Trump non ha vinto il Nobel per la pace ma è riuscito a intestarsi un accordo di pace tra Israele e Palestina, sperando che non sia l’antipasto della Gaza Riviera.
C’è qualcosa di estremamente imbarazzante nell’assistere al fallimento di qualcuno, specialmente se sono piccoli fallimenti, sviste minori che rivelano lo scarto che una persona ha rispetto a ciò che è considerato giusto, accettabile, vincente e non fallimentare. Questo imbarazzo che da sempre esiste si è accentuato con l’avvento di internet e dei social media ed è ora conosciuto a tutti come cringe.
Oltre ai video di Denis Dosio che cita Sant’Agostino (citazioni apocrife, sento il bisogno di specificare), i contenuti che più mi fanno cringiare sono ovviamente tutti quelli dei Millennial che, irriducibili, continuano a pubblicare con linguaggio e dinamiche ormai desuete, o con un entuasismo genuino che da Gen Z trovo eccessivo, soprattutto nello spazio di soddisfatta desolazione e disillusione del web. Apro Instagram e guardo tra le storie: c’è chi pubblica un selfie in palestra mentre fa una smorfia (“I’d rather be at the gym…”), chi condivide la foto del brunch con avocado toast e filtro seppia (“But first… coffee!”), chi invece foto con le amiche e il segno di vittoria, jeans skinny, calzini corti alla caviglia, e poi il tag del luogo e tanti, troppi sticker (“Girls power!”). La presenza Gen Z sui social è caratterizzata da contenuti apparentemente poco curati che devono dare l’idea di distacco nei confronti delle dinamiche performative ed estetizzanti dei social, e la dedizione dei Millennial nel pubblicare carousel di selfie al tramonto con caption elaborate è diventata uncool, spiega Chloë Hamilton sul Guardian.
Cringe epidemic
Il cringe ci mette a disagio e ci tiene incollati allo schermo. Proviamo repulsione, vergogna, imbarazzo, e, allo stesso tempo, ci sentiamo dalla parte giusta, dalla parte di chi capisce come va il mondo per davvero, di chi sa le regole giuste del gioco e va a tempo. Di chi arriva in cima alla collina o di chi guarda chi prova ad arrivarci, sogghignando. I Millennial si ostinano ad andare in salita, anche se non hanno più le forze. La Gen Z di forze è piena, eppure se ne sta ben piantata ai piedi della collina perché sia mai che poi si arrivi a metà e l’energie scarseggino e tocchi tornare indietro, sconfitti e umiliati.
I Millennial sono la prima generazione ad aver avuto piena consapevolezza delle potenzialità di internet e dei social media e ad averli sfruttati per guadagnarci oppure per crearsi una propria identità. Sono quelli che hanno spianato la strada alla Gen Z, quelli che per primi sono stati chiamati pigri e idealisti. Ma, a differenza nostra, hanno avuto la fortuna di sperimentare gli ultimi strascichi di fiducia che le generazioni prima hanno vissuto più pienamente. E questa fiducia nel mondo si trasla sui social in contenuti entusiasti o nel cosiddetto oversharing. La Gen Z (e ancora di più la Gen Alpha) tende invece a nascondersi, a pubblicare meno post, a tenere il profilo privato o ad averne uno pubblico e uno per gli amici (e le crush), per evitare il rischio di pubblicare contenuti cringe o inappropriati, un fenomeno che il New Yorker ha definito “social media ennui.”
Le maglie di accettazione dei social, tribunali che determinano ciò che è appropriato o più semplicemente cool, sono sempre più fitte: sempre meno contenuti superano la selezione e il risultato è una palude digitale, per rifarmi, sempre impropriamente, a Gert Lovink, teorico dei media e critico della rete. Lo scrittore Ocean Vuong vede questo infittirsi delle norme di accettabilità come un pericolo per la creatività: le nuove generazioni hanno paura di esporsi, di rischiare di essere ridicole e di venire giudicate. Questa paura che sui social prende la forma di derisione dei contenuti cringe e di conseguente astensione dal pubblicare, nella vita reale si trasforma in immobilismo. Vuong infatti spiega come i suoi studenti siano terrorizzati dal giudizio altrui e performino un atteggiamento cinico per non dare la percezione di credere per davvero nei propri sogni.
Non si può vivere senza essere cringe
Nonostante già un paio di anni fa su TikTok c’era chi tentava di portare avanti il meta-cringe, ovvero contenuti consapevolmente imbarazzanti, il sentimento generale sui social è quello di una cultura della sorveglianza. Il cringe immobilizza i giovani non solo in ambito creativo e nell’immaginare e attualizzare i propri sogni professionali, ma anche nelle relazioni. Al fenomeno cringe infatti si può legare quello della persona nonchalant, ovvero di colui (spesso uomo, almeno nella mia bolla TikTok) che in una relazione rimane distaccato e non si fa trascinare dalle emozioni. Legarsi alle emozioni, dimostrare di avere cura e interesse per qualcosa siginifica dimostrare di avere un attaccamento. E avere un attaccamento in questo clima politico incerto, in un mondo sempre prossimo all’apocalisse, in cui veniamo osservati dai mille occhi invisibili e sempre presenti dei social, suona a dir poco pericoloso.
Che cos’è infatti una relazione se non un attaccamento a un sogno di felicità, a un desiderio di possibilità? Credere nel proprio futuro e credere in una relazione sono due facce della stessa medaglia e richiedono entrambe come requisito fondamentale l’esporsi all’eventualità del fallimento. Nella creatività di cui parla Vuong e nelle relazioni con gli altri la definizione di errore è elastica, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato muta, si distorce e si dilata. Se si è abituati a vivere nella dimensione binaria di giusto/sbagliato inasprita dai social, questa elasticità appare mostruosa e inapprocciabile.
Alcuni sostengono che il nostro cervello piano piano si omologherà al sistema binario con cui funziona la tecnologia che usiamo costantemente e che diventeremo incapaci di pensare al di fuori delle sequenze di 0 e 1. Per ora però il ruolo della tecnologia, soprattutto dell’intelligenza artificiale, lo vediamo in relazione all’ottimizzazione del sè, all’ossessione contemporanea per i propri limiti invalicabili e per se stessi, per il proprio benessere e per non essere scalfiti da nulla. Come scrive Adina Glickstein per Spike Art Magazine, le chatbox utilizzate come psicoterapeuti non sono mai state così in voga, e spesso tendono a cullare le illusioni del proprio “paziente,” dandogli ragione. «The potential for therapeutic transformation comes from precisely the unpredictability of conversation with a human Other», scrive Glickstein, ma la trasformazione implica necessariamente una fase cringe e non è mai stata così spaventosa. Richiede di attraversare una fase in cui ci si presenta all’altro senza avere un’idea definita di sè, mostrandosi nella propria informità proprio per poter trovare una forma. È un processo di esplorazione per tentativi che i social media stanno pian piano rendendo desueto.
The price for community is inconvenience
Per scrivere questo articolo sono andata nell’archivio della mia pagina Instagram e ho guardato le storie che ho pubblicato negli anni. Ho fatto tante cose cringe nella mia vita e ci sono le prove. Tagli di capelli, foto al mare, abiti confezionati durante gli anni dell’università, articoli scritti, azioni ridicole per uomini ancora più ridicoli. Sono lì nell’archivio di Instagram e un po’ mi fanno rabbrividire, e chissà tra qualche anno come mi sentirò. Mentre scrollo la mia storia digitale, ricordo una frase che sta girando per il web, che istintivamente suona cringe alle mie orecchie Gen Z: “The price for community is inconvenience”. Eppure è verissima, così vera che Lauren Berlant ci ha scritto un libro intero, On the Inconvenience of Other People, in cui spiega il nostro continuo e inevitabile desiderio di essere disturbati dall’altro. Parrebbe quindi che quando sentiamo il cringe siamo esattamente dove dobbiamo stare, al fulcro della nostra umanità o di quello che ne rimane nel nostro scrolling senza fine. “Don’t save me, I’m exactly where I want to be,” per citare un trend popolare. Don’t save us se facciamo qualcosa di cringe, che pena, che imbarazzo, che divertimento.