Cultura | Cinema

Nessuno vorrebbe essere Elvis

Il cantante che ha cambiato per sempre il volto della cultura popolare americana e il manager che lo ha trasformato prima in divo, poi in icona, infine in reliquia: storia di Elvis e del colonnello Tom Parker, in attesa di vedere il biopic di Baz Luhrmann.

di Giuliano Malatesta

Il motto coniato da George Klein, amico di lunga data del cantante, si può leggere in uno dei tanti cartelloni che costeggiano lo squallido Elvis Presley Boulevard, la strada che ogni anno conduce centinaia di migliaia di fan in pellegrinaggio a Graceland, la mecca santa del rock’n’roll, il luogo più visitato di tutta gli Stati Uniti dopo la Casa Bianca: «Se non sei un fan di Elvis nessuna spiegazione è possibile». Per alcuni un inutile trionfo del kitsch come non si era mai visto prima, per altri il tempio laico più importante del Ventesimo secolo. Per provare a comprendere la popolarità del ragazzo di Tupelo, colui che rivoluzionò il mondo musicale al punto da cambiare in maniera permanente «il volto della cultura popolare americana», per usare con le parole dell’ex presidente Jimmy Carter, bisognerebbe andare a Graceland d’estate, più precisamente quando va in scena l’Elvis week, una settimana di festeggiamenti che celebrano la vita e la carriera di Presley e che culminano con la veglia commemorativa. Immaginatevi migliaia di persone spiritate in fila davanti ai cancelli di un ex casa coloniale di 28 stanze, esattamente come a un concerto rock, tutti in attesa del via libera per poter correre verso la lapide del re del rock’n’roll, un moderno Muro del pianto dove omaggiare e piangere il proprio eroe. Alcuni portano dei fiori, altri tengono in mano candele accese, altri ancora solo strazianti lettere d’amore.

D’altronde la lista degli iscritti al club è piuttosto lunga. Una sera del 1976, in piena tournée Born to Run, un giovane Bruce Springsteen si fece portare a Graceland con un taxi. Arrivato a destinazione intorno alla tre di notte, intravide una luce che filtrava da una finestra e decise di lanciarsi nel famoso “salto del muro”, un attimo prima di venir scaraventato fuori in maniera non proprio amichevole dagli uomini della security. «It wasn’t a good night», confessò in seguito l’autore di Thunder Road, che durante un concerto aggiunse: «Mi sono spesso domandato cosa avrei detto se, una volta bussato alla porta, Elvis mi avesse aperto. Perché forse non era Elvis che volevo vedere, ma era come se una voce me lo avesse sussurrato all’orecchio, come un sogno che tutti sogniamo. Forse è questo il motivo per cui siamo qui, stasera».

Il sogno di Springsteen a Graceland si è trasformato in un business planetario, che vale circa 35 milioni di dollari l’anno. Neanche Priscilla Presley, ideatrice di tutto questo, avrebbe osato immaginare tanto. Ma è osservando le locandine di quei film noiosi e dal copione sempre identico, funzionali ad alimentare e tenere in piedi il mito – ogni film di Elvis doveva includere almeno quattro sue canzoni – che non può non venire alla mente il principale artefice di tutto questo, passato alla storia con il soprannome di the colonel, il colonnello. Un rapporto controverso e conflittuale, quello tra il cantante e il suo manager, il famigerato Tom Parker, che il regista australiano Baz Luhrmann ha utilizzato come chiave interpretativa per girare ELVIS, il film che sarà presentato a Cannes fuori concorso il 25 maggio (la cover di If I can dream dei Måneskin fa parte della colonna sonora).

«Per tutti i vent’anni in cui è sopravvissuto alla sua più grande scoperta, ha dovuto anche convivere con le accuse di averlo distrutto, soffocando la sua arte e la sua ambizione e uccidendo la sua voglia di vivere», ha scritto la giornalista Alanna Nash nel libro The Colonel: The Extraordinary Story of Colonel Tom Parker and Elvis Presley. «Che lo si consideri un uomo malvagio o un grande stratega, nessuna figura in tutto il mondo dello spettacolo è più controversa, pittoresca o larger than life di Tom Parker».

Diceva di essere nato ad Huntington in West Virginia, cercava di riprodurne persino l’accento, un po’ gutturale, ma in realtà si chiamava Andreas Cornelis, era nato a Breda, in Olanda, ed era lì, nelle fiere e nei circhi locali, che aveva imparato l’arte della truffa. Secondo l’Fbi aveva ucciso un uomo a pugnalate in un luna park e per questo era stato costretto a emigrare, ma la sua prima vita rimase sempre un segreto custodito gelosamente, al punto che sono oramai in molti a sostenere che siano stati i misteri della sua vita precedente ad aver impedito a Elvis di organizzare l’agognata tournée europea.

Tom Parker era una via di mezzo tra un imbonitore e un illusionista, rozzo, non particolarmente brillante ma abilissimo nel cogliere in anticipo i cambiamenti in corso e fenomenale nel trasformare una piccola star regionale che scaldava gli animi, e non solo, delle ragazze del sud, in uno straordinario fenomeno planetario. Naturalmente con un cinismo che poteva non avere limiti. Quando un giornalista inglese gli chiese se era vero che era stato così finanziariamente scaltro da riuscire ad accaparrarsi il 50 per cento di ogni guadagno del suo assistito, rispose seccato: «Non è assolutamente vero. È lui che prende il 50% dei miei». Però è innegabile che Parker rivoluzionò le regole dell’industria dell’intrattenimento. Comprese prima di altri che un film per Elvis rappresentava solo un potentissimo strumento promozionale per vendere gadget più remunerativi, come un cappellino da baseball con il suo nome inciso sopra. E per pubblicizzare le sue canzoni, che dovevano sempre rispettare un severo codice di scrittura: parole facili e accessibili a tutti, un punto di vista raccontato in prima persona e un happy ending simile a quello dei libri per bambini.

Come ha scritto il raffinato critico musicale e professore alla Columbia David Hajdu, anche «Brian Epstein prese una band di rocker della classe operaia, li impacchettò con frangetta e abiti edoardiani e li commercializzò, creando la Beatlemania». Ma a differenza dei Fab Four Elvis «non riuscì mai a controbilanciare con la propria personalità e la sua arte la crescente banalità di tutto il suo marketing».

Il tour di Graceland – per la verità ce ne sono diversi, a seconda del grado di morbosità desiderato – segue i ritmi di una sceneggiatura hollywoodiana, con un’impennata di drammaticità che raggiunge il culmine nella parte finale, con la visita alla lapide di Elvis. «Non ho pianto al suo funerale – ha detto una volta Thomas Parker – e non mi manca. È inutile perdere tempo pensando a chi non c’è più». In compenso il business plan messo in piedi dal colonnello sembra ancora funzionare. E quello che una volta veniva venduto a ogni concerto come un souvenir oggi ha le sembianze di una preziosa reliquia da acquistare prima dell’uscita. Solo in seguito ci si sente liberi di lasciare Graceland.