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14:16 domenica 23 novembre 2025
Negli Usa il Parmigiano Reggiano è così popolare che un’agenzia di Hollywood lo ha messo sotto contratto come fosse una celebrity La United Talent Agency si occuperà di trovare al Parmigiano Reggiano opportunità lavorative in film e serie tv.
I farmaci dimagranti come l’Ozempic si starebbero dimostrando efficaci anche contro le dipendenze da alcol e droghe La ricerca è ancora agli inizi, ma sono già molti i medici che segnalano che questi farmaci stanno aiutando i pazienti anche contro le dipendenze.
Kevin Spacey ha raccontato di essere senza fissa dimora, di vivere in alberghi e Airbnb e che per guadagnare deve fare spettacoli nelle discoteche a Cipro L'ultima esibizione l'ha fatta nella discoteca Monte Caputo di Limisso, biglietto d'ingresso fino a 1200 euro.
Isabella Rossellini ha detto che oggi non è mai abbastanza vecchia per i ruoli da vecchia, dopo anni in cui le dicevano che non era abbastanza giovane per i ruoli da giovane In un reel su Instagram l'attrice ha ribadito ancora una volta che il cinema ha un grave problema con l'età delle donne. 
Da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco, le donazioni per Gaza si sono quasi azzerate Diverse organizzazioni umanitarie, sia molto piccole che le più grandi, riportano cali del 30 per cento, anche del 50, in alcuni casi interruzioni totali.
Lorenzo Bertelli, il figlio di Miuccia Prada, sarà il nuovo presidente di Versace Lo ha rivelato nell'ultimo episodio del podcast di Bloomberg, Quello che i soldi non dicono.
Il più importante premio letterario della Nuova Zelanda ha squalificato due partecipanti perché le copertine dei loro libri erano fatte con l’AI L'organizzatore ha detto che la decisione era necessario perché è importante contrastare l'uso dell'AI nell'industria creativa.
Per evitare altre rapine, verrà costruita una stazione di polizia direttamente dentro il Louvre E non solo: nei prossimi mesi arriveranno più fondi, più telecamere, più monitor, più barriere e più addetti alla sicurezza.

Il Caso Yara, un’altra storia italiana

Il documentario di Gianluca Neri, appena uscito su Netflix, è la contronarrazione di uno dei fatti di cronaca nera più discussi e traumatici della storia d'Italia.

19 Luglio 2024

«Uno come me, sono sicuro, c’è in ogni prigione»: inizia così uno dei racconti più belli scritti da Stephen King ,“Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank”. Il protagonista è Andrew Dufresne, che viene condannato a due ergastoli per l’omicidio della moglie e dell’amante. Dufresne si è sempre dichiarato innocente ma tutte le prove sembrano proprio contro di lui, tanto che anche l’amico che conosce in carcere, la voce narrante, si convince della sua innocenza solo nel corso dei 19 anni che Andrew passa nella prigione di Shawshank. «Ma che diavolo è successo?», gli domanda una volta quell’amico, e lui sorridendo senza allegria risponde: «Penso che c’era un bel po’ di sfortuna in giro quella notte. Più di quanta se ne possa normalmente mettere insieme in così breve tempo». Massimo Bossetti è un Andrew Dufresne? È una domanda che deve avere assillato per anni anche Gianluca Neri, già ideatore e produttore del docu-film di successo Sanpa, uscito su Netflix.

Il lavoro di Neri sul caso Yara inizia ancor prima di quello di Sanpa: è da più di dieci anni che prende appunti, mette da parte video, foto, testimonianze. Finché non inciampa in quella che potrebbe essere una prova da portare al processo: riesce a reperire la foto di un satellite che ritrae il campo di Chignolo d’Isola, scattata prima del ritrovamento del corpo di Yara, ma in quella foto il corpo di Yara non c’è. Questo mette in discussione uno dei punti fermi dell’accusa, cioè che Yara sia stata uccisa e poi lasciata morire nel campo; ciononostante la prova non viene accolta dal giudice, ma Neri può così partecipare al processo come consulente – alla stampa sarà vietato di riprendere e registrare – e di poter leggere le 60 mila pagine dell’inchiesta. Si capisce il lavoro puntiglioso che c’è dietro questo documentario, la voglia di mettere ordine a tutto, soprattutto la volontà di far capire che no, la storia non è solo quella che ci hanno raccontato fino ad ora: che Massimo Bossetti è colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Piccola digressione: le storie di Yara Gambirasio e di Emanuela Orlandi hanno dei punti di contatto. La prima va in palestra, la seconda a scuola di musica, e poi entrambe spariscono. Ciononostante quei luoghi, gli ultimi in cui vengono viste in vita, rimangono sempre sullo sfondo. Poi la storia di Emanuela Orlandi diventa una specie di tumore maligno, se abbiamo l’ardire di considerare i frammenti di storia come cellule cancerose, che possono proliferare se attecchiscono nel posto giusto, cosa che succede nel caso della Orlandi, dove lo scenario è una Roma patria di mille mitomanie. Quella di Yara, invece, rimane localizzata, dunque non abbiamo – grazie al cielo – Papi e Presidenti della Repubblica, l’uomo dell’Avon e l’Amerikano, boss e pupe della banda della Magliana. Abbiamo però un pubblico ministero, Letizia Ruggeri, che prende un frammento di quella storia – il Dna di Ignoto 1 – e si convince che quella è la pista giusta, anzi l’unica (e d’altronde è un Dna estratto da “tracce organiche” sulle mutandine di Yara).

Da quel momento in poi, tutto girerà intorno a quel frammento, la cui storia è raccontata in maniera ancora più approfondita nella docuserie della Bbc Ignoto 1 – Yara, Dna di un’indagine. In questa docuserie, la protagonista principale è proprio Letizia Ruggeri: la vediamo allenarsi implacabilmente in piscina, ammirandone il fisico asciutto con i muscoli in evidenza; la vediamo mettere il casco e salire sulla sua moto da corsa. Ignoto 1 diventa l’ossessione di Ruggeri, ammette che il caso di Yara Gambirasio l’ha colpita più di altre storie, perché «anche lei è una mamma». Nella docuserie della Bbc si ricostruisce il girovagare di questo Dna da laboratorio a laboratorio, si sente la pressione che tutti provano; si vedono le decine di migliaia di test che vengono fatti e le sorprese che le analisi riservano. Gli eventi sembrano accelerare improvvisamente quando trovano il nipote dell’autista Giuseppe Guerinoni, che frequenta la discoteca vicino a Chignolo d’Isola, e deflagrare all’apparizione di Ester Arzuffi, la madre di Bossetti, personaggio che pare scritto da Georges Simenon. «La sensazione è che non fossimo noi a condurre le indagini e a scoprire le cose, ma una forza superiore che decideva quando e come darci delle tracce fino alla verità», dice un colonnello dei carabinieri.

Senonché alla fine della visione della docuserie della Bbc, che pure doveva elogiare l’operato del pubblico ministero, per la prima volta si capisce che se c’era una forza superiore doveva essere piuttosto un’entità sadica, che si stava divertendo un mondo a spargere confusione e dolore. La sensazione, che si rafforza ancora di più guardando il documentario Netflix, è che quei milioni siano stati spesi in indagini per scoprire non tanto Ignoto 1, ma i rapporti extraconiugali di Ester. La narrazione del caso Yara in quegli anni è stata ossessiva, e questo viene messo particolarmente in risalto nella serie di Gianluca Neri, che riporta spezzoni di trasmissioni televisive, di colleghi giornalisti che “stanno solo facendo il loro lavoro”, di salotti in cui esperti in criminologia si contorcono nello sforzo di trovare la frase che faccia più colpo sul pubblico, quella che faccia partire più applausi. Si vede addirittura un’inaspettata Licia Colò, che dice una cosa che non avrebbe dovuto dire, e che arriva ai Gambirasio prima ancora che questi siano stati informati dagli inquirenti. Rivediamo con orrore il montaggio “fatto per la stampa” del presunto camion che gira intorno alla palestra, che si scopre non essere quello di Bossetti. L’arresto di Massimo Bossetti è avvenuto con un dispiegamento di forze che di solito si riserva ai boss della mafia. Vediamo le immagini nelle quali viene inseguito dalla folla. «È stata un’ipnosi collettiva», dice Luca Telese, uno dei giornalisti intervistati per il documentario; «A me sembra che più che applicare la presunzione d’innocenza, stiamo applicando la presunzione di colpevolezza», commentava Mentana all’epoca in una puntata di Bersaglio mobile.

Gianluca Neri propone una contro-narrazione, che usa volutamente tutti i trucchi e gli effetti offerti dalla società dello spettacolo: è impossibile non piangere di fronte alle immagini del funerale, l’organo drammatico in sottofondo, a cui piano piano si sostituiscono le proclamazioni d’innocenza di Massimo Bossetti, un uomo soprannominato “il favola”, cioè con tendenze da romanziere ma molto scarso, che online è diventato un meme, con quella foto sul divano mentre stringe il gatto e i due cani. Certo, sarebbe meglio fare i processi in tribunale e non in televisione e sui social, ma ormai i famosi buoi sono scappati ed è tutta una lotta tra “narrazioni”, che talvolta si avvalgono direttamente di shitstorm, prima ancora che il reato arrivi in tribunale. Gli spettatori da casa si polarizzano, come al solito, in colpevolisti e innocentisti, ma questo documentario prova a far emergere una terza categoria, di solito la più silenziosa: quella dei dubbiosi. In fondo, è dubbiosa anche l’anatomopatologa Cristina Cattaneo, che alla fine quasi si lancia a dire «l’idea che si è fatta» ma poi ci ripensa, sospira, rotea gli occhi, dice mica posso rifare qui il processo.  Dice «forse…». Forse quella sera c’era un bel po’ di sfortuna in giro.

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