Hulk Hogan, il nemico americano

Terrence Gene Bollea è morto ieri a 71 anni. Nessuno, però, lo conosceva con questo nome: per quasi 50 anni è stato Hulk Hogan, uno degli americani più famosi del mondo, eroe, villain, fumetto, macchietta, leggenda e imbarazzo.

25 Luglio 2025

«The scummiest person on Earth», il più grande rifiuto umano sulla faccia della Terra: l’ultima volta che qualcuno nel mondo nel mondo del wrestling ha parlato di Hulk Hogan davanti a una telecamera, questa è la definizione che ha usato. Quel qualcuno è Becky Lynch, al secolo Rebecca Quin, atleta di spicco della divisione femminile della WWE, irritata dal nomignolo Becky Hogan diffuso da alcuni fan per sottintendere una una sua presunta propensione ad affossare le proprie avversarie. Benché traspaia poco attraverso lo schermo, il wrestling è una disciplina in cui la collaborazione tra gli atleti è fondamentale. L’esecuzione di mosse e acrobazie prevede una perfetta sintonia tra chi le esegue e chi le subisce, spesso mettendo letteralmente la propria vita nelle mani della persona con cui si condivide il ring. Ma è soprattutto dietro il sipario, nel backstage, che i rapporti tra atleti e dirigenza condizionano la traiettoria delle carriere. E a questo gioco, Terry Bollea in arte Hulk Hogan è stato per lungo tempo il migliore.

Più grosso di Hulk

La carriera di Hulk Hogan inizia sul finire dei ‘70, quando ancora il wrestling statunitense era rigidamente diviso in territori, spartiti tra federazioni concorrenti impegnate da un accordo tra gentiluomini a non portare i propri show fuori dai confini stabiliti. Terry Bollea, all’epoca accompagnato da appellativi come “The Destroyer”, molto meno efficaci di quello che lo renderà una figura nota in tutto il mondo, inizia a esibirsi tra le corde nel 1997.

La sua carriera cresce tra Georgia, Tennessee e Alabama, seguendo la scia del migliore accordo economico che lo porta a sedersi una sera a bordo ring di fianco a Lou Ferrigno, l’interprete dell’allora popolare serie televisiva The Incredibile Hulk: quella sera, dopo che il promoter si rende conto che il fisico del suo wrestler è più imponente di quello del supereroe televisivo, Bollea si porta a casa il soprannome di The Hulk. Hogan arriverà poco tempo dopo, quando Vince J. McMahon (all’epoca proprietario della WWF e padre di un’altra figura centrale in questa storia) proverà a dargli un tocco più irlandese per renderlo più appetibile al pubblico di New York, dove ha base la sua federazione.

La svolta arriva nella prima metà degli ‘80 quando Hogan costruisce il suo status di superstar di spicco della disciplina esibendosi tra USA e Giappone, arrivando persino ad apparire sostanzialmente nel ruolo di se stesso in Rocky III, ma è il ritorno alla WWF nel 1983 a porre le basi della mitologia che sarebbe esplosa nei trent’anni successivi. Questa volta alla guida della federazione c’è Vincent Kennedy McMahon, figlio d’arte che ha acquistato la società del padre impegnandosi solennemente a rispettare la spartizione in territori su cui il wrestling statunitense ha costruito le proprie fortune nel corso del ‘900. Ovviamente la promessa dura giusto qualche mese, il tempo di organizzare le idee ed espandersi verso gli stati confinanti. Nella strategia di Vince McMahon, Hogan gioca un ruolo fondamentale: è la star che il pubblico di spettatori casuali già conosce, il grimaldello per ottenere accordi televisivi e riempire le arene. Nel 1984, Hogan batte The Iron Sheik su un ring al centro del Madison Square Garden di New York: quel giorno nasce l’Hulkmania.

A Real American

La formula del wrestling di quel periodo è arcaica, ma funziona. Ci sono i buoni e nobili di spirito da una parte, dall’altra i brutti e cattivi (e molto spesso stranieri): kalos kagathos, come nella letteratura della Grecia antica, nulla di nuovo sotto il sole. E Hogan si presta particolarmente bene al ruolo di buono senza macchia. Ha un fisico imponente, di un bel arancione riconoscibile che tanto piace agli americani; è biondo, che in qualche modo è sempre sinonimo di bellezza, anche se i capelli sono pochi, un dettaglio che rende un po’ più umana la sua figura già mitologica. Poi sfoggia dei baffoni a manubrio, in cui il working man delle pianure statunitensi può rispecchiarsi. Ma soprattutto, è una figura esemplare per i più piccoli ai quali propone una ricetta infallibile per diventare come lui: allenamento, preghiere e vitamine. Un paio di decenni dopo, durante il processo per l’uso e la distribuzione di steroidi nella federazione, si scoprirà che il segreto del successo e dei muscoli non erano le vitamine.

Nel frattempo, però, il mito e l’iconografia di Hogan si espandono a dismisura. In quella riduzione allegorica della geopolitica del momento che è il wrestling degli anni ‘80, Hogan incarna l’eroe americano, il Real American, come intona la musica che lo accompagna sul ring, l’incarnazione degli ideali della Terra della Libertà. Sul ring Hogan non è granché (anche se in Giappone aveva sfoggiato doti tecniche inattese), ma non importa: fa presa sul pubblico come nessun altro. Entra in scena e l’arena viene giù, si porta le mani alle orecchie con un gesto teatrale e tutti urlano, si strappa la canottiera e i decibel sfondano il tetto.

Il copione dei suoi incontri è sempre lo stesso: messo di fronte al mostro invincibile di turno Hogan subisce, ma non molla, arriva a un passo dal cedimento, poi grazie al sostegno dei fan si rialza, ritrova le forze, i colpi dell’avversario non gli fanno più nulla. Infine lo punta con l’indice, e arriva la fine. Funziona sempre, ma quando l’avversario è uno sceicco mediorientale, un generale che ha tradito gli Usa per l’Iraq o un russo arrogante, funziona ancora meglio. E fa vendere valanghe di merchandising. In Italia il wrestling arriva in quel periodo e Hogan, insieme alla voce di Dan Peterson, entra nella routine pomeridiana di una generazione sulle cui mensole troneggiano action figure, macchine fotografiche e qualunque altro gadget dell’eroe giallorosso. Ovviamente si mette anche a fare i film e ovviamente fanno tutti schifo: nella categoria “Opere principali” della sua pagina Imdb spiccano Cose dell’altro mondoSenza esclusione di colpiGremlins 2Rocky 3. Finisce pure in Dragon Ball, ma lui probabilmente di questa comparsata non ha mai saputo nulla.

Businessman

Hogan si muove nel business come uno squalo: benché gli americani lo scopriranno davvero solo nei ‘90, durante il processo steroidi in cui la federazione fu costretta ad ammettere la predeterminazione della disciplina per scampare alle accuse, il wrestling è da sempre una disciplina il cui copione è stabilito nel backstage dall’andamento delle dinamiche di potere tra i protagonisti. E Hulk Hogan, che è una macchina da soldi per Vince McMahon, può sostanzialmente decidere la vita o la morte professionale di chiunque incroci la sua strada.

Non è un caso che moltissimi dei wrestler dell’epoca abbiano opinioni assai poco lusinghiere su di lui, sia sul piano professionale che personale, ma allo stesso tempo non è un caso che la pinna di Hogan sia riuscita a farsi largo nel mare in tempesta del wrestling per mezzo secolo. Hogan conosce il wrestling come nessun altro e non si fa scrupoli a mollare il suo socio storico McMahon per abbracciare il nuovo progetto multimiliardario di Ted Turner, la WCW. Poco dopo aver messo piede in federazione, Hogan e il suo gruppo di amici assume il quasi totale controllo creativo degli show, mettendo in scena il momento più significativo e memorabile nella storia del wrestling professionistico: il suo inaspettato passaggio nelle fila dei cattivi dopo una carriera in cui aveva incarnato Truth, Justice and the American Way, ma contribuisce anche a una serie di terrificanti decisioni che porteranno la WCW a collassare a cavallo del millennio con un tonfo fragoroso da centinaia di migliaia di dollari.

Nel frattempo il wrestling è cambiato, come la società, e Hogan si adatta a questa nuova attitudine, tra ritorni e nuove avventure, nonostante il fisico inizi ad abbandonarlo. Ma  non sa stare lontano dai riflettori e nel 2005 accetta di mettere in vetrina la sua vita privata nel reality Hogan Knows Best su Mtv. Ma è un altro pezzo di tv verità a segnare gli ultimi anni di carriera di Hogan: nel 2015 emerge un sex tape del 2007 in cui l’eroe americano apostrofa con una serie di epiteti razzisti il presunto fidanzato della figlia. Le parole pronunciate a letto insieme alla moglie del suo amico Bubba causano il crollo dell’impero editoriale di Gawker, che le aveva diffuse illegalmente, ma producono anche enormi crepe nel mito dell’eroe americano.

La figura pubblica di Hogan inizia da quel momento un lento, ma inesorabile declino. Il rapporto con la WWE (che nel frattempo ha cambiato nome dopo una causa intentata dal WWF, quello che protegge gli animali) viene reciso, poi ricucito qua e là in nome dell’amore per i soldi condiviso con l’amico Vince McMahon, altra figura ricca di ombre esposte da un recente documentario su Netflix, con cui Hogan ha condiviso anche la recente infatuazione per Donald Trump, sostenuto in un comizio-show rivelando il logo della campagna elettorale del candidato repubblicano sotto la canottiera strappata a favore di pubblico.

Nessuno ti ama

Ma ormai gli anni 2000 hanno imposto una nuova mentalità: lo spogliatoio WWE non lo ama, troppe sono state le menzogne diffuse da Hogan in una serie di interviste contraddittorie il cui unico evidente fine era ripulire il suo nome ormai in disgrazia. Quel che è peggio, il pubblico si è raffreddato: all’uscita di ogni nuovo capitolo del videogioco WWE 2K, YouTube si riempie di video in cui gli utenti si divertono a piazzare l’alter ego digitale di Hogan sul ring con tutti i wrestler afroamericani del roster, per vederlo poi fatto a pezzi. Nella sua ultima apparizione in WWE, il 6 gennaio 2025 in occasione dell’approdo su Netflix degli show della compagnia, Hogan è sommerso dai fischi dell’arena losangelina, apprendo piuttosto scosso mentre provava comunque a promuovere la sua birra strappandosi inutilmente la canotta.

Hulk Hogan è morto ieri, per un arresto cardiaco all’età di 71 anni, esattamente dieci anni dopo la pubblicazione del famigerato sextaoe. Sono piuttosto sicuro che se il suo storico rivale The Iron Sheik fosse ancora in vita avrebbe twittato, come era solito fare quando aveva voglia di insultare Hogan, che morire a pochi giorni da Ozzy Osbourne fosse esattamente l’uscita di scena che si aspettava da Hulk Hogan, uno disposto persino a farsi venire un infarto pur di rubare le luci della ribalta a qualcun altro.

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