I libri del mese

Cosa abbiamo letto a ottobre in redazione.

31 Ottobre 2025

Sara Marzullo, Prepararsi (66thand2nd)
Se ripenso all’evoluzione negli anni del mio modo di prepararmi prima di uscire di casa, e a come è cambiato – in base all’età, al mio stato fisico e mentale, al lavoro, alle frequentazioni, alle disponibilità economiche, alla città in cui vivo, alla casa in cui abito, ai trend di make-up e skin care del momento – mi ritrovo a fare riflessioni tutt’altro che frivole. Truccarsi o non farlo, scegliere cosa indossare (tra tantissime opzioni o pochissime), sperimentare un nuovo stile, litigare con i capelli, odiare il proprio riflesso nello specchio, inventarsi una divisa per risparmiare tempo ed energie, sono azioni che raccontano qualcosa non solo sulla ragazza o donna che le compie, ma anche su quello che significa, oggi, appartenere e riconoscersi nel genere femminile dentro a un mondo che non sembra fare altro che ricordarci che abbiamo un corpo e che il modo in cui appare è importantissimo anche in contesti in cui potrebbe esserlo meno: nel mondo del lavoro, ad esempio. Perché prepararsi sembra riguardare più le donne che gli uomini? Perché la bellezza è una domanda che sembra posta ad alcuni individui e non ad altri? Prepararci è qualcosa che desideriamo davvero o che ci convincono a desiderare? Partendo da queste domande Marzullo amplia la sua esplorazione della femminilità cominciata con Sad Girl, in cui approfondiva l’archetipo della “ragazza triste” nella cultura pop, e si concentra sulle apparenze come luogo di confronto e conflitto della nostra persona. Si parla di vestiti come armature e di vestirsi per fare carriera, skincare routine e quiet luxury, questioni di genere e di classe, norme sociali e stereotipi, Simone de Beauvoir e filler. E c’è anche un bellissimo esercizio: undici domande da farsi di fronte all’armadio per comporre un’illuminante autobiografia per vestiti. (Clara Mazzoleni)

Jean-Pierre Filiu, Niente mi aveva preparato – Un reportage da Gaza (Altrecose)
Dall’Olocausto in poi, le immagini hanno rivestito un ruolo importantissimo nel formare la coscienza dell’opinione pubblica, se non proprio nel provare che tragedie, crimini, e stermini assortiti fossero realmente avvenuti. Nel 2025 tocca ammettere però che questo ruolo abbia parzialmente perso di senso. Banalmente perché le immagini sono troppe, perché come si dice nel linguaggio comune “siamo anestetizzati”. Ed è uno dei problemi a cui deve far fronte la coscienza di noi occidentali che vediamo succedere le cose a distanza. In Ucraina da anni, oggi in Sudan e in mille altri posti del mondo, tra cui ovviamente Gaza. Il problema di quello che dal 2023 sta succedendo a Gaza è che è sotto gli occhi di tutti ma al tempo stesso sembra sfuggire o almeno per molto tempo è sembrato sfuggire cosa realmente stesse accadendo. Non solo per l’impossibilità di fotografi e videomaker di mostrarlo, ma anche perché (azzardo) quello che veniva mostrato, nonostante immagini atroci non siano mancate, non era “abbastanza”. Forse nel caso di Gaza è mancata la parola scritta, la voce di chi ha visto e aveva i mezzi per raccontarlo. La voce scritta continua a essere importante. È quello che mi è venuto continuamente da pensare leggendo Niente mi aveva preparato di Jean-Pierre Filiu storico francese che ci consegna questo reportage frutto della sua presenza nella Striscia tra il dicembre del 2024 e il gennaio del 2025, arrivando di notte in un «paesaggio dantesco in cui si distinguono solo bagliori, subito inghiottiti dalla fitta oscurità». Il fatto di non essere davanti a un romanzo apocalittico, tipo La strada di McCarthy, viene confermato dalle testimonianze vive e precise che mettono in fila le atrocità israeliane contro gli ospedali, o con l’incredibile problema dell’acqua determinato dall’occupazione e peggiorato dalla guerra e dove le descrizioni delle tende degli sfollati squassate dalle tempeste sulla spiaggia fanno più male di qualunque immagine possa essere scattata. A fine lettura fa specie ancora di più che tutto questo sia diventato alle nostre latitudini oggetto di dibattiti social o da salotto televisivo. Leggetelo, è un ottimo modo per de-anestetizzarvi. (Cristiano de Majo)

Mark Sedgwick, Tradizionalismo (Atlantide)
Traduzione di Matteo Trevisani
Non riesco a pensare a una parola più ambigua di “tradizione”, nel linguaggio politico, e non soltanto, di oggi. Se la nominiamo nell’ambito delle cose che fanno i politici e i parlamenti, allora facilmente pensiamo a una tendenza di centrodestra o di destra estrema. Ma se parliamo della tradizione delle tagliatelle di nostra nonna o dei grani antichi, ecco che quella tradizione ha il sapore dell’intimità, della protezione di un corpus di valori antico e innocuo, pacifico, addirittura più morale di quello contemporaneo. Negli anni post-2020 il larghissimo campo semantico della parola “tradizione” è tornato  d’attualità, dopo che i primi anni Zero l’avevano relegato nell’angolo del nostalgismo o dell’utopia anti-progresso. Le destre estreme vincono, in Occidente ma non soltanto (India, Iran, Israele) sventolando le bandiere dell’identità tradizionale, e anche a sinistra è in corso una rivalutazione di un apparato di critica alla modernità e alla globalizzazione che aveva contraddistinto il campo liberal negli anni Novanta – almeno fino al 2001, e poi sempre meno. Ma soprattutto a destra, oggi, tradizione significa sempre di più Tradizionalismo. Non parlo di un generico richiamarsi al passato, ma di una precisa corrente filosofica nata a inizio Novecento. Se non l’avete mai sentita, pensate che al tradizionalismo si rifà Dugin, considerato da molti giornali occidentali “la mente di Putin” e l’ideologo dell’invasione in Ucraina. Il tradizionalismo oggi permea l’ideologia della destra identitaria francese che punta a succedere a Macron nel 2027. In Italia, il ministro della cultura Alessandro Giuli è un tradizionalista, e vicino alle posizioni tradizionaliste sono anche diversi esponenti MAGA. Che cos’è, in breve, questo tradizionalismo? Non c’è una risposta univoca. È un approccio, più che una dottrina rigida. È la ricerca di un ordine nel disordine liberale contemporaneo. Avversa la modernità e il liberalismo, il socialismo e la democrazia. Sostiene l’esistenza di una sola grande tradizione dietro tutte le tradizioni. Di un sacro ancestrale, pre-confessionale. Per questo il tradizionalismo può prendere l’aspetto di un grande movimento egualitario e pacifista che unisce islam, ebraismo, induismo, cristianesimo e buddhismo? In un certo senso sì. I suoi riferimenti principali sono stati René Guenon nell’anteguerra, e Julius Evola negli anni più recenti. È qualcosa di ambiguo, pericoloso da maneggiare, e che ci riguarda. E questo saggio non soltanto spiega, introduce, fornisce prospettive. Di più: inquieta e ammalia. (Davide Coppo)

Theodor Kallifatides, Contadini e signori (Crocetti editore)
Traduzione di Andrea BerardiniTheodor Kallifatides è nato a Molaoi (comune che oggi non esiste più), in Grecia, ha scritto Contadini e signori in svedese (è emigrato in Svezia, nel 1964, a 26 anni), io l’ho letto nella traduzione italiana di Andrea Berardini, e sono abbastanza convinto che senza tutte queste traversie linguistiche il romanzo non mi sarebbe piaciuto quanto mi è piaciuto (moltissimo). Contadini e signori, infatti, è scritto in una lingua talmente “piatta” e con un tono di voce così “monocorde” che è impossibile non considerare l’uno e l’altro sia un sollievo comico che il risultato dei molteplici interventi adoperati sulla scrittura di Kallifatides da Kallifatides stesso (non deve essere facile imparare a scrivere in greco, poi diventare scrittore in svedese, scrivendo di Grecia e di greci). La lingua e la prosa di Kallifatides, messe assieme, forse per necessità, forse per incidente, forse per eredità (lui sostiene di averla imparata dal nonno e dai suoi compaesani) fanno questo delizioso deadpan humor che è l’unico contrappeso possibile alla tragica vicenda del villaggio di Ialos, nel Peloponneso, che durante la Seconda guerra mondiale viene occupato dai nazisti. La tragica vicenda è solo in parte responsabilità del Terzo Reich, però: almeno loro a un certo punto spariranno, mentre gli abitanti di Ialos, gli ialiti, sempre lì staranno, a spiegare che se ti piace cucinare i dolci allora sei omosessuale e se sei omosessuale si capisce che finisci a impiccarti all’albero di fico, a convincersi che l’uomo con più potere sia anche quello con il pene più grosso e viceversa. Ad amare, a resistere e a sopravvivere, anche. Kallifatides racconta tutto come se fosse capitato a lui, e in effetti quasi gli è capitato, perché Ialos forse non è un villaggio vero ma in Grecia, e nel mondo, esiste sempre un villaggio molto simile a Ialos. Così come, sostiene rassegnato lo scrittore, esisterà sempre il male con la sua struttura a cerchi concentrici, dal più vicino e piccolo (le chiacchiere dei paesani) al più grande e distante (il Terzo Reich), di cui la vicenda di Contadini e signori è solo una raffigurazione. E ogni volta, come in Contadini e signori, il bene dovrà moltiplicarsi tante volte quanti sono i cerchi del male, e comunque non sarà mai abbastanza, perché la forza del male è assolutamente mortifera e quella del bene relativamente effice. A quel punto, come è successo davvero a Kallifatides, l’unica cosa che resterà da fare sarà ricordare e raccontare, «niente lacrime senza risate», ha spiegato lui, perché è così che i greci raccontano le loro storie, dice. Anche quando le scrivono in svedese. (Francesco Gerardi)

Katherine Addison, L’imperatore goblin (Ne/oN)
Il genere fantastico è spesso, e talvolta erroneamente, sinonimo di escapismo: un rifugio in mondi magici dove tutto è più semplice. L’imperatore Goblin di Katherine Addison, con il suo regnante illuminato e le sue aspirazioni da statista, sembra proprio questo e invece è l’opposto. In un’epoca segnata da figure politiche predatorie e dismisura del potere, il romanzo offre un sorprendente affresco politico di grande delicatezza e rigore, anche se il protagonista è, da titolo, una creatura fantastica. Maia, metà goblin e metà elfo, cerca di governare con giustizia in un contesto intricato, dove sarebbe più facile cedere alle logiche del potere. Non è l’high fantasy delle battaglie epiche, ma un racconto fatto di silenzi di corte, intrighi sussurrati e scelte morali difficili. Il world building è minuzioso – istituzioni, culti, genealogie – ma mai gratuito: costruisce un mondo che riflette la tensione tra bontà e autorità. Un fantasy politico, pensato più per far riflettere che per stupire, perfetto per il ritmo lento e riflessivo delle letture autunnali. (Elisa Giudici)

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