Un meme molto condiviso sui social italiani è stato trasmesso dal tg argentino, che ha scambiato Gasperini per il Mrs. Doubtfire italiano.
Negli ultimi mesi parlare di intelligenza artificiale significa inciampare di continuo in iperboli. Nel solo 2025, le big tech americane hanno investito circa 400 miliardi di dollari complessivi in infrastrutture AI; le stime globali parlano di 3mila miliardi entro il 2028; l’iniziativa Stargate di OpenAI, sostenuta da SoftBank, Oracle e vari fondi del Golfo, cova 500 miliardi per dieci mega–data center entro il 2029. Si tratta di numeri impressionanti e, per certi versi, senza precedenti. Peccato che, a oggi, nessuna azienda AI stia generando profitti. Anzi: OpenAI prevede di restare in perdita come minimo fino al 2030.
Nel frattempo proliferano i cosiddetti circular deals: Nvidia promette di investire 100 miliardi in OpenAI, che poi userà quei soldi per comprare chip Nvidia; AMD offre a OpenAI il 10 per cento delle proprie azioni a prezzo simbolico, da rivendere per finanziare acquisti di processori AMD. Fornitori, clienti e investitori si sovrappongono fino a diventare le stesse identiche entità, che si comprano, vendono e inscrivono nei rispettivi bilanci, all’interno di circuiti chiusi in cui è difficile distinguere il solido dall’inconsistente.
In sé non è niente di totalmente nuovo: settori ad elevata intensità di capitale come quello dei semiconduttori vivono da sempre di intrecci industrial-finanziari e partecipazioni incrociate. Ma la scala degli importi, questa volta, fa sorgere dubbi sul buon senso del tutto. Un esperto ha paragonato il meccanismo al gioco delle sedie musicali: finché la musica suona – ovvero finché l’entusiasmo degli investitori resta alto – tutti trovano posto. Quando smetterà, qualcuno si sveglierà come Willy il coyote sopra il canyon.
Una questione culturale e politica
Una peculiarità dell’esuberanza intorno all’AI è il fatto di essere gonfiata da dinamiche culturali e politiche che non hanno a che fare con l’economia. Piaccia o meno, l’AI popola il nostro immaginario culturale da decenni (se non da secoli). Da ben prima che fosse tecnicamente possibile, intorno all’AI si agitava un fervore millenaristico, da eschaton tecnologico, che rende oggi difficile parlarne in termini non ideologici.
Sul piano politico il boom dell’AI coincide invece con un momento di delicata contrattazione degli equilibri globali. Da un lato abbiamo una potenza calante, gli USA, che dell’attuale esuberanza finanziaria si serve (anche) per mascherare i numerosi problemi della sua economia. Dall’altro lato abbiamo una potenza ascendente, la Cina, che vede anch’essa nell’AI una questione di interesse nazionale. Questo produce due effetti contraddittori: per un verso attenua il rischio di uno scoppio improvviso di eventuali bolle (perché i governi faranno di tutto per sostenere il comparto) e per un altro le gonfia ulteriormente. Qualcuno ha suggerito che il miglior modo di concettualizzare la corsa all’AI e tra Cina e USA non sia la semplice competizione industriale, ma la proliferazione nucleare durante la Guerra Fredda. Ed è evidente che quando due superpotenze economiche interiorizzano una simile prospettiva, nessuna cifra diventa più eccessiva.
L’AI come il fuoco o il motore a vapore
Tutto questo avviene mentre la politica americana attraversa una fase socio-politica molto peculiare, con una concentrazione para-oligarchica di ricchezza e influenza nelle mani di pochissimi individui, con disponibilità tali da spostare interi mercati con le loro decisioni strategiche – molte delle quali, guarda caso, hanno a che fare con lo sviluppo delle AI. Ciò che permette a questi individui di ammantare le loro azioni di razionalità, sono le promesse di produttività connesse all’AI. McKinsey parla di un incremento del 20 per cento annuo delle crescita in alcuni comparti; altri modelli econometrici stimano che l’AI generativa possa aggiungere 4.400 miliardi di dollari l’anno alla produzione globale. Sono cifre e percentuali “prometeiche”, che non hanno precedenti nella storia dell’umanità e che fanno impallidire persino le rivoluzioni industriali. È nel cuore di questa narrativa che si annida il vero dilemma: se l’AI è effettivamente una general purpose technology (GPT), una nuova infrastruttura generalizzata del progresso, una “tecnologia delle tecnologie”, allora persino i triliardi di investimento diventano una semplice prefazione. Ma – e questo è il punto – la scommessa è binaria. Come ho scritto nella mia newsletter: «se l’AI è una tecnologia con un impatto paragonabile al fuoco o al motore a vapore, i numeri hanno senso. Se l’AI è qualunque cosa sotto questi colossali epigoni, no». Ma trattare in modo laico e razionale questo problema è, oggi, molto difficile appunto per le ragioni ideologiche di cui sopra.
E se la bolla scoppierà?
Provando a immaginare uno scoppio della bolla, il meccanismo potrebbe essere quello classico della disillusione tecnologica. Se nei prossimi 12-24 mesi l’AI non manterrà alcune promesse chiave – in termini produttività, rapidità dei progressi etc. – gli investitori potrebbero perdere la pazienza. Già oggi, circa il 39% della capitalizzazione dell’S&P 500 è legato ad aziende AI o affini: un tonfo in questo comparto genererebbe onde d’urto globali, con trilioni di dollari di valore evaporati in poche settimane.
L’impatto sull’economia reale sarebbe difficile da prevedere. A differenza di crisi sistemiche come quella del 2008 – che rivelò la “coperta corta” del modello socio-economico dell’iper-globalizzazione – le bolle tecno-infrastrutturali sono malattie della crescita più che malattie terminali. È però vero che le dimensioni finanziarie, e la quantità di implicazioni socio-economiche dell’AI bubble, non sono paragonabili a nessuna bolla del recente passato (eccetto forse le bolle ferrovie e del secondo Ottocento… ma era un altro mondo). C’è inoltre il fatto che l’ecosistema AI, diversamente per esempio dalla cosiddetta dot.com bubble, ha una impronta molto ampia e ramificata. La finanza connessa all’infrastruttura AI coinvolge real estate, energia, manifattura fisica, materie prime. Inoltre, molte imprese stanno attingendo a strumenti finanziari complessi di cui è difficile valutare l’esposizione complessiva in termini di fondi e debito sovrano. Nel caso più estremo, la crisi di fiducia verso l’AI potrebbe spingere l’economia in recessione, dato il peso che il tech ha ormai nel mercato azionario. Nel caso più estremo dei casi più estremi, lo scoppio della bolla del tech potrebbe accelerare la fine dell’egemonia USA sull’infrastruttura finanziaria (e valutaria) globale, con esiti che potrebbero essere non solo economici ma profondamente geopolitici.
Poveri investitori
Più realisticamente si assisterà a una selezione darwiniana interna al settore. Come in ogni corsa all’oro, insieme ai minatori arrivano i ciarlatani. E sono questi ultimi, di solito, a sparire quando la musica finisce. I giganti sembrano avere, a oggi, tasche abbastanza profonde da sopravvivere e anzi rafforzarsi: compreranno talenti, startup, infrastrutture a prezzi di saldo. Alla fine, il settore ne uscirà più concentrato di prima. Forse è questo il punto definitivo: le bolle sono spesso una fase dei processi di infrastrutturazione tecnologica. A pagarne il prezzo sono quasi sempre gli investitori, non la tecnologia stessa. Se la bolla dell’AI scoppierà non per questo la tecnologia sparirà. Rimarranno le infrastrutture, i data center, i modelli, i laboratori di ricerca. Rimarrà soprattutto una domanda: cosa potevamo fare – di meglio o di diverso – coi soldi che abbiamo bruciato per arrivare al momento di girare le carte?
Lo smoke party improvvisato è stato lanciato dall’attore Bob Terry, che aveva anche promesso di offrire una sigaretta a chiunque si fosse presentato.
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