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Perché è il momento giusto per pensare all’arte di Felix Gonzalez-Torres

I suoi lavori sono perfetti per questo momento storico.

di Clara Mazzoleni

Felix Gonzalez-Torres “Untitled”, 1991, Billboard © The Felix Gonzalez-Torres Foundation

Oltrepassato lo shock iniziale, e il conseguente slancio della nostra mente sconcertata verso immaginari catastrofici, fantascentifici e distopici, resta l’inquietudine per il futuro, la solitudine, il lutto, e un altro tipo di sgomento: ebbene sì, ci siamo abituati a questa nuova realtà. Sono bastati tre mesi: abbiamo smesso di stupirci. Siamo entrati in una nuova normalità. Se il nostro cervello fosse una cassettiera, potremmo dire che dopo la pandemia è comparso un cassetto in più, che però dentro è vuoto e silenzioso, oppure pieno di dubbi compressi e difficili da separare e definire. Il cassetto è lì, e forse è ancora chiuso, perché la voglia di non fermarsi a pensare è più forte e irresistibile che mai. È abbastanza comune svegliarsi ogni mattina con la sensazione di aver perso o dimenticato qualcosa. C’è chi ha davvero perso qualcuno, o forse qualcosa: il lavoro, la fiducia nei confronti di certi personaggi, l’autonomia. Chi si è ammalato ha conosciuto un nuovo modo di pensare alla malattia e al rischio di contagiare ed essere contagiato. Abbiamo scoperto cosa vuol dire essere connessi, abbiamo riflettuto sul significato dei nostri corpi e del peso della loro presenza nello spazio. Di tutte queste cose parlano le opere di Felix Gonzalez-Torres, artista cubano emigrato a New York e morto di AIDS nel 1996, a 39 anni.

Nato nel 1957 a Guáimaro, a Cuba, nel 1979 Gonzalez-Torres si trasferì a New York. Raggiunse il successo molto presto: dopo la prima mostra nel 1990 in quella che, insieme a David Zwirner, è ancora la sua galleria, seguirono mostre personali al MoMA e al Guggenheim di New York (rispettivamente 1992 e 1995) e un’importante retrospettiva alla Serpentine Gallery di Londra nel 2000. Influenzato dal minimalismo e dall’arte concettuale, Gonzalez-Torres si esprime attraverso l’ordine, la pulizia e il rigore formale. La leggerezza estetica dei suoi lavori contrasta con la pesantezza e la densità di ciò che intendono rappresentare, un conflitto che li rende ancora più potenti e dolorosi.

Le sue opere più famose sono quelle composte da mucchi o pile di oggetti (caramelle alla liquirizia, biscotti della fortuna, poster con scritte o fotografie). Spesso sistemati negli angoli delle sale, il visitatore ha la possibilità di prenderne quanti ne vuole e abbandonarli altrove, portarseli a casa, farne ciò che desidera. Si tratta di opere effimere e rituali (le caramelle sono commestibili, lo spettatore può mangiarle: è difficile non pensare all’eucarestia). Nella prima versione dell’opera, “Untitled (Portrait of Ross in L.A.)”, del 1991, il peso del mucchio di caramelle offerte al pubblico coincideva con il peso del corpo dell’amatissimo fidanzato Ross Laycock, scomparso proprio quell’anno, sempre a causa dell’AIDS. Non si tratta soltanto di un rituale tra l’artista e il suo pubblico, quindi, ma della rappresentazione del processo di erosione subito dal corpo della persona amata e, forse, della paura che lo stesso processo possa lentamente consumarne il ricordo. Mucchi di caramelle dolcissime ricoperte di carta colorata e luccicante per pensare alla morte, alla paura, alla solitudine, e all’epidemia di HIV/AIDS.

“Untitled (Portrait of Ross in L.A.), 1991” © The Felix Gonzalez-Torres Foundation

Dopo aver perso Ross, Gonzalez-Torres occupò un cartellone pubblicitario di New York con una grandissima foto del loro letto matrimoniale vuoto, con ancora i segni dei loro corpi impressi, “Untitled (Billboard of an Empty Bed)”. Prima della morte di Ross, aveva realizzato “Untitled (Perfect lovers)” (1987-1990). Due orologi da parete: il tempo segnato dalle lancette di entrambi, che inizialmente è identico e scorre allo stesso ritmo, a un certo punto iniziava a sfasarsi. All’inizio una differenza di pochi secondi, che diventavano minuti e poi ore. In  “Untitled (Loverboy)” del 1989, due tende identiche su due finestre identiche venivano mosse dal vento (e quindi i loro movimenti non erano uguali). “Untitled (Blood)” (1992) rappresentava metaforicamente il sangue nel titolo: una cortina di perline di plastica tesa dentro una stanza o su una soglia, con le sfere bianche e rosse che evocavano i diversi tipi di globuli. Ma le cortine di perline possono essere di molti altri colori e avere altri significati, come dimostrava la mostra del 2016 nella galleria Massimo De Carlo.

Un altro motivo per cui ha senso ripensare adesso queste opere è il loro modo di coinvolgere direttamente lo spettatore. Per comprenderle è indispensabile la sua partecipazione fisica: il visitatore viene invitato ad attraversare letteralmente la cortina di perline (e a giocarci, se vuole), a prendere le caramelle e mangiarle, ad aprire un biscottino della fortuna e leggere il messaggio, a prendere un poster e portarselo a casa, a vedere il cartellone con il letto vuoto mentre cammina per Manhattan e chiedersi di cosa si tratta. Riti di condivisione ed empatia che acquistano ancora più potenza, oggi, dopo la pandemia, durante le proteste per la morte di George Floyd e nel mese del pride. Proprio in questo periodo le due gallerie dell’artista, Andrea Rosen e David Zwirner, hanno organizzato un gesto per ricordare il lavoro di Gonzalez-Torres: dal 25 maggio e fino al 5 luglio una delle sue opere verrà ricreata in tutto il mondo. Si tratta di “Untitled (Fortune Cookie Corner), 1990” ed è un’opera sul destino che centinaia di partecipanti stanno riproducendo (qui). Originariamente consisteva in un mucchio di biscottini della fortuna (più o meno 10mila) che venivano illimitatamente “ricaricati” per far sì che gli spettatori potessero prendere tutti i biscotti che desideravano. Nella nuova versione “diffusa”, frammentata e distanziata dell’opera, basta depositare un mucchietto di biscotti in un luogo prescelto e fargli una foto.