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Francesco Nuti, maestro interrotto

È stato prima il grande attore di una generazione, poi il grande dimenticato del cinema italiano: parlare di lui oggi significa imparare a raccontare un'epoca del nostro Paese e restituire ai suoi protagonisti una considerazione spesso negata.

di Arnaldo Greco

Per via dell’incredibile accelerazione della medicina degli ultimi anni ci troviamo di fronte a fenomeni che non sappiamo maneggiare, perché sono inediti e, presi dalla frenesia del presente, non sappiamo trattarli. Scriviamo oggi di Francesco Nuti per una convenzione, ma avremmo dovuto scriverne ieri o la settimana scorsa e chissà quante altre volte ancora negli ultimi anni. Scriviamo oggi di Francesco Nuti, morto a 68 anni, ma il suo ultimo film da regista risale al 2001, quando di anni ne aveva 46 e nonostante il fatto che, stando al parere di molti, i suoi migliori lavori fossero ancora precedenti. Avremmo dovuto trattare diversamente Nuti, oggi lo pensano in molti, ma come? Non lo sa nessuno. Qual è il modo giusto di relazionarsi con l’assenza di una persona che tuttavia è presente? Dovremo imparare.

La sfortuna ha voluto che, della famosa dialettica arbasiniana, abbiamo assistito solo a due fasi della carriera di Francesco Nuti, perdendoci purtroppo quella da “venerato maestro”. Peccato, anche perché la sua particolare condizione ha influito moltissimo sul fatto che i suoi film siano stati così trascurati. Chissà se con una costante riproposizione, come capitato ad altri autori, le cose sarebbero andate diversamente (io credo di sì). Ad aggiungere sfortuna alla sfortuna, la coincidenza della morte di Silvio Berlusconi ha monopolizzato i palinsesti e di ricordi di Nuti in tv al momento non si sa nulla. Solo Rai Movie ha previsto per il pomeriggio del 13 giugno Madonna che silenzio c’è stasera, troppo poco. Intanto Netflix non ha suoi film in catalogo, Amazon Prime ha solo Ad ovest di Paperino, in cui è attore ma non regista (più altri film a pagamento), mentre Raiplay non ha neppure un film, giusto il documentario I magnifici quattro della risata.

Pochi mesi fa, infatti, la Rai ha dedicato un documentario a Nuti, Benigni, Troisi e Verdone definendoli per l’appunto I magnifici quattro della risata. È un documentario ricco di belle interviste (mentre il materiale d’archivio è forse troppo noto), interessante anche perché permette di confrontare queste quattro traiettorie. Nati tutti tra il 1950 e il 1955, Troisi è stato l’unico a morire giovane, ma mentre gli altri due hanno proseguito una carriera che ha avuto fasi molto diverse, quella di Nuti è come se avesse una parabola molto precisa fatta di una lunga esplosione e di un grande successo, seguiti da una decadenza costante, fino a uno stato praticamente di oblio.

Ci sono almeno due aspetti che hanno condizionato questo declino e che non riguardano direttamente il piano artistico. Oggi siamo più pronti che in passato ad affrontare questioni legate all’alcolismo o alla depressione, ma questo rischia anche di farci dimenticare quanto fino a pochissimi anni fa, soprattutto in un Paese moralista come il nostro, problemi di questo tipo potessero ripercuotersi su una carriera e danneggiarla o precluderla del tutto, condannando anche grandi artisti alla solitudine e al dimenticatoio. Quello di Nuti da questo punto di vista, purtroppo, non sarebbe neanche un caso isolato. Allo stesso tempo, perché sempre di sensibilità che cambiano stiamo parlando, è stato facile accusare Nuti di un maschilismo che non sarebbe più al passo coi tempi – il biliardo, il fumo, l’alcol – e la furia con cui negli ultimi anni sono stati rimessi in discussione molte opere del nostro passato ha fatto sì che molti siano prevenuti verso certi prodotti accusati a priori di non avere più molto da dire nel presente. Ma non è affatto così per i film di Nuti. E certe impressioni sono legate più alle sensazioni che alla realtà. Perché, come Martone ha messo in risalto nel suo recente documentario su Troisi Laggiù qualcuno mi ama, i comici che hanno fatto il salto verso il cinema in quegli anni hanno saputo raccontare bene proprio la crisi della virilità e del gallismo, non la sua apoteosi.

Ma non sarebbe neanche giusto brandire adesso Nuti come una clava contro dei nemici immaginari (giacché qualcuno lo farà). Il punto è che, pur nel dispiacere, questa forse potrebbe l’essere l’occasione perché i suoi film tornino a essere trasmessi con maggiore costanza e a essere disponibili senza troppi patemi. Che smetta di essere il grande attore di una generazione, ma che proprio come Troisi o Verdone le sue cose vengano citate e conosciute anche dalle generazioni successive – Toccati, Caruso, toccati. O tu vai in Perù o tu sposti la Chiesa o tu vinci al totocalcio, le cose si presterebbero pure. Più ancora della sua scomparsa, oggi chi gli è affezionato si dispiace, infatti, proprio dell’indifferenza con cui i suoi migliori titoli sono trattati.