Cultura | Letteratura

Verso lo Strega: Daniela Ranieri

Conversazione con l’autrice di Stradario aggiornato di tutti i miei baci, seconda intervista della nostra serie dedicata ai candidati al Premio Strega 2022.

di Laura Fontana

Daniela Ranieri ha la bellezza e la personalità di un felino, è schiva ma non le manda a dire. Sui social condivide poco di lei e della sua vita privata: le poche foto che la ritraggono sono di profilo e un po’ sfocate. Le note biografiche sono scarne: studi di Antropologia culturale, un dottorato in Teoria e ricerca sociale, quattro libri all’attivo. L’ultimo, Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie) è nella dozzina del Premio Strega, proposto da Loredana Lipperini che lo ha definito «coltissimo e ambizioso, di levatura letteraria». In effetti, il libro è un esercizio di ginnastica artistica alla trave da medaglia d’oro alle Olimpiadi, di quelli che meritano punteggi altissimi sia per la parte tecnica che per quella artistica. Non è un romanzo e non sono racconti, non è un memoir e neanche autofiction; lo stile è unico (cinque due punti di fila si vedono raramente) e la lingua ricchissima e bizantina (ogni tanto bisogna tirar fuori il Nuovo Zingarelli). Nello Stradario, la gente è adulta, le generazioni non sembrano sottoculture, il trauma è reale (la morte del padre), tutto ha una vivida concretezza tanto da poterne sentire l’odore mentre si legge. Il libro è, per dirla come una pagina Facebook per femmine alpha, una raccolta di casi umani. La voce narrante racconta con l’approccio scientifico di un entomologo le sue relazioni amorose, gli uomini che ha frequentato. C’è il dottore, lo scrittore, l’appassionato di moto, il tirchio «incapace di offrire una cena senza rinfacciarla». La protagonista e voce narrante, che ha dei punti in comune con l’autrice (tipo l’ansia), racconta tra il patetico e il sarcastico il tradimento, l’ossessione amorosa, il desiderio non corrisposto o non appagato, il flirt, l’amore puro. Per chi la conosce per i suoi corsivi caustici sul Fatto Quotidiano riconoscerà anche la lotta di classe, il disprezzo per la borghesia intellettuale.

Il libro è estremamente originale nello stile e nelle influenze. Ecco finalmente un’autrice che non si ispira al mondo letterario anglosassone ma a quello italiano ed europeo. Federigo Tozzi, Ignazio Silone, oltre che Gadda e Manganelli. E poi Nietzsche, Kafka, Flaubert, Thomas Bernhard e Milan Kundera: quando hai iniziato a leggerli? Chi ti ha introdotto a questi autori?
Ho iniziato a leggerli intorno ai 20-25 anni. Durante e dopo l’università. E loro sono rimasti con me, mentre le materie studiate non tanto. In questo posso dire di essere totalmente autodidatta. Thomas Bernhard mi consola, nella sua disperazione radicale. Kafka è un angelo passato sulla terra, da venerare e onorare sempre. Gadda l’ho scoperto più tardi ed è stato uno degli eventi più felici della mia vita. Non so come si possa leggere La cognizione del dolore senza piangere di gratitudine e stupore.

Il libro è un lungo elenco di uomini che sono anche dei “casi umani”. Li accomuna una cosa, nessuno di loro sembra accorgersi della propria ridicolaggine. Dipende dalla vanità maschile o siamo noi donne a volerli vedere così, quasi come riscatto a certe leggi della natura?
La galleria di tipi maschili non è “attuale”. Ho voluto mettere in forma romanzata alcuni motivi antichissimi. Il motivo della vanità maschile deriva dal Mito: Giasone indossa pelli di pantera, è un uomo senza qualità, senza profondità. Il Teseo di Ovidio è un seduttore. Arianna abbandonata da lui è una vittima della sua vanità e della sua scaltrezza. Medea tradita che uccide i figli per gelosia è vittima delle parole vuote dell’ambizioso Giasone. Sono prototipi della coglioneria maschile. Promettono, sono magniloquenti, si prendono sul serio. Difetti che sono stati tramandati bene nei millenni dai loro portatori. Per fortuna non tutti gli uomini sono vanesi e cialtroni.

Nel libro, a parte la protagonista e voce narrante, non ci sono altre donne. Al massimo compaiono in forma monodimensionale, tipo ritratte in fotografie, oppure sono ectoplasmi di mogli cornificate e lamentose, di amanti-accolli e delle solite madri ingombranti, che spariscono molto velocemente dal paesaggio. Come mai?
È una domanda insidiosa. Confesso che non ho badato alle quote rosa nella scelta dei personaggi. L’io-narrante è esorbitante e “assorbe” tutte le donne, recita tutte le parti in commedia. Però nel romanzo precedente, Mille esempi di cani smarriti, ce ne sono molte: spero faccia media.

Secondo te, cos’è successo col movimento Me Too? Si è rotto una specie di patto tra uomini e donne?
Non ho un’opinione precisa. Mi pare che il Me Too (che è un fenomeno “importato”, e io ne parlo solo da osservatrice lontana) abbia avuto, come molti fenomeni anche mediatici attuali, due facce: la denuncia della sopraffazione maschile e della zona grigia in cui il potere si avvale della manipolazione e del ricatto, e un puritanesimo sfiancante, bacchettone, asfittico, sessuofobico, che ha finito per depotenziare lo stesso movimento. Marx nel Capitale dice che la condizione delle donne è come quella dei lavoratori: una spietata degradazione. Sono vittime della tirannia organizzata degli uomini, e c’è solo un metodo per rovesciare le cose: la forza. Il Me Too ci ha reso più forti, impedendo a Kevin Spacey di lavorare e accusando Woody Allen di essere un predatore sessuale e pedofilo? Non mi pare. Sarebbe meglio allenarsi a menare.

Il nostro è un tempo violento, adulterato, peggiorato, falso e nello Stradario questo viene ribadito più volte. L’umanità ha rovinato tutto, ci siamo allontanati dalla vera natura delle cose. Qual è la nostra colpa, cos’è che abbiamo fatto o non abbiamo fatto, quale maledizione divina stiamo scontando?
Per me la più imperdonabile delle nostre rotture con la natura, l’apice della nostra barbarie, è il male che facciamo agli animali. Finché ci saranno allevamenti intensivi noi siamo esseri abietti.

Foto di Fabrizio Intonti

È la stessa malattia che ha reso difficile quello che una volta era naturale, cioè l’accoppiarsi tra uomo e donna
Anche qui, non scadrei nell’opinionismo sociologista. Ci sono studi che parlano del calo di testosterone e del numero di spermatozoi. Non si sa se è un declino “naturale” o indotto dal nostro comportamento (da ciò che mangiamo, dal ritiro nel “virtuale”, dalle abitudini che trasmettiamo ai figli, eccetera) e diventato naturale per selezione. Ci sono cose invisibili che sfuggono alla nostra comprensione.

“Uomo etero bianco cis”, lo schwa, il genere non binario: perché sono temi che hanno così tanto successo oggi su Internet e sui social media?
Non lo so, non riesco a condividere l’interesse per questi temi. Sullo schwa e sull’asterisco, credo che la loro introduzione spezzerebbe il legame tra lingua scritta e parlata che si è creato nel corso dei secoli nell’italiano. Se non esiste il fonema corrispondente, non posso pronunciarlo, e se anche lo pronunciassi con un verso, non sarebbe possibile declinare tutto per includere tutti i generi. Si creerebbe un continuo singulto che interrompe la fluidità della lingua. Ho ricevuto una mail: “Car* autore/autrice, sei il/la benvenut*. Pensa tutto un romanzo così! Ciò è incompatibile con una lettura che sia coinvolgente, per me, e del tutto incompatibile con la scrittura. È una forma di burocrazia che limita e censura il pensiero all’origine. Capisco la buona intenzione politica, ma prevale la grammatica. La sovranità della lingua. E sulle questioni della lingua, in genere, mi fido più di Luca Serianni che di quello che dice “il web”.

Perché a Roma sono tutti così ossessionati dall’essere in centro in una città che non ha neanche un centro? Roma è recuperabile o ormai tutto è perduto per sempre? Insomma: che ruolo ha avuto Roma nella tua vita e nella tua scrittura?
Roma è un regno dei morti privo di senso del sacro. Nel mio romanzo le pietre dell’urbs senza civitas sono accozzate su un giacimento di morti e di storia esaurita, specie nel cosiddetto “centro storico”. È stata trasformata in meta (non dico location per igiene) turistica. La periferia è uno spurgo di miasmi mentali. Siamo rosi dalla rassegnazione, dalla fatiscenza degli edifici, dalla sopraffazione dei burocrati, a loro volta sopraffatti dai loro superiori (come nei romanzi di Kafka). Siamo invasi dal rumore molesto. Quando vado in Sicilia, la prima cosa che sento è una differenza uditiva: come mi avessero estratto un rumore incastrato dalle orecchie. Roma è uno scenario perfetto per esercitare la nevrosi letteraria.

Aver partecipato a quell’esperimento sociale che è stato Friendfeed cosa ti ha insegnato sui social media (a parte che “nessuno lascia più parlare nessuno”)?
Tutti i social network sono tossici. Generano distacco dalla realtà, senso di onnipotenza, dipendenza, egocentrismo, depressione. Esacerbano il narcisismo. Lo vediamo quando gli eventi della realtà esigono lucidità, e noi abbiamo solo polemiche miserrime e violenza verbale da gettarci addosso. Non riusciamo a decifrare la Storia mentre accade, se abbiamo sempre opinioni. La droga del rinforzo positivo ci ha obnubilato. Qualunque cosa tu scriva sui social, che sia una citazione dell’Etica di Aristotele o “Totti è un grande campione”, avrai sempre il 50% di applausi e il 50% di fischi. Ci sarà chi ti dice che citare Aristotele è anacronistico, o radical-chic, e chi ti dice che è Del Piero il più grande campione. Non rileva, come si dice in linguaggio giuridico. A volte, a seconda di come tira il vento, puoi avere il 90% di dissenso, anche violento. Così sono spianate tutte le posizioni e le identità eccentriche. Ciò è desolante, specie quando accade agli adolescenti.

Sei anche nota per i tuoi corsivi sul Fatto Quotidiano: secondo te perché la sinistra ha sostituito la lotta di classe con le battaglie identitarie?
Per inettitudine. Perché i suoi dirigenti hanno privilegiato la comunicazione sulla politica. Pensavano che avrebbero preso più voti scimmiottando Tony Blair e accodandosi al neoliberismo. Invece li hanno persi. Abbandonando l’elettorato storico della sinistra, gli ultimi, i derelitti, gli oppressi.

Hai una grande passione per i profumi e nel libro giocano un ruolo importante: da dove viene? Per te i profumi sono come le sigarette per Italo Svevo?
Mi interessa la loro natura duale, il loro essere insieme comunicazione non verbale, naturale, e opere d’arte. In generale, cerco un approccio alla natura e alla realtà pre-verbale, immediato, non mediato. Il profumo suscita legami inediti tra le cose e i nostri sensi. In ciò è molto vicino alla poesia. Non voglio smettere, anzi: più si affina la propria sensibilità olfattiva, più mondi poetici si riesce a evocare e a mettere a fuoco.

Ultima domanda. Nel libro c’è quel romanziere che chiede alla protagonista: «Perché non mi hanno dato lo Strega?». E lei risponde: «I premi letterari li danno solo a chi ritengono inferiore, bravino, ma inferiore». Mi viene solo da aggiungere: e mo’?
E mo’ che? Mica l’ho vinto.