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In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.
In Giappone un’azienda si è inventata i macho caregiver, dei culturisti che fanno da badanti agli anziani Un'iniziativa che dovrebbe attrarre giovani lavoratori verso una professione in forte crisi: in Giappone ci sono infatti troppi anziani e troppi pochi caregiver.
Rosalía ha condiviso su Instagram un meme buongiornissimo in cui ci sono lei e Valeria Marini  Cielo azzurro, nuvole, candele, tazza di caffè, Rosalia suora e Valeria Marini estasiata: «Non sono una santa, però sono blessed», si legge nel meme.
Hideo Kojima si è “giustificato” per la sua foto al Lucca Comics con Zerocalcare dicendo che l’ha fatta senza sapere chi fosse Zerocalcare Non c’era alcuna «intenzione di esprimere sostegno a nessuna opinione o posizione» da parte di Kojima, si legge nel comunicato stampa della Kojima Productions.
Anche Charli XCX si è messa a scrivere su Substack Il suo primo post si intitola "Running on the spot of a dream" e parla di blocco della scrittrice/musicista/artista.
A poche ore dalla vittoria al Booker Prize è stato annunciato che Nella carne di David Szalay diventerà un film Ad acquisire i diritti di trasposizione del romanzo sono stati i produttori di Conclave, noti per il loro fiuto in fatto di adattamenti letterari.
Il nuovo film di Tom Ford è già uno dei più attesi del 2026, per tantissime e buonissime ragioni Un progetto che sembra quasi troppo bello per essere vero: l'adattamento di uno dei più amati romanzi di Ann Rice, un cast incredibile, Adele che fa l'esordio da attrice.
Nel primo teaser del Diavolo veste Prada 2 si vede già la reunion di Miranda e Andy Le protagoniste salgono insieme sull’ascensore che porta alla redazione di Runway, riprendendo una scena cult del film originale.

Quanto conta lo stile di un giornale

Come le testate, in Italia e all'estero, si costruiscono un'identità a partire dalla lingua.

25 Agosto 2017

Quando un mio conoscente ha iniziato a scrivere per l’Economist, mi ha raccontato, tirandosela un poco (probabilmente io avrei fatto lo stesso), che il suo nuovo giornale dava mandati ben precisi su come scrivere un articolo, una sorta di cencelli che richiedeva che ogni pezzo fosse composto da: almeno un venti per cento di storia, almeno un venti per cento di analisi e almeno un venti per cento di umorismo. Immagino che l’idea fosse rendere fluidi i pezzi, ma ancora di più uniformarne lo stile, rendendoli facilmente riconoscibili e identificabili. Insomma fare capire che quello è un pezzo dell’Economist, scritto secondo le regole dell’Economist, un messaggio che arriva al pubblico senza mai essere esplicitato: nessuno, fatta eccezione per qualche media nerd, mentre legge un articolo si mette a pensare “si vede proprio che è stato scritto così e cosà”, però alla lunga il linguaggio e lo stile si consolidano e, almeno agli occhi del lettore abituale, contribuiscono a costruire un brand, un’identità.

Quello citato qui sopra è un caso forse un po’ estremo e non escludo del tutto che il mio conoscente stesse un po’ esagerando. In Italia, per quello che ho avuto occasione di osservare, siamo abituati a codici meno rigidi, o se non altro meno espliciti: non mi è mai capitato di scrivere per una testata italiana dove il caporedattore mi mandasse una guida stilistica (mi chiedo, tra l’altro, da persona a cui capita di commissionare ed editare pezzi, come reagirebbe un giornalista italiano davanti a direttive tanto perentorie; un mio collega sostiene che si offenderebbe, o magari si limiterebbe a ignorarle). Questo però non significa che i codici stilistici non esistono. Tra i media italiani che hanno uno stile più immediatamente riconoscibile, mi vengono in mente il Post, con i suoi titoli “spiegato bene”, che non a caso vengono parodiati; Vice Italia, che ha iniziato traslando in italiano un certo tipo di linguaggio americano ed è finito per creare un linguaggio proprio; e, naturalmente, Dagospia, con la sua tendenza, evidentemente voluta, a utilizzare perifrasi al posto dei nomi.

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Altri media, poi, hanno convenzioni forse un po’ meno evidenti. Personalmente, associo a un certo stile tipicamente da Foglio l’utilizzo del verbo “spiegare” al posto di “dire” oppure di “raccontare”: una fonte non dice o racconta qualcosa, la spiega, e questo contribuisce a conferirle autorevolezza. Per paradosso, Internazionale, che nella sua edizione cartacea è composto quasi esclusivamente da articoli in traduzione, ha uno stile piuttosto riconoscibile: è una scelta ben precisa, dettata dall’esigenza di rendere omogeneo un giornale composto da testi in origine particolarmente eterogenei, e perseguita con un’attenzione al dettaglio (un lettore particolarmente attento, per esempio, potrebbe notare che Internazionale utilizza il verbo “cominciare” molto più spesso di quanto non utilizzi “iniziare”). Non a caso, è uno dei pochi media italiani a impiegare dei copyeditor, oltre a degli editor.

Verrebbe da chiedersi a che cosa servono queste minuzie. Anche nei luoghi più insospettabili, qualcuno comincia a pensare che il gioco non valga la candela. S’è parlato molto, per esempio, della decisione presa da parte del New York Times di eliminare proprio i copyeditor: questo, ha fatto notare qualcuno, significherà, tra le altre cose, che non ci sarà più qualcuno al desk che si prenderà la briga di sostituire la parola “dad” con “father” e il risultato sarà anche che il Nyt potrebbe perdere un certo formalismo nello stile che lo distingueva da altre testate analoghe. Avete notato che i paragrafi del New York Times sono molto più lunghi di quelli del Washington Post? Magari no, però è assai probabile che, se leggete spesso i media anglofoni, sappiate distinguere un articolo di un quotidiano da quello dell’altro.

Certo, l’omogeneità stilistica – che non richiede necessariamente copyeditor per essere mantenuta, anche se la loro presenza aiuta – è un obiettivo stilistico perseguito da molte testate; però in alcuni giornali ricopre un ruolo di maggiore piano. Di recente The Baffler ha pubblicato un articolo dedicato allo stile del New Yorker: da nessuna altra parte, in America, la parola élite è scritta con l’accento acuto e il verbo “reëmerge”, o riemergere, ha la dieresi (il New York Times, per dire, utilizza lo spelling quasi-proletario “re-emerge”). Nel caso specifico del New Yorker, però, un approccio all’ortografia decisamente snob è parte integrante dell’identità della testata: basterebbe davvero poco per scardinarne l’immagine.

Immagine in evidenza (Getty); all’interno: la protesta dei copy editor contro i tagli al New York Times.
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