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14:32 sabato 25 ottobre 2025
Da quando è uscito “The Fate of Ophelia” di Taylor Swift sono aumentate moltissimo le visite al museo dove si trova il quadro che ha ispirato la canzone Si tratta del Museum Wiesbaden, si trova nell’omonima città tedesca ed è diventato meta di pellegrinaggio per la comunità swiftie.
Yorgos Lanthimos ha detto che dopo Bugonia si prenderà una lunga pausa perché ultimamente ha lavorato troppo ed è stanco Dopo tre film in tre anni ha capito che è il momento di riposare. Era già successo dopo La favorita, film a cui seguirono 5 anni di pausa.
Al caso del furto al Louvre adesso si è aggiunto uno stranissimo personaggio che forse è un detective, forse un passante, forse non esiste È stato fotografato davanti al museo dopo il colpo, vestito elegantissimamente, così tanto che molti pensano sia uno scherzo o un'immagine AI.
L’azienda che ha prodotto il montacarichi usato nel colpo al Louvre sta usando il furto per farsi pubblicità «È stata un'opportunità per noi di utilizzare il museo più famoso e più visitato al mondo per attirare un po' di attenzione sulla nostra azienda», ha detto l'amministratore delegato.
I dinosauri stavano benissimo fino all'arrivo dell'asteroide, dice uno studio Una formazione rocciosa in Nuovo Messico proverebbe che i dinosauri non erano già sulla via dell’estinzione come ipotizzato in precedenza.
Nelle recensioni di Pitchfork verrà aggiunto il voto dei lettori accanto a quello del critico E verrà aggiunta anche una sezione commenti, disponibile non solo per le nuove recensioni ma anche per tutte le 30 mila già pubblicate.
Trump ci tiene così tanto a costruire un’enorme sala da ballo alla Casa Bianca che per farlo ha abbattuto tutta l’ala est, speso 300 milioni e forse violato anche la legge Una sala da ballo che sarà grande 8.361 e, secondo Trump, assolverà a un funzione assolutamente essenziale per la Casa Bianca.
L’episodio di una serie con la più alta valutazione di sempre su Imdb non è più “Ozymandias” di Breaking Bad ma uno stream di Fortnite fatto da IShowSpeed Sulla piattaforma adesso ci sono solo due episodi da 10/10: "Ozymandias" e “Early Stream!”, che però è primo in classifica perché ha ricevuto più voti.

Chi era Fredric Jameson, l’autore della Bibbia del postmoderno

A 88 anni è morto il leggendario teorico della cultura, "creatore" di un immaginario, letterario ma anche politico, che ancora oggi usiamo per capire il mondo.

23 Settembre 2024

Non ha inventato la categoria di postmoderno ma ha reso questa parola un passepartout per afferrare processi molto diversi della contemporaneità: con questa chiave aveva accesso a fenomeni artistici, politici, culturali, architettonici, economici, ideologici, letterari, filosofici. Senza il lavoro di Jameson oggi non sapremmo interpretare molto aspetti del mondo in cui viviamo. Leggendario teorico della cultura, star degli studi marxisti negli Stati Uniti, professore multidisciplinare di letterature comparate, è studiato in ogni angolo del pianeta, nella metà degli anni Ottanta è già invitato a tenere conferenze nelle università cinesi.

È proprio in quegli anni, nel 1984, che pubblica su New Left ReviewPostmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism“, un saggio capitale, provocatorio e illuminante, che in Italia arriva grazie a Garzanti, un libretto di culto, poche pagine esplosive che formano una guida per districarsi in un’epoca indecifrabile. Il suo affondo è evocativo, rivelatore, capace di scoprire verità e di divulgarle a tutti. Nel 1991 esce il volume dal titolo Postmodernismo in cui espande quello studio precedente (in Italia sarà pubblicato da Fazi nel 2007). Questo libro è ancora la bibbia per chi vuole occuparsi del concetto di postmoderno, parola spesso scivolosa, molto spesso fumosa, fraintesa, finita per essere usata per definire tutto e il contrario di tutto. Per Jameson il postmoderno è un periodo storico e tutto ciò che accade quando la modernità ha esaurito la sua energia. Prodotti culturali compresi, ovviamente, che risponderebbero a logiche economiche, quelle del luna park chiamato tardo capitalismo. Tra le pagine indimenticabili di quel saggio, il confronto tra le scarpe rappresentate da Van Gogh e quelle di Andy Warhol, la lettura dell’hotel Bonaventura rivestito di specchi progettato da John Portman a Los Angeles, i romanzi di E. L. Doctorow, il cinema di David Lynch. Jameson è soprattutto un osservatore di forme, e in tutto ciò che vede coglie tratti comuni: la crisi della Storia, la lenta scomparsa del passato, la debolezza della realtà, il predominio su tutto della nostalgia, la sofferenza di stili ridotti a semplici giochi d’intrattenimento, inseriti nel frullatore di artisti incapaci di inventare qualcosa di veramente nuovo. Secondo Jameson il mondo ha perso profondità, tende a diventare una sterminata Disneyland dove tutto le caratteristiche delle epoche precedenti collassano tra loro.

La frase di Jameson più citata e più celebre resta: «È più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo». Anni dopo proverà a spiegare che non intendeva negare la possibilità di una rivolta contro il sistema capitalistico, perché ciò, tra l’alto, avrebbe sabotato la sua energia critica. Ma la frase resta emblematica del suo modo di intendere le ideologie e in particolare l’età del postmoderno: qualcosa in cui siamo totalmente immersi e che ci rende impossibile guardare oltre. Il suo incipit più fulminante invece è «Storicizzare sempre!», con cui si apre l’altro suo capolavoro, L’inconscio politico (del 1981), concentrato sui risvolti simbolici delle narrazioni letterarie.

Per affrontare Jameson bisogna essere pronti a lasciarsi travolgere dalla potenza dell’immaginario collettivo, passare da Hegel a Raymond Chandler, perdersi in una giostra planetaria di riferimenti a nuovi linguaggi, a paesaggi urbani trasformati dal denaro, aggirarsi tra metropoli di carta e insegne di Las Vegas. Tutto il discorso del postmoderno nasce infatti dall’architettura, da edifici improvvisamente piacevoli, colorati, divertenti, “architettura ludica”, incompatibili con il modernismo novecentesco. Da lì, procedendo in ogni direzione, legge tutto come segnale della fine della modernità. Il suo argomentare è complesso ma non oscuro (non è ostico come sfogliare Jacques Derrida o Jacques Lacan), per essere un marxista non è chiuso in una coltre ideologica, né in un linguaggio oracolare (ha dialogato con i teorici della Scuola di Francoforte ma è andato per la sua strada). Si percepisce chiaramente in ogni pagina una curiosità senza freni, il richiamo irresistibile di un mondo in cui sono saltati parametri, confini, valori e verità e che tuttavia è un mondo sempre più sfavillante e magnetico. Da giovane Jameson studia in Europa, digerisce vari mostri sacri, Auerbach, Adorno, Sartre, ma la sua terra è l’America e i viaggi internazionali per tenere conferenze. Per lo sguardo, gli interessi e le intuizioni la sua mente ricorda quelle eclettiche di Walter Benjamin e di Roland Barthes, menti capaci di destreggiarsi tra espressioni artistiche diverse e di individuare analogie tra testi letterari e urbanistica, tra filosofia e merci, tra cucine esotiche e industria culturale.

«La globalizzazione è la postmodernità e viceversa», scrive Jameson nel 2007. I suoi tantissimi libri e le sue parole d’ordine, “Marx”, “Brecht”, “inconscio”, “utopia”, “ideologia”, “allegoria”, “realismo”, sono ancora oggi istruzioni per decodificare la realtà, idee non invecchiate affatto, teorie che non conoscono però la parola fine, ma che sono pronte per essere riadattate e utilizzate ancora, all’infinito. Se ci sono elementi che Jameson condivide con il postmoderno riguardano un atteggiamento onnivoro nei confronti del reale, la vena giocosa e la libertà assoluta che lo ha reso uno dei maggiori interpreti del nostro tempo.

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