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Moda a lunga conservazione

Da Anna Dello Russo ai designer passando per i musei e Instagram: il momento d'oro degli archivi (e dei collezionisti) nella moda.

16 Settembre 2016

In uno dei tanti video in cui racconta del suo ormai leggendario appartamento milanese abitato solo dagli abiti, Anna Dello Russo dice di collezionare abiti e accessori così da proteggere se stessa e distrarre gli altri da ciò che è davvero, una persona a cui piace nascondersi, esile com’è, dietro quell’armamentario flamboyant da passerella. Proprio per questo motivo, molto spesso indossa i look da sfilata così come sono, senza scombinarli, ricreando su se stessa quella visione propria dello show, accostando i capi secondo quel preciso styling, dal cappello (se c’è, ma sempre meglio che ci sia) alle scarpe, senza dimenticare gli accessori. E naturalmente, dice di non indossare mai nulla due volte. È una collezionista nel vero senso della parola, perché la sua è un’ossessione documentata, personalissima, vasta: nell’archivio di Anna Dello Russo, nell’attesa di essere esposti, ci sono pezzi di Alexander McQueen, John Galliano, Yohji Yamamoto, Helmut Lang, Hedi Slimane, Balenciaga, Valentino, Marc Jacobs, Lanvin, Gareth Pugh e Moschino. Così tanti vestiti e così belli da aver lasciato anche Hillary Alexander del Telegraph a bocca aperta, un po’ di anni fa.

Jennefer Osterhoudt, ex assistente di John Galliano e Alexander McQueen, ha fondato insieme a Nick Royal The Arc, un archivio/guardaroba che AnOther Magazine ha visitato e che entrambi vogliono mettere a disposizione di designer, studenti e stylist. Tra le cose più interessanti che hanno raccolto c’è un’ampia selezione di abiti couture degli anni Novanta, i pezzi di Hedi Slimane da Dior Homme e tanto Christian Lacroix: una collezione così ampia che l’Hackney Council di Londra sta progettando di renderla un museo. Il venticinquenne David Casavant, invece, ha iniziato da teenager a collezionare pezzi di alta moda su e-Bay: oggi è il punto di riferimento per chi cerca capi-icona di Raf Simons, Helmut Lang e Tom Ford. Nel suo appartamento/installazione di New York riceve Kanye West, Rihanna, Travis Scott e quanti hanno bisogno di prendere in prestito o consultare il suo personale museo di rarità.

"Alexander McQueen: Savage Beauty" - Photocall

Gli archivi privati come questi sono una fonte primaria quando si tratta di ricostruire la storia di un determinato marchio, sia per una mostra sia per interesse documentaristico del marchio stesso, come ha raccontato la curatrice Grazia Venneri a Lou Stoppard sul Financial Times. «Ho iniziato a lavorare sugli archivi di Gucci dal nulla, nel 1997, quando il concetto di archivio della moda era abbastanza nuovo. Sfortunatamente, la famiglia Gucci non aveva conservato i campioni delle collezioni che aveva prodotto. Ho quindi dovuto dare il via a una ricerca sistematica, contattare le celebrity e i collezionisti privati, collaborare con le case d’asta e le boutique di vintage». Quando Venneri ha lasciato Gucci nel 2013, aveva raccolto e catalogato più di cinquemila prodotti e all’incirca duemila documenti e vecchie immagini pubblicitarie. Nel 2011, intanto, aveva inaugurato a Firenze il Museo Gucci, che ha recentemente annunciato l’acquisizione di una delle parti stilisticamente più importanti della sua storia, quella che porta la firma di Tom Ford.

Nel bellissimo profilo di Alessandro Michele che Rebecca Mead ha scritto sul New Yorker si descrive il creativo che ha reso Gucci il marchio più desiderato del momento come un instancabile collezionista, in particolare di antiquariato, come la moda che disegna dimostra inequivocabilmente. Non è l’unico designer conosciuto per questa mania dell’accumulo di prestigio: Kim Jones, che disegna l’uomo di Louis Vuitton, a trentasei anni possiede già un archivio privato di abiti, vinili e sneakers tutt’altro che indifferente, di cui solo a posteriori ha realizzato il valore. E Gucci, comunque, non è l’unico marchio che ha saputo valorizzare il suo passato mettendolo a disposizione dei propri direttori creativi: i primi a farlo in maniera oculata furono Yves Saint Laurent e Pierre Bergé. Quest’ultimo, infatti, aveva iniziato a raccogliere il materiale per la futura Fondation Pierre Bergé poco dopo la nascita di Ysl nel 1960, con una mossa tanto previdente quanto bizzarra. Oggi la Fondazione conta più di cinquemila abiti e quindicimila accessori, tutti i bozzetti originali delle collezioni, i moodboard di sfilata e di atelier, nonché un grandissimo numero di articoli e servizi di moda. Negli scorsi mesi ha annunciato l’apertura di due musei, uno a Parigi e l’altro a Marrakech, per celebrare Saint Laurent nei suoi luoghi di riferimento.

"Alexander McQueen: Savage Beauty" - Photocall

«Yves decise per la prima volta di tenere un vestito per sé nel 1964, solo due anni dopo che avevamo lanciato la couture. Me lo ricordo bene, era un vestito di pizzo marrone che lui amava moltissimo», racconta Bergé. Tutto quel materiale è stato preziosissimo per Hedi Slimane, che ha praticamente lavorato solo su di esso, e lo sarà anche per Anthony Vaccarello, che ne raccoglie la difficile eredità. Kerry Taylor, proprietaria di una casa d’aste e stimata esperta di vintage, descrive a Stoppard l’archivio di Chanel a Parigi come «una prigione di massima sicurezza estremamente glamour. Tutto è conservato in armadi scorrevoli laccati di nero. Se Karl Lagerfeld vuole rivedere qualcosa degli anni Venti o Trenta, è tutto lì, splendidamente conservato e catalogato».

Se Karl Lagerfeld vuole rivedere qualcosa degli anni Venti o Trenta, è tutto lì, splendidamente conservato e catalogato

Tutti i grandi brand, da Christian Dior a Balenciaga, e ancor più i conglomerati del lusso che li possiedono, sono estremamente consapevoli di come l’heritage sia una parte fondamentale del racconto del marchio e del suo consolidamento nell’immaginario del pubblico, e spendono oggi notevoli risorse nel mantenere intatti e aggiornati i propri archivi. Proprio per questo motivo, i designer più giovani fanno molta più fatica a costruirsene uno. Intanto perché viene visto come un atto di superbia: cosa lì renderà mai così sicuri di se stessi da iniziare a collezionare le loro creazioni? C’è poi il fatto che archiviare la moda costa, anche se qualcuno riesce a farlo comunque: è il caso di Gareth Pugh e Erdem Moralioglu, quest’ultimo in trattative con una stylist di New York per un vestito della sua prima collezione (che però incredibilmente lui non ha mai posseduto).

Sembrerà strano, o forse no, ma i musei pubblici, che ovviamente non dispongono degli stessi fondi di quelli legati ai marchi, riscontrano gli stessi problemi. «Ci sono privati al mondo che hanno collezioni migliori di quelle dei marchi stessi» – continua Taylor – «È lì che i musei devono agire. Hanno budget ristretti, è vero, ma è nell’interesse di ogni nazione che diventi una priorità». Discorso particolarmente interessante se applicato all’Italia, che pur essendo fra i primi produttori di moda al mondo, non ha un museo interamente dedicato. C’è il Museo del tessuto di Prato, certo, e abbiamo visto che il MAXXI di Roma ha tentato la strada del Victoria & Albert Museum, ma è ancora troppo poco. Nella stagione in cui il modello del see now/buy now sembra iniziare a imporsi – pur con tutte le incognite del caso, scrive Cathy Horyn – ripensare gli archivi è quasi un dovere. Come spiegano infatti Sarah Shikama – che gestisce il bell’account @she_comes_in_technicolor, piccolo ritrovo di appassionati su Instagram – e Gill Linton, proprietaria dello shop vintage Byronesque: «C’è una ragione per cui le persone [nella moda] si guardano continuamente indietro. Non è per nostalgia, ma per necessità».

Immagini: “Alexander McQueen: Savage Beauty” al Victoria & Albert Museum nel 2015 (Anthony Harvey/Getty Images)
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