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Nel nuovo film di Carlo Verdone ci sarà anche Karla Sofía Gascón, la protagonista caduta in disgrazia di Emilia Pérez La notizia ha permesso a Scuola di seduzione di finire addirittura tra le breaking news di Variety.
Enzo Iacchetti che urla «Cos’hai detto, stronzo? Vengo giù e ti prendo a pugni» è diventato l’idolo di internet Il suo sbrocco a È sempre Cartabianca sul genocidio a Gaza lo ha fatto diventare l'uomo più amato (e memato) sui social.
Ci sono anche Annie Ernaux e Sally Rooney tra coloro che hanno chiesto a Macron di ripristinare il programma per evacuare scrittori e artisti da Gaza E assieme a loro hanno firmato l'appello anche Abdulrazak Gurnah, Mathias Énard, Naomi Klein, Deborah Levy e molti altri.
Per Tyler Robinson, l’uomo accusato dell’omicidio di Charlie Kirk, verrà chiesta la pena di morte  La procura lo ha accusato di omicidio aggravato, reato per il quale il codice penale dello Utah prevede la pena capitale. 
Una editorialista del Washington Post è stata licenziata per delle dichiarazioni contro Charlie Kirk Karen Attiah ha scoperto di essere diventata ex editorialista del giornale proprio dopo aver fatto sui social commenti molto critici verso Kirk.
In Nepal hanno nominato una nuova Presidente del Consiglio anche grazie a un referendum su Discord Per la prima volta nella storia, una piattaforma pensata per tutt'altro scopo ha contribuito all'elezione di un Primo ministro.
Amanda Knox è la prima ospite della nuova stagione del podcast di Gwyneth Paltrow Un’intervista il cui scopo, secondo Paltrow, è «restituire ad Amanda la sua voce», ma anche permetterle di promuovere il suo Substack.
Luigi Mangione non è più accusato di terrorismo ma rischia comunque la pena di morte L'accusa di terrorismo è caduta nel processo in corso nello Stato di New York, ma è in quello federale che Mangione rischia la pena capitale.

Francoforte come idea di Europa

Nella città che punta a diventare la nuova Londra e riesce a tenere insieme denaro, cultura e due banche centrali.

18 Febbraio 2018

Muoversi per il centro di Francoforte non sarebbe affatto scomodo, se non fosse per due inconvenienti. Per cominciare, in città esistono due sistemi di metropolitana, la S-Bahn, il passante ferroviario, e la U-Bahn, la metrò vera e propria, ma per qualche ragione Google Maps ignora l’esistenza della seconda, cosa che rende le sue indicazioni inutili: quando confessi di esserti affidato al motore di ricerca, i locali sgranano gli occhi con un misto di compatimento e disapprovazione, «lo sanno tutti che si deve usare Rmv», l’app della società di trasporti. Poi, la Altstadt, la città vecchia, è tutta un cantiere. È sempre stato così. Il centro storico, in passato uno dei meglio preservati della Germania, con le sue Fachwerkhäuser dalle travi a vista e le sue chiese medievali, è stato raso al suolo nel 1944; le fotografie dell’epoca esposte all’Historisches Museum, inaugurato a ottobre, mostrano una distesa di macerie su cui si levava soltanto lo scheletro della cattedrale, rimasta in piedi per metà.

«Che cosa fai quando il passato della tua città viene completamente distrutto?»

Hanno iniziato a ricostruirlo all’inizio degli anni Cinquanta e da allora non hanno mai smesso. In principio si decise di edificare secondo gli stili contemporanei; poi prevalse un’altra scuola di pensiero, secondo cui il patrimonio artistico meritava di essere riportato in vita; così furono demoliti alcuni degli edifici brutalisti e al loro posto fu ricostruita, da zero, qualche palazzina antica. Il risultato lo si può vedere in piazza Römerberg, dove la Ostzeile, la caratteristica fila di sei case a graticcio in perfetto stile cinquecentesco (la più vecchia è del 1986), fa la sua figura. Tutto molto finto. Già, ma l’alternativa qual era? «Che cosa fai quando il passato della tua città viene completamente distrutto? Cerchi di ricrearlo, a costo di ottenere un risultato posticcio, oppure resti fedele al principio dell’autenticità, e accetti che il prezzo da pagare sia la rimozione della storia? È stato un dibattito molto acceso», ricorda Barbara Deppert-Lippitz, presidente di Freunde Frankfurts, l’associazione che dagli anni Venti si occupa della tutela dell’Altstadt.

La cosiddetta “Mainhattan”, come i tedeschi chiamano il distretto finanziario (Christophe Coënon)

Fa un certo effetto pensare che la ricostruzione postbellica sta continuando oggi. Eppure non è questa l’unica ragione per cui si sta edificando tanto. Da quando il Regno Unito ha deciso per la Brexit, Francoforte spera di diventare il polo finanziario dell’Europa, più di quanto non lo sia già. Tra banche, servizi e agenzie europee, decine di migliaia di lavoratori lasceranno Londra: secondo Bloomberg saranno quarantamila. Francoforte punta ad accaparrarsene una buona fetta, e in questo è in competizione con Parigi, Dublino e Milano. È una rivalità in parte apparente, perché va da sé che i posti della finanza londinese andranno ridistribuiti in varie città; ma pur sempre una gara di cui la città va fiera, e in cui è convinta di essere in vantaggio: la Goldman Sachs, che oggi impiega circa 200 persone a Francoforte, ha firmato un contratto d’affitto per un enorme spazio capace di ospitarne almeno mille, nel cuore della cosiddetta “Mainhattan”, come i tedeschi chiamano, un po’ con affetto e un po’ a mo’ di sfottò, il distretto finanziario.

È anche per via di questa frenesia post-Brexit che c’è una gru a ogni angolo: «Stanno costruendo come se tutto fosse già fatto, dicono “arrivano le banche, arrivano le banche!” e puntano su un’impennata dei valori immobiliari», dice Sandra Maravolo, che nonostante il nome (ha un nonno italiano) è una francofortese doc. Da più di vent’anni gestisce InsideHer, un negozio di erotica nella centralissima Stiftstraße: davanti alla sua boutique, c’è il cantiere di uno dei progetti più ambiziosi, “Flare of Frankfurt”, un complesso di uffici, residenze e negozi di lusso perfetto per l’arrivo degli esuli della Brexit. C’è già chi teme il contraccolpo: «Se dovessero venire decine di migliaia di nuovi residenti tutto d’un colpo, i prezzi salirebbero alle stelle, e questo sarebbe un problema anche per una città benestante come Francoforte. Del resto abbiamo appena 700 mila abitanti», osserva Sandra.

«È una città a misura d’uomo, ma globale. Nel nostro condominio ci sono albanesi, brasiliani e irlandesi»

Perché, alla fine, Francoforte questo è, una città che punta a essere la nuova Londra, ma ha gli stessi abitanti di Torino. È un villaggio globale, nel senso più letterale: tra gli expat nel finanziario e le comunità immigrate più povere di turchi e afgani, più di un quarto degli abitanti sono in possesso di un passaporto straniero e qui sono rappresentate ben 180 nazionalità. Eppure. Eppure la città mantiene la sua aria da paesone. I francesi contano molto, forse un po’ troppo, su questo fattore: perché le istituzioni internazionali dovrebbero trasferirsi sul Meno, quando potrebbero avere le luci di Parigi? Vuoi mettere la vita notturna, la cultura di una metropoli globale? Però gli estimatori di Francoforte sostengono che la sua attrattiva principale sta proprio nella capacità di combinare lo spirito cosmopolita al placido ritmo della provincia. Uno di loro è Ralph Passer, un imprenditore trentottenne originario di Dresda, sposato con una cinese e che lavora coi mega-eventi internazionali. Davanti a un boccale di birra in una tranquilla Apfelweingaststätte, Ralph mi racconta di avere vissuto un po’ ovunque, da Auckland a Shanghai e di essere capitato qui quasi per caso: «Mia moglie Echo ed io viaggiamo molto per lavoro, dunque cercavamo un posto con un aeroporto ben connesso. Poi è capitato che, per la prima volta, ci siamo sentiti veramente a casa. È una città a misura d’uomo, ma globale. Nel nostro condominio ci sono albanesi, brasiliani e irlandesi, il medico di famiglia è slovacco».

Francoforte ama presentarsi come «l’unica città che ha due banche centrali», perché ospita sia la Deutsche Bundesbank che la Bce. Quello di cui in città si parla un po’ meno volentieri, però, è lo scontro frontale tra queste due istituzioni, una rivalità che si ripercuote ben al di là dei confini della Germania e che riflette una frattura profonda, che riguarda tutta l’Europa. Da un lato la Bce di Mario Draghi, con il suo scudo anti-spread e il quantitative easing, pronta a fare tutto il necessario, «whatever it takes», per salvare l’Euro, anche se questo significa acquisti massicci di titoli di Stato da governi già abbondantemente indebitati e tenere i tassi bassi. Dall’altro lato la cultura economica teutonica che privilegia il rigore e la prudenza, l’Ordnungspolitik che vede indebitamento e interventismo come fumo negli occhi. Non è uno scontro sotto-traccia, è una guerra aperta che si consuma sui giornali, nelle aule di tribunale, e che secondo alcuni tracima in un antagonismo tra Jens Weidmann, il presidente della Deutsche Bundesbank, e Draghi. Si sono insediati entrambi nel 2011 e fin dall’inizio Weidmann non le ha mandate a dire: nel 2012 definì il programma di acquisti di Draghi «una droga» per i governi. L’anno dopo la Bundesbank ha trascinato la Bce davanti alla Corte costituzionale tedesca sostenendo che minacciava l’autonomia degli Stati (la Corte ha poi dato ragione a Draghi nel 2016). La Bundesbank è tornata alla carica di recente, citando la Bce in giudizio, sempre davanti alla Corte costituzionale tedesca, accusandola di fare una politica di aiuto mascherato: il 18 ottobre i giudici tedeschi hanno respinto il caso perché non era di loro competenza.

«La Bce è un corpo estraneo per Francoforte», spiega Tonia Mastrobuoni, la corrispondente di Repubblica in Germania. «All’inizio i tedeschi si aspettavano che la Bce sarebbe diventata l’erede della Bundesbank, cosa che non è accaduta, anzi le due istituzioni hanno finito per incrociare le spade. È una rivalità pubblica soprattutto per via dello stile di comunicazione della Bundesbank, che a differenza della Bce non è molto riservata. Il dato più divertente è che adesso la competizione sta diventando pure architettonica». Fino al 2015 la Bce aveva la sua sede centrale nella Eurotower, un palazzone anni Settanta in piazza Willy Brandt; poi si è trasferita in un avveniristico complesso nella zona orientale della città, dove sorgeva il mercato centrale. Per non essere da meno, l’anno dopo la Bundesbank ha annunciato che avrà un grattacielo nuovo.

In questa storia, lo scontro non è soltanto tra le due banche di Francoforte, ma tra due scuole di pensiero che forniscono due risposte opposte alla stessa domanda: come si salva l’euro, con gli stimoli oppure con il rigore? Privilegiando la crescita delle economie stagnanti oppure tutelando gli interessi dei piccoli risparmiatori? Draghi ha salvato l’Europa, su questo concordano quasi tutti gli analisti. I tedeschi, però, hanno le loro ragioni per essere terrorizzati dall’indebitamento e ancor più dall’inflazione. E, come spesso capita in Germania, sono ragioni storiche. Da queste parti è vivo il ricordo della Repubblica di Weimar, quando decisioni scellerate, unite al massiccio debito di guerra, portarono all’iperinflazione, che favorì l’ascesa di Hitler; cosa, che a sua volta, portò alla distruzione della Germania e dell’Europa, a quella guerra che rase al suolo il centro di Francoforte. Nella memoria collettiva tedesca, è stata una politica finanziaria disinvolta a provocare quel conflitto globale che, questo è lo spirito originario dell’Unione europea, ci siamo riproposti di scongiurare. Ne consegue che difendere rigore e oculatezza è il modo migliore di difendere la pace nel continente.

Francoforte

Francoforte è anche la sede della fiera dell’editoria più importante d’Europa (Christophe Coënon)

Se l’Europa è l’euro, allora Francoforte è la sua capitale. Di questo, la città è convinta

Per il momento ha vinto la linea Draghi. Resta da chiedersi che cosa accadrà nel 2018, quando il suo mandato finirà. I tedeschi vorrebbero metterci un uomo loro, anzi, lo stesso Weidmann. Cambierà ogni cosa? Gli ottimisti dicono che lo scontro potrebbe rientrare, anzi sta già rientrando: «Se diventerà il nuovo presidente della Bce, Weidmann dovrà fare gli interessi di tutti Paesi eurozona, il suo lavoro non sarebbe più incarnare la linea tedesca e questo lo sa bene», dice Mastrobuoni. «In ogni caso la politica di emergenza della Bce sta finendo, si torna alla normalità e la normalità è quello che piace ai tedeschi».

Francoforte è una città che ha un’idea ben precisa di se stessa e del suo posto in Europa. «Libri e banche», dicono i suoi abitanti, e quello che più stupisce – specie un interlocutore italiano, cresciuto con una concezione di cultura che deve essere separata dal denaro e, non sia mai, dalla produttività – quello che più stupisce è che tengono a mettere insieme le due cose, quasi a dire che non si capisce dove finisce una e inizia l’altra. È «l’unica città che ha due banche centrali» ed è la sede della fiera dell’editoria più importante d’Europa: insieme al salone automobilistico, racconta Passer, l’imprenditore, la Fiera del Libro è il grande evento più sentito. Un connubio, quello tra denaro e cultura, che ha origini antiche: Francoforte ha dato i natali a Goethe e alla dinastia Rothschild, il cui progenitore, Mayer Amschel, era anche coevo del grande scrittore.

Francoforte Germania

Francoforte ha dato i natali a Goethe e alla dinastia Rothschild (Christophe Coënon)

Come Amsterdam, l’altra città che agli albori dell’Età moderna diede vita all’editoria e alla finanza europee, anche Francoforte nasce come snodo mercantile, un porto fluviale convenientemente situato nel mezzo del continente. È da lì che tutto è nato. Ed è qualcosa che si respira ancora oggi, nelle dimore della buona borghesia, nel loro modo di porsi e di vestirsi e di parlare, in quell’estetica pasciuta e morigerata che trasuda Mitteleuropa senza però i fronzoli delle terre asburgiche: «C’è questo understatement che si riconosce subito, è quello che rende Francoforte così diversa da Monaco», osserva Deppert-Lippitz, la presidente di Freunde Frankfurts. Gente del fare che non disdegna il buon gusto e l’apertura al mondo, è l’etica dell’imprenditoria di provincia, e al tempo stesso il suo contrario: «Francoforte ha questo proiettarsi verso l’Europa che nasce dalla cultura dei commercianti, che già nell’Ottocento mandavano i figli a formarsi all’estero, nelle altre città mercantili, Milano, Lione e Manchester»

Da quando è nato il progetto di un’Europa unita, c’è sempre stata una divergenza di vedute sul da dove iniziare. Si parte dall’economia per arrivare alla politica, oppure il contrario? Si comincia dal mercato unico e dalla moneta comune, sperando che questo prima o poi faccia andare d’accordo nazioni che fino a mezzo secolo fa si massacravano, o invece si smantellano direttamente i confini politici? Inutile dire a quale scuola di pensiero appartenga la Germania. Se l’Europa è l’euro, allora Francoforte è la sua capitale. Di questo, la città è convinta. C’è chi dice, e forse non del tutto a torto, che è proprio questa idea dell’Europa, – l’Europa delle banche, l’Europa del rigore – ad averla messa in crisi: l’Unione è diventata, nel migliore dei casi, qualcosa a cui è difficile affezionarsi; nel peggiore, l’austerity. Un’unione fatta di banconote e di scartoffie, senza una storia da raccontare. Anche qui, però, i tedeschi vanno capiti: c’è lo spettro di Weimar, hanno già visto l’Europa distrutta dagli svarioni finanziari, e la lezione che ne hanno tratto è che la stabilità economica è la base per evitare che la storia si ripeta. Poi, chi l’ha detto che l’Europa delle banche è un’Europa senza storia, Francoforte alla sua storia di libri e banche è molto affezionata. Come tutti i luoghi più interessanti, è una città che, oltre a raccontare delle storie, pone delle questioni aperte. Che cos’è l’Europa, certo, e come salvarla. Sono due domande che ci riguardano tutti da vicino, ma che, viste da Francoforte, partono da un’altra, che tocca corde ancora più profonde: che cos’ha imparato l’Europa dal suo passato?

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