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Liberaci, o Signore, dal foodporn
È l'unico contenuto davvero onnipresente, quello che compare negli algoritmi di tutti, e ora, tra Facebook, Instagram e TikTok, la foodizzazione dei social (spesso con chiari rimandi sessuali) sembra aver raggiunto il suo picco.
Confesso: certe volte, in metropolitana o in treno, spio con discrezione il telefono degli altri passeggeri. Non leggo i messaggi delle chat, non leggo i nomi dei destinatari, lo giuro. Lo faccio per noia, certamente, e perché se esiste uno schermo acceso nel raggio d’azione dell’occhio umano quest’ultimo non potrà fare altro che appoggiarvicisi, inebetito, anche se la testa sta andando altrove. Lo faccio per ingannare il tempo ingannando me stessa: non tiro fuori il cellulare così mi guardo intorno –mi dico – sì però poi mi incanto su quello altrui.
In realtà dietro questa pratica poco corretta di spionaggio esiste anche un scopo più alto, che forse potrebbe essere utile addirittura all’intera umanità: scoprire gli algoritmi degli altri. Cosa comparirà sul Tiktok di questo ragazzino? E sull’Instagram di questa signora perbene? E di questo tipo in doppio petto che parla di follow up coll’auricolare e distratto sta su Facebook? E di questa coppia silenziosa che si tiene la mano e con l’altra scrolla? Su questi schermi accade di tutto. Qualche volta cose che non avevo mai visto, spesso cose che ho visto mille volte. Tipi che parlano sempre troppo animatamente, buongiornissimi, complotti sulla sostituzione di Mahmood, culi, modi per arricchirsi o per trasformare il proprio corpo dedicando soltanto mezz’ora del proprio tempo ogni giorno, meme che non fanno ridere, amiche e amici di nuova e vecchia data rigorosamente in vacanza da qualche parte.
Ma una cosa compare a tutti, indistintamente. Alla signora perbene, alla coppia, al tipo in doppio petto, al ragazzino, a me: compaiono persone che cucinano. Persone che mangiano cose in maniera sempre troppo vorace, piatti sempre troppo enormi, panini che colano grasso, fette di pizza da cui filano formaggi di ogni genere. Ininterrottamente il nostro feed, di qualsiasi social, proietta cibo, ricette e gente che ne parla. Un flusso continuo di calorie ingerite, ortaggi tritati con o senza suono asmr, pesci e pezzi di carne accarezzati come soltanto il più romantico degli innamorati potrebbe, fuochi che si accendono, vini che sfumano. Come se Antonella Clerici si barricasse nello studio 2000 e per 24 ore di seguito Rai1 parlasse di lardo di colonnata e pasta alla norma. È più o meno ciò che già accade, ma sicuramente con un senso della misura molto maggiore.
È certamente colpa nostra, colpa della nostra passione per il cibo, per il parlare di cibo sempre, ovunque, averlo reso discorso perfetto per l’ascensore e per le cene che durano serate intere. Del nostro scandalizzarci per le ricette italiane copiate male negli altri Paesi, del ritorno alle origini e della riscoperta delle tradizioni, del chilometro zero e della ritrovata passione per i grani antichi e per le cose buone di una volta che come le fanno le nonne nessuno più. È vero, sotto sotto vogliamo sapere l’ultimo ristorante da provare (per poi non andarci, perché ci basta vederlo o perché è pieno visto che ci vogliono andare tutti) seguiamo di nostra sponte account che ci consigliano luoghi dove si mangia il vero lampredotto, ci danno spunti su come cucinare il cavolo romano, preparare il tuorlo fritto, idee per una cena veloce quando rincasiamo alle otto dall’ufficio e per quel periodico lunedì in cui ci siamo convinti che questa volta vogliamo davvero diventare vegani, sì, ma con gusto.
Di base i foodlover sarebbero utili, se non fossero ovunque, tantissimi e ormai fuori controllo. Come con un certo tipo di comicità che andava di moda qualche anno fa, anche i foodie, i foodlover, blogger o come vogliamo chiamarli, quasi sempre hanno bisogno di essere riconoscibili. Lo sanno anche loro probabilmente di comparire in un flusso senza soluzione di continuità, spesso attraverso sponsorizzazioni o spinti dal suddetto algoritmo, per cui devono acchiappare subito l’attenzione del pigro scrollatore. E allora tutti cominciano a costruire i propri tormentoni. In principio fu l’”ho fatto in casa per voi” di Benedetta Rossi e il salare la carne di Salt Bae che è poi diventato un meme, il vero suggello del successo. Ecco allora la vocina sommessa di Carlotta di Cucina Botanica, la mollica o la non mollica di Donato De Caprio, l’Antico Vinaio di Tommaso Mazzanti che sui panini unti ci hanno costruito un impero, l’”ottimo” di Rafael Nistor e le chiusure sempre uguali di soddisfatte forchettate del cibo appena preparato di Jesse Jenkins e di TirMagno. Poi ci sono i veraci, quelli che parlano in romano perché, insomma, lo sappiamo tutti che è un dialetto simpatico oltre al fatto che moltissime delle ricette preparate sui social sono proprio le paste tipiche della cucina di romana. Ruben Biondi cucina sul balcone e alla fine grattugia un po’ di zest – mi raccomando, non chiamiamola buccia – di limone all’80 per cento dei suoi piatti. Chef Mariola, che al dialetto romano ci mette il carico da novanta del cucinare a petto nudo e grembiule (come Gianluca Conte e un sacco di altri più o meno giovani che più che cacio e pepe è evidente che fuori dalla ring light si nutrono di bibitoni di aminoacidi) e una serie infinita di allusioni sessuali. D’altra parte gola e sesso vanno sempre a braccetto, per cui è un attimo che inizi a preparare un branzino all’acquapazza e ti ritrovi sex symbol. Scrolliamo ancora e arriva la rasserenante voce paciosa di Giorgione Barchiesi, rubicondo personaggio in salopette che mangia con gli occhi tutto quello che cucina nella penombra dei suoi fornelli, anch’egli meme indiscusso (come sempre la storia si ripete la prima volta in tragedia e la seconda in farsa). C’è pane anche per quelli che i foodlover non li possono più soffrire, ovviamente, allora Franchino Er Criminale – foodlover anche lui ma in versione uomo di strada, autentico – sconfessa i miti degli altri (e tra l’altro ha appena sfornato un Tiktok che va a prendere in giro proprio loro, i foodlover). Siamo già praticamente sazi che fa capolino Guido Mori, pronto anche lui a criticare piatti e preparazioni di altri social chef, ma con spirito intellettuale e filologico delle ricette tradizionali. Dopo un reel di Cédric Grolét che prepara chili di mandorle pralinate, spegniamo sfiniti il cellulare dopo aver scorso il passamontagna di Chef Ruffi, italiano chef mascherato che vive negli Emirati e che nella carbonara ci mette, orgoglioso e sprezzante del pericolo, la panna. Dopotutto se ne deve parlare, ogni tanto bisogna sconfessare le ricette della nonna, un po’ perché allora non si può più dire niente e un po’ per risvegliare le view organiche, che come sappiamo languono per tutti, anche per i foodie.
In questa mensa collettiva e aperta 24/7 che sono i social forse servirebbe fare ordine, costruire una sorta di quadro semiotico dei foodlover, stilare dei test psicoattitudinali per capire quali sono i più adatti per il proprio concetto di cucina e il proprio modo di interpretare la vita, evitando perdite di tempo e disgraziati che preparano la pasta al pomodoro mettendo tutti gli ingredienti a crudo in una pirofila infilata poi nel forno e voilà, buon appetito. Forse sarebbe utile e anche questo spionaggio in metropolitana così avrebbe un suo senso, ma l’algoritmo ha ragioni che la ragione non conosce: fino a quando ci batteremo nella battaglia tra pancetta e guanciale avranno ancora vinto loro, i foodlover, e non riusciremo a levarceli di torno tanto facilmente.