Il libro, uscito 20 anni fa in Francia ma solo adesso in Italia, è il racconto in immagini e parole della breve storia d'amore con il fotografo Marc Marie, attraverso il quale Ernaux tocca tutti i temi che caratterizzano la sua letteratura.
C’è una domanda che ogni museo si ripete da anni, quasi sottovoce: come si fa a parlare alle nuove generazioni senza sembrare un genitore boomer? Come si accompagna un’utenza di giovani che sfuggono a ogni tentativo di inquadramento, che vivono in un ecosistema visivo iperstimolato, e a cui l’istituzione appare superata? Un museo pubblico, con la sua architettura solida, le sue collezioni storiche, i suoi ritmi lenti, si trova a convivere con sguardi che evolvono più in fretta di quanto le sue pareti possano assorbire. Il rischio è sempre lo stesso, non solo restare indietro, ma soprattutto lasciare indietro. Artisti emergenti che gravitano ai margini, nuovi visitatori che entrano, si guardano intorno, non si riconoscono in ciò che vedono e se ne vanno.
La questione, oggi, non è solo come esporre l’arte emergente, né come “educare al contemporaneo” un pubblico affezionato alla sicurezza del già noto. La vera domanda è come costruire uno spazio in cui un linguaggio ancora in formazione possa attecchire senza essere sterilizzato, in cui l’irruzione di un’estetica non istituzionale non venga digerita e neutralizzata, ma possa davvero mettere in crisi, anche solo per un attimo, i codici della casa che la ospita.
Trova l’intruso
Alla GAM di Torino, questo interrogativo ha preso forma in un gesto semplice: invitare un “intruso”. Non un nome consolidato, non una figura accomodante, ma qualcuno capace di produrre uno stridio. Qualcuno che sporca — metaforicamente e non — gli interni troppo perfetti, che parla una lingua che il pubblico abituale non capisce, che non arriva per decorare, ma per destabilizzare. In questa terza risonanza del progetto, dedicata ai temi dell’incanto, del sogno e dell’inquietudine, la figura dell’Intruso non poteva che incarnarsi in Davide Sgambaro e la sua pratica, in bilico tra familiarità e disturbo, come marcatore di dissonanze. L’artista lavora con la materia grezza della strada, delle subculture, della cultura popolare che ha segnato la sua generazione: felpe, sneakers, piercing, estetiche mediali. Pezzi che normalmente non trovano posto in un museo, e per questo scelti con cura per un’infiltrazione, una micro-infezione lasciata serpeggiare tra le fibre del museo.
Eppure, la sua intrusione non ha niente di spettacolare. È una stonatura calma, uno slittamento quasi impercettibile che ti arriva addosso in ritardo, come un presentimento. Gli elementi familiari con cui lavora Sgambaro, vengono rigenerati in modo da vibrare di un’inquietudine sottile. La sua vera scelta però, non è tanto cosa porta, ma dove viene posizionato. Non nelle sale principali, troppo chiassose di significati prestabiliti, ma negli spazi che collegano, negli interstizi che nessuno guarda davvero. Quelle zone sospese tra una mostra e l’altra, dove il visitatore non è né dentro né fuori, e la mente vaga in automatico. È lì che l’intruso colpisce. Il pubblico della GAM è abituato a un ritmo, a un ordine, a un certo linguaggio. E Sgambaro punta proprio su quella fiducia, la sfrutta e la incrina, offrendo opere che non si riconoscono subito, che obbligano a rallentare, a guardare meglio, a mettere in discussione l’abitudine del passare “in automatico”. Non è arte che si impone ma un artifizio che ti chiede un gesto minimo di attenzione.
Sputi d’artista, calci al muro e felpe tremanti
Il primo contatto con l’artista avviene già all’ingresso. Con “No more blue tomorrows (Spit)”, 2023, performance posizionata sopra la pensilina del museo, dove l’artista colloca uno sputo d’argento: un piercing da lingua con una piccola estensione, lucente, accecante nella sua posata irriverenza. Non un simbolo, ma un gesto, un soffio di insolenza trasformato in gioiello, una formalità ribaltata. L’artista decide di scardinare i convenevoli tipici dell’accoglienza istituzionale fredda e cordiale, favorendo un’altra estetica del benvenuto ambigua, straniante. Uno sputo che non offende, ma disorienta; che non si impone, ma disturba. È un invito a entrare sapendo che qualcosa dentro non funzionerà come previsto. Un trailer emotivo che ti sposta di un millimetro, abbastanza da farti capire che la neutralità del museo è solo apparente. Sgambaro non cerca lo scandalo, ma una forma di conflitto a bassa intensità, un fastidio gentile che mette il visitatore in una posizione scomoda, quasi costretto a chiedersi se ciò che sta guardando gli appartiene oppure no.
Lo sputo introduce una postura, e il percorso si chiarisce quando ci si addentra nelle sale. In una stanza concepita storicamente per offrire riposo dalla museum fatigue — poltrone morbide, un tappeto caldo, eleganza da metà Novecento — Sgambaro sceglie di aprire una crepa. Letteralmente. Con “Tonight (alive and kicking)”, 2025, fa rimuovere il battiscopa, uno degli elementi più silenziosamente borghesi e familiari di un ambiente, che sotto rivelano strati di tinte e vite precedenti, una genealogia di colori sedimentati, che il museo teneva custodita, nascosta. È qui che interviene, con una danza notturna, ballata in solitudine, lascia un tracciato di minuscole stelline stampate sul muro grazie alla punta delle sue sneakers Air Force I. Un gesto fragile, privato, non documentato. Una costellazione che corre lungo tutto il perimetro della stanza, invisibile finché non ti chini. Un desiderio che si manifesta per sottrazione, come un respiro trattenuto.
Del resto, desiderare — ce lo ricorda l’etimologia — nasce dalla mancanza di una stella. E Sgambaro costruisce proprio un archivio di desideri mancati, tracce residue, gesti interrotti, segnali deboli che parlano di una generazione iperstimolata e insieme disorientata, gente che brucia veloce ma senza punti cardinali, uno “sciame meteorico” caduto a terra. C’è, nei suoi interventi, una grammatica del gesto che rifugge la spettacolarità eroica e punta verso qualcosa di più quotidiano, più vulnerabile: quel bisogno ostinato di ritagliarsi un angolo di mondo dove poter essere fragili senza essere osservati, dove poter stare soli con la propria rabbia sorda, la delusione per i sogni laccati che ci sono stati venduti, che promettevano salvezza e invece ci hanno lasciati a metà strada. E ogni tanto la risposta più onesta è un calcio svogliato al muro, residuo di una frustrazione che nessuna retorica meritocratica può davvero contenere.

Foto di Gianluca Minuto
Anche le felpe tremanti, “Goosebumps (dark times)”, 2025 — le più “visibili” delle sue intrusioni — funzionano così: minuscole vibrazioni, come un brivido involontario, quasi-orgasmo interrotto, un corpo assente che però insiste nel far percepire la sua presenza. È un tentativo di reazione che non arriva mai fino in fondo, il segno di un impulso emotivo soffocato, trattenuto, che resta impigliato nello spazio tra ciò che vorresti dire e ciò che sai non verrà capito. La GAM, del resto, ospita un pubblico abituato a un altro tipo di narrazione, un’altra grammatica visiva. Quella di Sgambaro è una lingua che non tutti parlano, e che le istituzioni non sempre riconoscono.
Eppure è una lingua vera: fatta di oggetti “banali”, di estetiche ipermediate, di micro-icone pop che portano con sé più sincerità di quanto l’ironia dominante sia abituata a concedere. È un linguaggio che sfida la prevedibilità e la scontatezza del visibile, che contamina il museo dall’interno senza mai fare casino. Perché un intruso non strilla, sussurra, ed è proprio in quel sussurro che si infiltra.
Alla fine, il progetto di Davide Sgambaro alla GAM (fino al 1 marzo) funziona come un promemoria affettivo, un invito a guardare meglio le soglie, i passaggi, i bivi non dichiarati. È un piccolo sabotaggio della borghesia museale, una richiesta di attenzione che nasce dal basso, dai calci, dalle felpe, dagli sputi, e che ci ricorda che anche nei luoghi più rigidi esiste ancora la possibilità di un inciampo, di un desiderio imprevisto, di una malinconia che trova finalmente un posto dove appoggiarsi. Una costellazione minima che ti obbliga a cambiare rotta. E che, una volta intravista, può far sembrare un museo appena un po’ diverso.
Foto in evidenza: Studio Gonella
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