Stili di vita | Consumi
Gli snob salveranno il cinema
Il merchandise di lusso, le piattaforme streaming di nicchia, le sale d'essai e i film vecchi in lingua originale: l'industria cinematografica è in pericolo e in suo soccorso devono accorrere gli snob.
Il merchandise nel cinema è cominciato il 19 dicembre del 1975, il giorno in cui nelle sale americane è arrivato Lo squalo di Steven Spielberg. Tra le tantissime cose di cinema che non si erano mai fatte prima e che Spielberg ha fatto per primo, ci fu anche quella di promuovere il film in un modo che all’epoca sembrava senza senso: fino a quel momento la pubblicità di un film, di qualsiasi film, consisteva in locandine, pagine sui giornali e annunci per radio, e basta. Spielberg trovava il tutto tanto necessario quanto tedioso, e lo fece presente a Steve Ellman, uomo che all’epoca faceva un mestiere che nessuno sapeva esattamente in cosa consistesse: capo dell’Exhibitor Relations team della Universal Pictures, un gruppo il cui lavoro consisteva nel fare da tramite tra produzione, distribuzione e pubblico. Nel 1975 esisteva un solo Exhibitor Relations team in tutta Hollywood: quello di Ellman, appunto. Le idee di quest’ultimo non favorivano la diffusione di queste nuove professionalità: l’ossessione di Ellman per gli oggetti era considerata un problema da risolvere dagli stessi dirigenti Universal. Fino a quando non conobbe Spielberg, che trovava geniale tutto quello che Ellman proponesse: promuovere Lo squalo vendendo T-shirt, asciugamani, borse da spiaggia, temperamatite? Spielberg insistette con Universal affinché si facesse tutto quello che Ellman proponeva. Il risultato di quelle idee e di quella insistenza fu un successo tale che oggi tutte le case di produzione, grandi e piccole, americane e non, hanno un loro equivalente dell’Exhibitor Relations team. Fu l’invenzione del merchandise, della trasposizione del cinema in oggetto, indumento, accessorio, indice di gusti e talvolta status symbol (tra i pochissimi e tristissimi privilegi del mestiere di giornalista culturale c’è la possibilità di sfoggiare il merchandise riservato a chi partecipa alle anteprime dei film).
La storia di Spielberg, di Ellman, dello Squalo e di Universal è raccontata in un lussuosissimo volume da collezione prodotto, pubblicato e commercializzato da A24: si intitola For Promotional Use Only, costa 52 dollari ed è il finale della storia cominciata appunto il 19 dicembre del 1975, un libro di campagne di marketing del cinema che diventa un ambitissimo coffee table book, un oggetto d’arredamento, poco meno di un prodotto di design. A quasi cinquant’anni esatti di distanza, il merchandise cinematografico ha attraversato tutte le fasi della significazione-risignificazione, è passato dall’essere il marchio della sfiga – sono ancora impresse nell’inconscio di tutti le immagini di uomini adulti che indossano felpe e T-shirt dei supereroi alla luce del sole – a una delle più evidenti reificazioni dei concetto di coolness. Si torna ad A24: nello store online di quella che è indubbiamente la più nota e venerata delle case di produzione contemporanee si trovano film adattati in oggetti di ogni tipo. Dalle candele al profumo di genere cinematografico ai calzini brandizzati con quello che è ormai noto come font A24, passando per felpe e giacche, tappeti e bandane, adesivi e guinzagli per gli animali, locandine realizzate a mano in edizione limitata e cofanetti preziosi come scrigni del tesoro. A24 è un caso di studio nel campo della “coolification” del merch cinematografico, parola che possiamo tradurre come meglio ci pare: fighettizzazione? Gentrificazione? A voi la scelta. Fino a pochi anni fa (parlo per esperienza diretta) nessuno avrebbe trovato raffinatezza in un qualsiasi oggetto ispirato a un film. C’entra sicuramente lo spirito del tempo – difficile professare coolness esponendo in casas caffalature intere riempite con pupazzi Funko Pop da 15,99 euro del supereroe del momento, anche questa una scelta di design assai diffusa negli anni Dieci e mai abbastanza ridicolizzata – soprattutto il cambiamento dello stesso: passeggiando per Milano mi è capitato di vedere condomini che espongono orgogliosi, vanitosi il loro numero civico nel font A24.
Come in ogni processo di “coolification”, anche i prodotti afferenti al cinema sono arrivati in cima allo Zeitgeist: il passaggio da nerd a cool a snob è sembrato rapidissimo ma in realtà ha impiegato un quarto di secondo per compiersi. Come in tutte le cose rilevanti di questa epoca, c’entra ovviamente la moda. E quando si parla di moda nel cinema di oggi si parla ovviamente di Sofia Coppola: che qualcosa fosse cambiato e stesse cambiando nel modo di “consumare” il cinema tanti lo hanno notato nei giorni dell’arrivo in sala di Priscilla: mentre iniziavano le proiezioni del film, in commercio arrivava anche un ciondolo d’oro 14 carati, una riproduzione di una vera collana di Priscilla Presley, prodotta dal brand losangelino J.Hannah. In vendita a 1480 dollari – prezzo che diventa 400 dollari nella versione in argento – ha segnato il debutto nella gioielleria di A24. A quel punto, il cinema inteso come “movimento”, tendenzialmente restio a queste forme di ibridazione (i più duri e puri direbbero bastardizzazione), si è accorto di un fenomeno in corso ormai da un pezzo: il mercato degli oggetti, degli oggetti belli, legati al cinema ha già raggiunto i 29 miliardi di dollari di valore. Le proiezioni dicono che nel 2030 questo valore salirà a 128 miliardi.
Osservando questa curva all’insu, seguendo i movimenti di questa crescita, si legge un capitolo della storia recente del cinema. Si vedono meno film (nel senso: si staccano meno biglietti, si acquistano meno home video, si noleggiano meno titoli) ma se ne “comprano” di più. Solo non nella forma in cui siamo abituati a intendere il cinema, cioè quella audiovisiva. I film sono diventati – anche – oggetti e il mercato, con l’intuito e la spietatezza che gli appartengono, ha provveduto a farne presto beni di lusso. Tra i primi in questo ricchissimo pezzetto del mercato a intuire cosa sarebbe successo è stato JW Anderson con Loewe: è del 2021 il lancio della prima capsule collection in collaborazione con lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki, uno dei più noti casi di crossover tra cinema e moda, tra merchandise e lusso.
Come spesso capita, la realtà assume la forma degli oggetti che la compongono. Se tutte queste storie, questi episodi, questi oggetti, queste persone, queste intuizioni non avessero contribuito a diffondere l’idea di una rinnovata – se non addirittura inedita – coolness del cinema (in parte è un discorso che abbiamo già fatto quando abbiamo discusso di ritorno del cinema in “Dove stiamo andando”, il 58esimo numero di Rivista Studio), probabilmente non avremmo assistito neanche al cambiamento nel modo di consumare il cinema in sé e per sé, in quanto oggetto audiovisivo, nel senso di opera d’ingegno e/o di arte. Lo “snobismo” che ha iniziato a diffondersi dagli oggetti – quindi da una specifica e limitata, persino minore, forma di consumo cinematografico – è finito a permeare la fruizione del cinema tutto, quindi ogni forma di consumo cinematografico esistente.
Lo snobismo inteso nel senso migliore, nel senso in cui lo intendeva A.O. Scott in un meraviglioso pezzo del 2005 sul New York Times – intitolato, appunto, “Film Snob? Is That So Wrong?” – è la ragione, la spiegazione del successo di prodotti come Mubi, come Criterion Collection prima la collezione di dvd e poi la piattaforma streaming (a proposito: cosa c’è di più cool di Ayo Edebiri che dimostra il suo impeccabile gusto per vestiti e film nel format Closet Picks), come Letterboxd (a proposito: cosa c’è di più uncool di Zendaya che non riesce a stilare la lista dei suoi quattro film preferiti per paura di essere “divisiva”), come RogerEbert.com. È in fondo una nuova iterazione di un fenomeno che nella storia del cinema esiste da sempre: come prima il pubblico si divideva tra quello che frequentava i multisala e quello che sceglieva la sala d’essai, adesso la divisione si ri-manifesta con la differenza che una parte si abbandona alla Top 10 dei film più visti su Netflix e l’altra si immerge nelle minuzie del catalogo Mubi. Una parte decide cosa andare a vedere leggendo le percentuali di freschezza o marcescenza su Rotten Tomatoes e l’altra dopo aver scorso decine di recensioni su Letterboxd, come un tempo c’era chi non leggeva più delle brevissime sinossi dei film riportate nelle pagine Spettacolo dei quotidiani e chi non vedeva nessun film che non avesse ricevuto l’approvazione di Cinema nuovo.
Come in ogni ripetizione dell’eterna lotta tra snob e pop (comprare i pattini rosa di Barbie o il porkpie hat grigio di Oppenheimer dice qualcosa di noi, così come la sala preferita tra il The Space o, per chi vive a Milano, il Beltrade), la vittoria del primo sarà determinata dalla sua propensione alla spesa. Lo snob alla fine vince sempre (spesso, dai) perché per lui il cinema non è un passatempo né un hobby ma uno status symbol, di più: una parte di identità, per la costruzione e manutenzione della quale è disposto ovviamente a tutto, anche a sforare il suo stesso budget. È una convinzione, questa, che una recente scoperta mi ha aiutato a rinforzare: la più nuova e più ricercata piattaforma cinematografica si chiama Galerie – snob già dal nome – e prevede che in cambio di un abbonamento mensile di dieci dollari l’utente riceva ogni trenta giorni consigli di visione e lettura da parte di una celebrity. Un mese c’è Rachel Kushner a fare il nostro palinsesto personale, l’altro Ethan Hawke, poi Kim Gordon, James Gray, Pablo Larraín e così via. Galerie è la manifestazione del concetto spiegato rozzamente ma efficacemente dalla frase “quello che piace alla gente che piace”. Non ho resistito e mi sono abbonato subito.