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L’equivoco di Elly Schlein su Vogue Italia
L’intervista alla segretaria del Partito Democratico – e le reazioni che ha provocato – dimostrano, ancora una volta, come il nostro dibattito pubblico sia drammaticamente fuori fuoco.
Qualche anno fa, su Vogue Us comparve un’intervista a Matteo Renzi, non saprei dire se qualcuno se lo ricorda, ma è una cosa che è successa. Era il 2016, da lì in poi Renzi avrebbe perso tutto quello che poteva perdere, ma il profilo scritto da Jason Horowitz, corrispondente da Roma per il New York Times eccezionalmente prestato al magazine diretto da Anna Wintour, rimane nondimeno un tentativo di internazionalizzazione della politica italiana piuttosto curioso, un modo di costruire un nuovo racconto delle nostre beghe interne su modello dei democratici americani, quelli di Barack Obama e le prime elezioni social della storia, che nel 2016 cominciava a mostrare già tutte le sue crepe. Per trovare quell’intervista ho dovuto usare la funzione “search” sul sito di Vogue Us e scrollare fino al 2016, superando articoli di tendenze e alberghi a cinque stelle lusso nella campagna toscana, fino a che non l’ho trovato. All’articolo è stato aggiunto un cappello che specificava come alla fine Renzi l’Italia non l’avesse cambiata, visto che aveva perso il referendum su cui aveva scommesso tutto, e ho dovuto cercarlo così perché su Google uscivano solo articoli italiani che parlavano della vicenda ma nessuno di loro si era preoccupato di mettere il link diretto alla fonte originale. Un dettaglio, che però la dice lunga sull’introversione di questo Paese, abituato a parlarsi addosso e a concepirsi solo in funzione degli stereotipi altrui: open to meraviglia, per dirne una.
L’intervista di Vogue Italia a Elly Schlein, invece, l’ho trovata abbastanza in fretta, soprattutto perché un dettaglio sembra aver sovrastato qualsiasi altra informazione contenuta nell’articolo, anticipato sul sito, del numero di maggio con in copertina Bella Hadid. E quel dettaglio era l’armocromia, una di quelle cose che, insieme alle friulane indossate al di fuori del loro luogo d’elezione, e cioè la casa (trattasi infatti di ciabatte, nda), personalmente ritengo uno dei più grandi imbrogli, per non dire cazzate, degli ultimi anni. La prima volta che ho intercettato Elly Schlein, invece, è stato quando si batteva per la riforma del trattato di Dublino e ricordo di aver provato un grande stupore, e sollievo, nel sentire una politica italiana trattare il tema delle migrazioni con competenza e precisione: in quel periodo usavo ancora Facebook e da allora l’ho sempre seguita (non su Facebook). Su Rivista Studio l’abbiamo intervistata nel 2020 e anche allora si era posto il problema delle foto: ci sono stati forniti dei ritratti ufficiali, piuttosto amatoriali, che abbiamo dovuto far funzionare nell’equilibrio del giornale, ma ci è rimasto il cruccio di non essere riusciti a fotografarla “come si deve” in quell’occasione. Vogue Italia invece l’ha fatto e fa ridere, ma anche un po’ cadere le braccia, che il Corriere della Sera ritenga lo styling inutile, così come il sitting editor (che non si occupa solo dei vestiti ma dell’organizzazione del servizio nella sua interezza) e l’“hair & make-up” qualcosa di cui farsi beffe. La scelta di raccontarsi a Vogue, così come quella di evitare le arene politiche della tv italiana e andare invece da Alessandro Cattelan, è appunto una scelta, un altro tentativo di intercettare una fetta di popolazione che i talk show, si immagina, non li guarda. Una scelta legittima, comprensibile, se non fosse per l’armocromia.
Nell’intervista, Schlein cerca di bilanciare i suoi temi politici con una piccola dose di informazioni su di sé, i suoi gusti, la sua routine: ne viene fuori per quella che è, una politica e una donna intelligente, ma anche abbastanza ingessata in un’operazione simpatia che non sembra calzarle del tutto. “Intercettare” è una parola meschina, in fondo, perché implica una sorta di spionaggio delle informazioni che invece tanto legittimo non sarebbe, eppure ben descrive oggi il modo in cui ci si muove sui social alla ricerca del consenso. Per quanto l’armocromia mi faccia schifo, continua a venirmi fuori in tutte le sue varianti su tutte le piattaforme su cui “consumo” contenuti – dai tutorial TikTok alle Youtuber che si fanno personalizzare il fondotinta dopo l’analisi dei colori del viso – e capisco che a un sacco di persone interessa, perché potrebbe dare una risposta concreta a un problema pratico. E cioè quello di vestirsi, truccarsi e presentarsi al mondo ogni giorno, una cosa che alla fine ci riguarda tutti. Il ragionamento che sta dietro a questa bizzarra accozzaglia di teorie è seducente perché promette di annullare una scocciatura quotidiana: individuo i colori che mi donano e indosso solo quelli. Capisco anche perché a Schlein sia stata consigliato di accantonare l’eskimo e di optare per il trench e, più in generale, di superare la fase “non mi interessa quello che metto”: sono tutti consigli giusti. Ma Schlein dovrebbe anche abbandonare le mezze misure, per funzionare davvero. A pensarci bene, forse avrei preferito leggere una sua difesa spassionata dell’armocromia se non, meglio ancora, un rifiuto radicale dello stesso concetto di “donante” e “abbinamento” – a proposito di sovversione dello stile – e magari un elogio della divisa (non quella militare, ma quella fatta di indumenti che non seguono i trend): cosa ci sarebbe stato di più di sinistra? Come Giorgia Meloni e Il Signore degli anelli, anche lei deve trovare la sua nicchia di internet, il pubblico disposto ad ascoltarla che sì, e non ce ne voglia il Corriere, può muoversi anche tra tutorial make-up e articoli sull’ansia climatica, perché oggi tutto succede in contemporanea sulle nostre timeline. E per essere pop bisogna buttarsi là in mezzo.