sua penna la prima ad occuparsi di cinema su The Village Voice.

Grazie all’eccezionalità e la pluralità dei suoi linguaggi, Mekas è diventato una presenza costante anche nel mondo dell’arte e in questo anno importante di celebrazioni che vede il Centro Culturale Lituano particolarmente attivo nel promuoverne l’opera, Francesco Urbano e Francesco Ragazzi, il duo di curatori che già in passato hanno lavorato con Jonas Mekas a molteplici progetti, ha concepito una mostra-ambiente intitolata Images Are Real pensata per gli spazi del Mattatoio di Roma che durerà fino al 26 febbraio 2023. A loro abbiamo chiesto di raccontarcela.

Jonas Mekas, Purgatorio, 2019, series of 80 frozen film frames, C print, 43×28 cm Courtesy the artist and Apalazzogallery
Jonas Mekas, Ein Märchen aus alten Zeiten, still from video, 2001
Jonas Mekas, Notes of the Circus, still from film, 1966

Come vi siete confrontati con il continente-Mekas e che senso avete dato al percorso espositivo?
Per noi era molto importante che tutte le opere avessero già di per sé la possibilità di esistere nello spazio espositivo e non nella sala cinematografica. Era nostra intenzione mostrare Mekas non solo come cineasta ma anche come poeta, artista visivo oltre che a fondatore di istituzioni per il cinema importantissime, cercando di restituire la complessità propria di una figura che non può essere circoscritta solamente nel New American Cinema e nella scena indipendente degli anni degli anni Sessanta. Abbiamo cercato di raccontare la sua vita, a partire dall’esperienza traumatica della seconda guerra mondiale, dell’epopea di un lituano che da un campo di lavoro in Germania giunge poi in America, fonda riviste, re-inventa il modo di fare film, fonda la Filmmakers Cooperative, fonda l’Anthology Film Archives e poi non si ferma più, fino a sperimentare con l’immagine digitale, portando online il suo cinema diaristico e seguendo quindi l’evoluzione della vita delle immagini in movimento. La forma che abbiamo dato alla mostra è cucita attorno a questo racconto biografico, ma anche letterario: in tal senso il nostro riferimento per l’allestimento è stata la Divina Commedia, un testo che Mekas studiò moltissimo e che rappresenta un riferimento costante nei suoi film, così come nei suoi scritti, tanto che il figlio Sebastian lo conosce a memoria. La Commedia di Mekas è la vita di questo profugo lituano che superò l’orrore europeo, camminò nel mondo e trovò la felicità attraverso la cinepresa.

Mekas è diventato un punto cardinale non solo nel cinema ma anche nell’art world, al centro di quel periodo ormai mitizzato degli anni Sessanta Newyorkesi, tra la Pop di Warhol e la scena underground, eppure proveniva da un villaggio lituano rurale che oggi conta 5 abitanti. C’è qualcosa di miracoloso nella sua biografia?
Effettivamente il miracolo è uno dei possibili temi della mostra, ed è Mekas stesso a ritornare più volte nei suoi scritti e nelle varie testimonianze attorno alla “miracolosa” successione di eventi che lo hanno portato a New York. In tutta la sua produzione emerge il tema della predestinazione di un individuo che da un luogo estremamente periferico rappresenterà un pezzo importante del cinema. Eppure, questa sua origine rurale era contraddistinta da una cultura letteraria sconfinata, come se quegli ambienti naturali profondi gli conferirono la spinta interiore del poeta che ha la capacità di trovare le parole, quelle giuste, quelle opportune, quelle che sono più nel profondo. Il contatto con la sua terra, con gli elementi naturali hanno fatto sì che Mekas coltivasse la spontaneità di un musicista nel suo modo di porsi nei confronti della realtà. Il motivo di questo titolo Images are Real nasce anche dall’idea che Jonas non sia tanto un film-maker ma un reality-maker; un modo di intendere il cinema in una visione che potremmo definire di media ecology ripensando lo spazio cinematografico come environment.

Jonas Mekas, stills from This Side of Paradise, 1999

Questo concetto serve anche a avvicinarsi meglio al materiale in mostra?
Lo spazio cinematografico di Jonas Mekas è un vero e proprio ambiente, un ambiente in cui Jonas mette da parte tutto l’inquinamento visivo ed emotivo della sua stessa vita per raccontare la felicità, e questa spinta verso la felicità diventa una spinta collettiva, diventa cioè non il racconto intimistico del “caro diario” ma appunto un diario che in realtà è teso a creare delle relazioni, costruire affinità e una rete di amicizie, che poi si strutturano in istituzioni, dove la cinepresa è utilizzata come strumento di attivismo politico e culturale. Inoltre c’è nell’epopea di Mekas il costante desiderio di trovare la propria patria, intesa come luogo fondato sull’amicizia piuttosto che su un valore astratto di appartenenza quindi su delle relazioni amicali. Quando arriva in America negli anni Cinquanta si stabilisce dapprima a Willamsburg che al tempo era un quartiere lituano; i suoi legami con George Maciunas, il padre di Fluxus, che introducono Mekas in quel mondo dell’arte ribadiscono quanto fosse forte il legame con i lituani espatriati. Ma la Lituania come luogo dell’anima è presente anche in Walden, in quell’idea di vivere New York come se fosse un bosco, quella sensibilità nel ritrovare la natura persino nella metropoli. Da lì in poi il suo concetto di “patria” si sgancia dalla Lituania e si ritrova in quello del cinema indipendente, una sorta di patria degli esclusi, composta tra l’altro da molte donne, e da autori come film-maker, critici cinematografici lesbiche, gay ed espatriati come Mekas che si inventa una nazione parallela nella nazione che lo ospita.

Jonas Mekas, frozen film frames from Happy Birthday John (John Lennon and Yoko Ono performing), 1996

Se pensiamo alle stories sui social, Mekas ha impiegato questa temporalità nel suo montaggio come se corrispondesse al tempo della vita e oggi milioni di user si esprimono naturalmente in quel modo.
La connessione rispetto all’estetica del social media è anche molto tecnica; nel senso che la la Bolex che Mekas usava gli permetteva di montare gran parte dei suoi film direttamente in camera. Perché la Bolex ha la possibilità anche di tornare indietro riavvolgendo la pellicola e consentendo sovrapposizioni di immagini e eseguire un montaggio non realizzato in studio ma ottenuto direttamente con la camera e questo anticipa enormemente la prassi contemporanea di fare l’editing dei propri video come fanno oggi i ragazzini con uno smartphone per i loro contenuti di TikTok. Diaries, Notes and Sketches (also known as Walden) del 1968 è in questo senso esemplare, perché anticipa non solo quella velocità dell’immagine ma fa uso anche di scritte e titoli come se fossero caption e hashtag all’interno delle nostre storie, la differenza è che Walden è fatto per durare come un documento storico e non per volatizzarsi in poche ore.

Walden come documento presenta almeno due livelli; quello storico e quello poetico, dal punto di vista storico-reale Walden fissa i personaggi, i luoghi e gli eventi nel loro tempo, senza mistificazioni, perché il dato reale non viene nascosto, ricostruito o edulcorato; e quei cartelli ai quali tu facevi riferimento sono sempre molto precisi. Tra i film che abbiamo “smontato” portandoli in mostra come sequenze fotografiche c’è ad esempio Birth of a Nation (1997). In quel film Mekas ha voluto mostrare tutte le figure che hanno contribuito all’idea del New American Cinema e in generale del cinema indipendente; nel film Mekas filma tutti dei momenti cruciali di quell’intensa stagione, come il primo festival del cinema femminista, il primo festival del cinema underground e altri eventi fondativi di quella storia. Una vera e proprio contraltare alla Birth of Nation Nation (1915) di Griffith visto appunto nella prospettiva di questa nazione invece di emigranti. Avendolo studiato a fondo, fotogramma per fotogramma, abbiamo stilato una lista di 168 autori che Mekas ha voluto custodire in questi 85 minuti di ritratto di famiglia. Una sorta di paradiso, una comunità ideale rappresentata da autori e attori che vanno da Barbara Rubin a Charlie Chaplin, da Tony Conrad a Jaques Tati oltre a molte figure di attivisti, che si sono adoperati per creare le condizioni affinché un’idea diversa di cinema potesse in qualche maniera realizzarsi e fiorire anche.

Jonas Mekas, The Brig, still from film, 1964

Se doveste consigliare tre sue opere per abbracciare la complessità della sua produzione?
Oltre al già citato Walden, sicuramente The Brig (1964) che rappresenta un caso particolare nella sua filmografia. Jonas non si era preoccupato della sua distribuzione e grazie a un suo amico che lo inviò a Venezia il film vinse il Leone d’Oro come come documentario anche se, in realtà, non lo è: Jonas insieme al gruppo del Living Theatre mise insieme questa stranissima coreografia dentro lo spazio contingentato di un carcere militare negli Stati Uniti. È un film fatto di movimento, corpi, urla e Mekas partecipò a questa performance con la sua cinepresa, seguendo gli attori come se fosse un reporter di guerra o, per usare una sua definizione, di un “Fung Fu film-maker”. Mekas volle applicare i principi del cinéma vérité in un contesto di finzione, anticipando in un certo senso esperimenti come The Act of Killing (2012).

Poi 365 Day Project (2007) che in realtà non è un film solo, ma sono 365 film, uno al giorno per un anno. Mekas lo concepì poco dopo la nascita di YouTube e questo testimonia il fatto che lui iniziò a fare film per il web immediatamente e a 85 anni: mentre viaggiava senza sosta in giro per il mondo tra presentazioni, mostre, screening, postava on line sul suo sito un video al giorno. L’intera maratona è riportata qui in mostra, divisa su dodici schermi, uno per ogni mese, per un totale di 38 ore di film, difficilmente il visitatore lo visionerà tutto ma il senso è proprio quello di cogliere alcuni “glipse” di felicità della sua vita. Citiamo poi il cortometraggio intitolato Cinema Is Not 100 Years Old (1995), una sorta di video-manifesto vitale e giocoso, che Jonas realizzò nel suo appartamento per festeggiare i cent’anni di cinema, e dove tra l’altro recita: «Il cinema non ha cent’anni, il cinema nasce sempre di nuovo ogni volta che un regista accende una cinepresa, ogni volta che qualcuno sente il rumore di un di un proiettore, i nostri cuori saltano, saltano in avanti e il cinema nasce».