Lo ha rivelato il Washington Post, che ha pubblicato parti di questo piano di ricostruzione di Gaza che sembra un (brutto) racconto sci-fi.
Nata nell’estate del 2025 come fronte unificato della società civile internazionale, la flotta rappresenta la convergenza inedita di quattro reti: Freedom Flotilla Coalition, Global Movement to Gaza, Maghreb Sumud Flotilla, Sumud Nusantara. Insieme uniscono forze, risorse e imbarcazioni con un obiettivo comune: rompere il blocco navale imposto da Israele a Gaza e aprire un corridoio umanitario dal basso, là dove i governi hanno fallito e dove la fame imposta è diventata un’arma di guerra. Il 31 agosto sono partite le prime imbarcazioni da Barcellona e Genova; un secondo blocco seguirà il 4 settembre. In totale, decine di navi con oltre seimila persone si dirigeranno verso Gaza. La missione non prevede però solo persone, ma anche centinaia di tonnellate di aiuti umanitari: cibo, acqua potabile, farmaci, latte in polvere, strumenti medici. Solo da Genova, dove una fiaccolata di solidarietà ha coinvolto 50.000 manifestanti, si sono superate in pochi giorni le 40 tonnellate di aiuti umanitari raccolti.
Un ruolo centrale nell’organizzazione della Global Sumud Flotilla lo hanno avuto i lavoratori portuali di Genova. Hanno contribuito alla logistica e alla preparazione della partenza, mettendo a disposizione competenze professionali e capacità organizzative. Si tratta infatti di un viaggio pericoloso e difficile da pianificare: si conosce la data di partenza, ma non quella di ritorno. Già a giugno Israele aveva bloccato la nave “Madleen” della Freedom Flotilla Coalition, a bordo della quale viaggiava anche Greta Thunberg, mentre il ministro della sicurezza nazionale israeliana Ben Gvir ha annunciato che gli attivisti partiti in questi giorni saranno considerati come terroristi. Un contesto che rende impossibile prevedere la durata reale della missione. A queste incertezze si aggiungono le difficoltà pratiche: coordinare equipaggi composti in gran parte da non professionisti del mare in una traversata lunga e complessa richiede preparazione, disciplina e coraggio.
Ho discusso di tutto questo con José Nivoi, portuale, sindacalista, attivista del Calp (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) e membro dell’equipaggio salpato da Genova domenica. Con lui abbiamo parlato di come ci si prepara a un viaggio del genere, di come si costruisce un apparato logistico adeguato e delle difficoltà concrete che emergono lungo il percorso. Ma anche dell’aspetto più umano: come si affronta, dal punto di vista psicologico, un’esperienza tanto incerta e rischiosa.
ⓢ Nella preparazione della partenza, quali sono stati i principali ostacoli organizzativi che avete dovuto affrontare, soprattutto considerando la complessità logistica di un’operazione così vasta e la grande quantità di aiuti raccolti?
Diciamo che c’è un po’ un paradosso. La raccolta di aiuti è andata talmente bene da diventare difficile da gestire. Chiaramente ne siamo entusiasti: la risposta della città di Genova è stata incredibile. Si sono mossi tutti, anche realtà e persone lontanissime dal mondo dell’attivismo. Il sentimento di solidarietà è stato fortissimo. Siamo arrivati a 115 tonnellate di beni raccolti, quando l’obiettivo iniziale era di 40: numeri che parlano da soli. C’è stata una grandissima partecipazione di volontari, che si sono messi a disposizione per preparare i pacchi di prima necessità. In alcuni momenti eravamo costretti a dire “ragazzi basta, tornate più tardi”, e loro davvero si ripresentavano la sera. C’era una voglia palpabile di partecipare, di contribuire concretamente alla Flotilla. È una mobilitazione che a me ha ricordato le alluvioni qui a Genova, quando le persone si attivavano in maniera autonoma, cercando di capire dove fossero più utili. Naturalmente, però, ci sono anche delle difficoltà pratiche: ogni nuovo volontario che arriva va formato e guidato, anche solo per preparare correttamente un pacco.
ⓢ Che ruolo concreto avete avuto, come lavoratori portuali di Genova, nella preparazione e nell’organizzazione della Global Sumud Flotilla?
Nello specifico ci siamo occupati soprattutto della parte logistica. Abbiamo dato supporto nel trovare le banchine dove far attraccare le navi, gestendo le comunicazioni con la Capitaneria e con l’amministrazione comunale. Abbiamo cercato skipper disponibili a navigare – tanto che uno di noi è stato inviato a Barcellona per mettere a disposizione le proprie competenze – e ci siamo occupati anche del reperimento di materiali per la riparazione e l’allestimento delle imbarcazioni.
Il nostro lavoro è stato quindi soprattutto portuale e a terra: organizzare i mezzi per trasferire i beni di prima necessità fino in Sicilia, dove partirà una seconda flotta di navi, contattare le aziende che curano l’imbarco e lo sbarco delle merci, mettere a disposizione tutte le nostre competenze di lavoratori del porto. Accanto a questo c’è poi la dimensione mediatica: siamo riconosciuti come coloro che bloccano le armi dirette a Israele, ma ora portiamo beni di prima necessità. È importante comunicarlo e chiedere l’appoggio di tutte e tutti. Infine, come sindacato – l’Unione Sindacale di Base – stiamo già preparando il terreno per quello che succederà dopo la partenza, perché problemi ce ne saranno: che si tratti di arresti, di blocchi o delle difficoltà all’arrivo. Ci muoviamo quindi a 360 gradi: come attivisti politici, ma prima di tutto come sindacalisti, rappresentanti dei nostri iscritti e lavoratori portuali.
ⓢ Quanto è stata significativa, in termini numerici e di partecipazione concreta, l’adesione dei lavoratori portuali all’iniziativa? E, dall’altra parte, come hanno reagito le autorità e l’amministrazione del porto?
Innanzitutto, c’è un aspetto morale importante: sapere che io e un altro ragazzo del sindacato saremo a bordo come membri dell’equipaggio e che partiremo insieme ai beni raccolti ha generato molta solidarietà e sostegno attorno a noi. Devo dire che, al di là di questo, ogni volta che ci mobilitiamo con gli scioperi per bloccare le armi, quando si tratta della Palestina, l’adesione è quasi totale. L’ultimo sciopero ha visto l’80% di partecipazione. E allora un’operazione come questa assume un valore doppio: da un lato è umanitaria, dall’altro rappresenta concretamente una categoria di lavoratori che si schiera contro un genocidio.
Dal punto di vista delle autorità portuali c’è stata la massima disponibilità: ci hanno permesso di spostare le barche in punti più strategici in vista della partenza. Ma questo si inserisce in un clima politico generale che guarda con favore a questa iniziativa. C’è un appoggio trasversale. Ti faccio un esempio: Bucci, presidente di Regione Liguria, oggi commenta positivamente questa mobilitazione. Mi fa sorridere, perché parliamo della stessa persona che poco tempo fa ci definiva delinquenti quando bloccavamo le navi cariche di armi dirette in Israele. Ora, visto che l’opinione pubblica a Genova – sia a destra che a sinistra – appoggia l’iniziativa, anche lui si è dovuto posizionare a favore della Palestina.
ⓢ Com’è composto l’equipaggio della Flottilla? Quanto è complesso coordinare persone che non sono professionisti del mare e come pensate di affrontare questa sfida?
Quello che ti posso dire è che ho visto un’organizzazione solida: gli equipaggi sono stati composti con criterio, con scelte tecniche fatte bene, e ognuno è chiamato a dare il proprio contributo, dall’attracco alla chiamata di un meccanico. Questa coralità è ciò che mi tranquillizza di più: sapere che la stessa voglia di partecipare che ha spinto tutti fino a qui si trasformerà, a bordo, in spirito di sostegno reciproco. Il motivo per cui si scelgono equipaggi eterogenei è proprio quello di garantire equilibrio, sia a livello psicologico sia in termini di competenze pratiche. Questo è ciò che dà sicurezza: sapere che a bordo ognuno ha un ruolo preciso. Anche chi viene percepito come il “vip” deve essere parte organica dell’equipaggio, contribuendo come tutti, anche con piccole cose: preparare da mangiare, fare un caffè, pulire il bagno. Su una barca non c’è spazio per l’apparenza. Poi, certo, c’è anche una dimensione mediatica importante. La flotta ha una risonanza internazionale: l’hype è massimo al momento della partenza, ma la vera sfida arriva durante la navigazione e soprattutto dopo. Lì serve mantenere viva l’attenzione, ed è per questo che anche l’aspetto comunicativo a bordo ha un ruolo fondamentale.
ⓢ Quali scenari avete messo in conto per questa missione, tra i rischi concreti e le incognite che potrebbero presentarsi lungo il viaggio?
Gli interrogativi sono tanti: riusciremo davvero ad arrivare? E se arrivassimo e trovassimo persone che cercano di scappare, cosa facciamo? Le lasciamo lì? E ancora: come avverrà la consegna dei beni? Bisogna considerare che, per chi non ha nulla, un pacco di pasta equivale all’oro, e quindi il rischio di situazioni di panico è reale. Questo riguarda non solo la loro incolumità ma anche la nostra. A occhio direi che, se tutto andasse bene e riuscissimo ad arrivare, ci vorrebbe almeno un mese prima di rientrare. Ma le variabili sono tante, e non di poco conto. La più grande resta l’incognita legata a Israele: il rischio di arresto è concreto. Poi ci sono i fattori naturali: vento, tempeste, le condizioni del mare. È difficile fare previsioni senza dire sciocchezze. Credo però che, nelle condizioni migliori, potremmo arrivare a destinazione nella seconda metà di settembre.
ⓢ Come hai reagito quando è diventata concreta la possibilità di far parte dell’equipaggio, sapendo che si trattava di una missione rischiosa e dal forte valore politico oltre che umanitario?
Quando mi hanno chiamato, la prima reazione è stata pura adrenalina. Poi, certo, passata l’euforia, arrivano anche i pensieri nei momenti di silenzio. Stiamo parlando di uno Stato che oggi si comporta in maniera schizofrenica: basti pensare ai bombardamenti mirati contro i giornalisti. E allora sì, l’ipotesi che una barca possa essere affondata è concreta. Ma di fronte a quello che subisce la popolazione palestinese, per noi portare beni di prima necessità è davvero il minimo. Il problema vero è che tocca a noi cittadini pensarci, perché i governi non hanno il coraggio di prendere una posizione netta di fronte a un genocidio sotto gli occhi di tutti. Vale lo stesso per il blocco delle armi: siamo noi a dover fermare le forniture che servono a massacrare quella popolazione. È una follia. Quindi sì, c’è inquietudine, perché non sai cosa può succedere. Ma dall’altra parte ti dici: sai che c’è? Vaffanculo. Non possiamo restare comodi in Europa, a bere birrette e mettere la bandiera della Palestina su Facebook senza muovere un dito. Partecipare a questa operazione umanitaria, portare fisicamente quei beni, è il minimo che possiamo fare. E per noi ha un valore ancora più forte perché partiamo da un presupposto chiaro: siamo lavoratori, portuali, e non vogliamo essere complici della guerra. Vogliamo essere parte attiva di chi si oppone.