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L’Europa e il mondo non si parlano più

La 55ma Conferenza sulla Sicurezza globale di Monaco di Baviera mostra la crescente frammentazione delle relazioni internazionali e la crisi del multilateralismo.

18 Febbraio 2019

«Siamo fieri delle nostre auto ed è un nostro diritto esserlo. La più grande fabbrica Bmw non si trova in Baviera, si trova in South Carolina e da lì esporta in Cina. Siamo scioccati se queste auto, che non sono meno minacciose di quelle prodotte in Baviera, vengono improvvisamente percepite come un pericolo per la sicurezza nazionale americana». È significativo che questo passaggio di Angela Merkel sia stato uno dei più applauditi alla 55ma Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera. L’incontro, che è forse il più importante al mondo nel suo genere, ha mostrato anche quest’anno i delicati intrecci tra opposte strategie geopolitiche e geoeconomiche, offrendo lo scenario di uno scacchiere internazionale in cui l’Europa sembra sempre più schiacciata nel gioco multipolare tra Usa, Russia e Cina.

Il discorso di Merkel di sabato mattina è stato uno degli interventi retoricamente più decisi dell’intera carriera politica della Kanzlerin. Oltre a rispondere criticamente al nuovo protezionismo americano, Merkel si è presentata come convinta portavoce dell’europeismo e del multilateralismo, scegliendo poi di agganciarsi alla necessità diplomatica su temi come i rapporti con la Russia (a partire dalla costruzione del gasdotto Nord Stream 2) e l’accordo nucleare con l’Iran. La Cancelliera è stata però seguita sul palco dell’hotel Bayerischer Hof da Mike Pence, Vicepresidente degli Stati Uniti e fedelissimo di Donald Trump. La differenza tra l’intervento di Pence e quello di Merkel è stata emblematica di visioni strategiche divergenti e di un asse transatlantico sotto stress.

Un gruppo di manifestanti protesta contro la Conferenza di sicurezza di Monaco di Baviera il 17 febbraio 2018 a Monaco Sebastian Gabriel/Afp/ Getty Images)

Il Vicepresidente americano ha celebrato i successi di Donald Trump nel rilanciare l’economia interna Usa, ha sottolineato come l’azione del suo Presidente abbia di fatto ridotto la conflittualità con la Corea del Nord, ha piazzato una stoccata alla Germania proprio sul Nord Stream e ha di nuovo chiesto senza mezzi termini agli alleati Nato in Europa di fare (cioè spendere) di più. Ma, soprattutto, Pence ha deciso di spingere con fermezza uno dei principali dossier della propria amministrazione, attaccando frontalmente l’Iran, che ha indicato come stato terroristico e antisemita che “si adopera per un nuovo Olocausto” (non dando di conseguenza alcun credito alla volontà Ue di salvare l’accordo sul nucleare). Pence ha poi volto lo sguardo al Venezuela, chiedendo all’Ue di prendere una posizione compatta contro Maduro (coinvolgendo perciò indirettamente l’Italia, il cui veto sul sostegno al nuovo presidente Guaidò resta decisivo all’interno dell’Unione).

Più complessivamente, il discorso di Pence ha colpito per il tono intransigente e nazionalista, a tratti rafforzato anche da specifici richiami religiosi. Se da un lato il Vicepresidente Usa ha dichiarato che «L’occidente non verrà mai spezzato», dall’altro proprio il suo manicheismo tecnicamente distante dalla diplomazia non sembra aver tranquillizzato molti partner (e, tantomeno, i competitor internazionali). Va però anche notato come alla Conferenza di quest’anno abbia partecipato la più grande delegazione americana di sempre, con ben 100 persone, tra cui la Speaker della camera Nancy Pelosi e una forte rappresentanza del partito democratico, che sembra essere venuta in Baviera per mostrare una maggiore dedizione ai rapporti transatlantici e una specifica indipendenza dalla linea di Donald Trump. Un’ennesima conferma della lacerazione che attraversa il cuore del potere Usa.

Angela Merkel dà il benvenuto al presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi durante la 55ma conferenza sulla sicurezza di Monaco il 16 febbraio 2019 a Monaco di Baviera (Foto di Alexandra Beier/Getty Images)

Subito dopo Merkel e Pence, a completare il panel geopolitico più cruciale di tutto l’evento, sul palco di Monaco sono intervenuti il cinese Yang Jiechi, ex ministro degli Esteri e ora elemento di peso del potente Politburo di Pechino, e Sergey Lavrov, Ministro degli esteri della Federazione Russa. L’intervento di Jiechi è stato quasi confuciano nella sua cautela strategica. Se negli ultimi anni il crescente personalismo di Xi Jinping e il nuovo espansionismo commerciale cinese hanno preoccupato sempre di più il resto del mondo (si veda anche l’emblematico caso Huawei), a Monaco la scelta della rappresentanza di Pechino è stata però ancora una volta quella di smorzare il più possibile i toni. Jiechi ha dichiarato che la Cina vuole un modello mondiale multilaterale che si basi sul “rispetto reciproco e sulla correttezza”, in modo da aprire a cooperazioni “win-win” e garantire quindi la pace globale. Le parole di Jiechi, seppur in nome del proprio capitalismo di stato, si sono così affermate come la versione cinese degli inviti al multilateralismo di Angela Merkel.

A questo punto, qualche analista si aspettava forse che il successivo talk del russo Lavrov, che nelle scorse apparizioni alla Sicherheitskonferenz non ha certo avuto paura di alzare i toni, sarebbe stata una risposta diretta all’intransigenza di Pence. Lavrov, invece, ha cercato d’incentrare il proprio discorso sull’idea di un posizionamento alternativo e eurasiatico dell’Unione Europea. Pur non risparmiando accuse all’alleanza atlantica e partendo dal noto presupposto che l’Ue andrebbe sganciata dalla sua impostazione “Nato-centrica” (formula che attualmente resta assolutamente improponibile per la quasi totalità dei governi europei), il ministro di Vladimir Putin ha fatto appello all’idea incompiuta e “sprecata” di una grande Europa geografica, parlando di nuovo di prospettive di unione «da Lisbona a Vladivostok».

La Russia è sembrata quindi determinata nel mettere il dito nella piaga delle relazioni Ue-Usa. Una tattica che potrebbe al momento approfittare dell’inquietudine dei paesi europei di fronte all’abbandono di Stati Uniti e Russia del trattato sui missili di medio raggio Inf (anche se in questo caso il fronte Ue all’interno della Nato resta impenetrabile), così come potrebbe cercare di influenzare una discussione non ancora chiarificata come quella sulle modalità di una crescente integrazione europea in materia di difesa. Un aspetto, quest’ultimo, su cui durante la Conferenza si è ripetuto all’infinito che una maggiore autonomia militare europea non sarà mai alternativa alla Nato, ma che continua ugualmente a sollevare interrogativi pratici tra le varie forze in campo (ad esempio alla luce delle ripercussioni che l’incremento dell’impegno UE nella difesa potrebbe avere sull’industria degli armamenti e sulle sue dinamiche geopolitiche).

Il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas stringe la mano a Yang Jiechi, ex ministro degli Esteri cinese, durante la 55ma Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera il 16 febbraio 2019 (Tobias Hase/Afp/Getty Images)

Incontri di corridoio e allarme brinkmanship

Al di là dei giudizi politici di valore sui suoi protagonisti e partecipanti, la Sicherheitskonferenz di Monaco si è quindi nuovamente confermata un vero e proprio barometro degli equilibri della realpolitik del pianeta. Nata nel 1963, per decenni la Conferenza bavarese è rimasta un incontro interno alla Nato e al rapporto esclusivo tra Germania e Usa. Dopo la caduta del muro di Berlino, e durante l’incredibile abbaglio della “fine della Storia”, si era pensato addirittura di sospendere gli incontri annuali. Tuttavia, soprattutto con l’arrivo nel 2008 dell’attuale direttore Wolfgang Ischinger (diplomatico dal network impressionante ed ex ambasciatore tedesco negli Stati Uniti), si è invece scelto di aprire la Conferenza a più player internazionali, portandola alla sua dimensione attuale.

Oltre agli interventi più in vista, nella tre giorni di Monaco si sono svolti molti altri incontri e dibattiti sui temi dell’emergenza climatica, le migrazioni, le armi nucleari, l’intelligenza artificiale. Tra ospiti e partecipanti sono stati contati decine di capi di stato, circa 80 tra ministri della difesa e degli esteri (tra cui l’Alto Commissario Ue Federica Mogherini e il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif), oltre a rappresentanti militari dei paesi Nato (incluso il Segretario Generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg) e di altri stati, così come numerosi analisti e decision makers dell’industria della difesa e della tecnologia. Una geometria eterogenea di protagonisti delle più contingenti relazioni internazionali che, eventualmente, si sono anche dedicati a quegli incontri di corridoio che sono uno degli appuntamenti meno evidenti ma altrettanto importanti della Conferenza, la cui sede offre cento stanze dedicate direttamente a meeting bilaterali più o meno spontanei.

Complessivamente, la Sicherheitskonferenz 2019 si è conclusa con risultati molto ambivalenti, anche al di là della centrale problematica del deterioramento dei rapporti transatlantici e del più che traballante asse Berlino-Washington. In presenza di crescenti fenomeni di brinkmanship (la rischiosa strategia della ricerca del limite estremo in politica estera), il semplice fatto che ci sia ancora un confronto diplomatico attivo tra parti in causa resta una garanzia vitale per il multilateralismo. Quando invece si guarda a uno degli obiettivi annunciati in apertura della Conferenza, vale a dire l’idea di dimostrare al resto del mondo quanto l’Ue sia unita, compatta e “pronta ad autoaffermarsi” su scala globale, la missione non è stata certamente raggiunta. Anche a Monaco si sono infatti percepite le divisioni strategiche interne all’Unione, si è notata l’ambiguità della tendenza di molti attori internazionali a identificare Berlino come solo referente europeo e si è intuita la generale incertezza dell’Ue di fronte allo scenario che scaturirà dalle prossime elezioni di maggio.

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