Cultura | Fotografia

Tutte le vite di Helmut Newton

A cent’anni dalla nascita, il ricordo di un fotografo che ha impresso su pellicola il rifiuto della disciplina.

di Enrico Ratto

(Photo by Ron Galella/Ron Galella Collection via Getty Images)

Oggi, 31 ottobre 2020, Helmut Newton compirebbe cento anni dal giorno della sua nascita. La prima, perché poi è rinato molte altre volte e, se ci fate caso, non sembra esserci una sola foto, ritratto o autoritratto, nella quale i suoi occhi non siano pronti a cogliere l’imprevisto che può cambiare il corso delle cose.

Helmut Neustädter “Newton” nasce a Berlino da famiglia di imprenditori ebrei, ma questa storia prevedibile, disciplinata e medio-borghese cambia in fretta. Nel 1938, un mese prima delle leggi razziali fugge a Singapore e poi viene espulso in Australia dove, nel 1945, cambia il cognome: nasce Helmut Newton. Fotografo che segue le regole, oggi irriconoscibile. «Le mie fotografie volevano assomigliare a quelle delle riviste di moda anglosassoni, ed erano brutte», dichiara in un’intervista. 

In Australia conosce June Browne, la sposa, lei cambia nome puntando la matita in un punto qualsiasi della carta geografica del continente: esce Alice Springs. Tra gli anni ’60 e ’70, una serie di gravi problemi di salute tra cui un attacco di cuore, per Helmut Newton sono la nuova occasione per cambiare: la vita è troppo breve per copiare cose già fatte da altri e così, a cinquant’anni, si concentra sulla sola cosa che conta: battere il sistema, beating the system.

E battere il buon gusto, che considera una pessima parola. La vita non è fatta di buon gusto, le storie si nutrono di imperfezione, degli equilibri – o disequilibri – generati dal potere. La vita deve essere fotografata con pellicole a grana grossa, la macchina fotografica leggermente inclinata, le donne e gli uomini devono vivere ruoli il più distante possibile dal politicamente corretto. Abbandona la Kodachrome, una pellicola dall’effetto troppo patinato, e si muove tra l’insofferenza di passare al prossimo servizio – ha amato più i quotidiani dei magazine – e la lunga attesa dell’imprevisto: la pioggia, un colpo di luce, un cane che passa ed annusa la modella. Dice sempre che «la foto buona, molto spesso, è la trentaseiesima del settimo rullino».

Gli ambienti migliori per fotografare sono le case e gli hotel che abita, «perché le donne non vivono di fronte a un fondale bianco». Quindi, da Parigi a Ramatuelle, da Los Angeles a Monte Carlo, Newton allestisce scene e crea icone. Nel 1975 in Rue Aubriot, la via dove abita con la moglie June per quattordici anni, fotografa una modella per Yves Saint Laurent e nasce “The Smoking”. Il vestito, la luce, il luogo, escono dalla realtà vissuta da Newton a Parigi. Chi torna oggi in quella piccola via del Marais, ritrova tutto esattamente come è nella foto per YSL, la chiesa sullo sfondo, le finestre ad arco sulla destra, hanno aggiunto solo i paletti che delimitano il marciapiede, le parigine.

La lente dell’indisciplina attraverso la quale guarda il mondo non corrisponde al rigore con cui continua a lavorare per le riviste, per i marchi e per moltissimi committenti privati, anche quando non ne avrebbe più bisogno. Costringere le idee in binari molto stretti è il solo modo per creare storie interessanti.

Nel 1984 Pirelli commissiona ad Helmut Newton il calendario dell’anno. Secondo le indicazioni, per la prima volta, nelle foto deve evidente il marchio dell’azienda. Una prima foto viene scattata a Monte Carlo, durante il Gran Premio: l’automobile scende dal tir, la modella è appoggiata allo pneumatico brandizzato, un uomo la osserva e la controlla, è il potere avvolto in una tuta ignifuga come fosse una maschera. Poi il set si sposta in Toscana, sulle colline senesi. Qui la storia cambia: la ragazza di campagna è tentata dalla nuova vita, fa le valige per lasciare tutto e fuggire dai vigneti a bordo delle supercar. Quando i dirigenti Pirelli vedono le dodici foto selezionate, pagano il lavoro e chiudono le stampe dentro scatoloni che finiscono per anni nei magazzini dell’azienda. Quell’anno, il calendario Pirelli non esce, il sistema non era stato battuto. Ci sono voluti trent’anni per superare la censura del buon gusto, il calendario Pirelli di Newton uscirà solo nel 2014.

Negli anni ’80, Monte Carlo diventa il suo rifugio, fiscale e mentale. Trascorre i lunghi periodi della depressione passeggiando per i giardini del casinò affacciati sul Mediterraneo, le modelle e le star lo raggiungono nel Principato, dove la luce cambia continuamente e dove può ottenere senza problemi i permessi per fotografare. Quando si leggono le fotografie di Helmut Newton, infatti, la storia non sta nella scena, ma in tutto ciò che può esserci stato prima e dopo. Perché, oltre a battere il sistema, il vero problema è sempre stato eludere la sorveglianza. I suoi editori, e i galleristi, lo hanno ben capito e negli anni successivi alla sua morte sono state diffuse centinaia di Polaroid scattate durante la preparazione dei set. Un backstage che emana imperfezione, erotismo, istantanee che conferiscono ancora più leggenda ai nudi stampati in formato gigante.

Anche la morte di Helmut Newton è una storia. Si svolge allo Chateau Marmont, Sunset Boulevard di Los Angeles, il Chelsea Hotel della West Coast, nei suoi bungalow ci è morto John Belushi e nella sua piscina sono ambientati i film di Sofia Coppola. La mattina del 23 gennaio 2004, a 83 anni, Newton si schianta contro il muro dell’hotel con la Cadillac, non è mai stato chiarito se l’incidente sia stato conseguenza di un malore. La moglie June raccoglie – e difende – l’immensa eredità del fotografo, la fa confluire nella Newton Foundation di Berlino dove, ogni anno, viene inaugurata una mostra con questo format: un grande fotografo classico, un nome meno conosciuto che vive l’occasione come un trampolino, ed una selezione di scatti e cimeli di Newton che sembrano uscire dall’archivio infinito di storie che sono state la sua vita. Molte vite, migliaia di storie perché, come lui stesso ha raccontato: «Sono come tante altre persone, mi siedo sulla spiaggia o sulla terrazza di un caffè, guardo la gente – soprattutto le donne – e mi invento delle storie. È un buon modo per passare una mezz’ora».