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Perché non sappiamo raccontare Chiara Ferragni?

Unposted non si impegna in nessun modo a risolvere l'enigma del successo dell'imprenditrice influencer.

di Clara Mazzoleni

Chiara Ferragni alla premiere di Chiara Ferragni - Unposted, il 16 settembre 2019 a Milano (foto di Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

Sono andata a vedere Chiara Ferragni – Unposted in un multisala: volevo origliare i commenti delle persone che hanno concretamente contribuito a renderlo il film-evento di tre giorni con più incassi (1,6 milioni di euro) e presenze (circa 160mila) nella storia del cinema italiano. Un successo di pubblico che si accosta alle buone notizie sui bilanci della Tbs Crew (abbreviazione di The Blonde Salad, il nome del blog con cui tutto è cominciato) che, come sottolinea il Sole 24 Ore, quest’anno sono aumentati del 78%. Quando si tratta di Chiara Ferragni, il successo economico e di pubblico non può che accompagnarsi alle aspre critiche degli addetti ai lavori della moda e, in questo caso, del cinema. Sul Corriere, Paolo Mereghetti lo ha giudicato inclassificabile, paragonandolo a «quei resoconti al seguito delle truppe Usa che potevano dire solo quello che faceva comodo al potere militare». Non è l’unico: le recensioni dei giornalisti che l’hanno visto alla Mostra del Cinema di Venezia sono state quasi tutte negative.

In effetti, il film diretto da Elisa Amoruso è orrendo: brutto il montaggio, brutta la musica, pacchiana e inelegante l’estetica (e quindi, però, perfettamente in linea con quella della protagonista, del suo brand e dei suoi canali social), poco credibili le scene fintamente genuine girate ad hoc, tranne una, simpatica, in cui Chiara passeggia con Fedez a Los Angeles: mentre lui spinge il passeggino e – tentennante, insicuro – avanza l’ipotesi di un anno sabbatico, proponendo di fermarsi un attimo, insieme, per dedicare più tempo alla famiglia, lei lo interrompe in continuazione commentando le condizioni climatiche, «Che vento!», dando ordini, «Attraversiamo», «Andiamo di là», e facendo faccine a Leo, tanto che a un certo punto lui sbotta: «Ma mi caghi?».

Ogni volta che Fedez compare sullo schermo dice qualcosa di divertente, facendo ridere sia le signore sedute alla mia sinistra, che prima dell’inizio del film hanno commentato alcune sfilate della fashion-week milanese alle quali hanno partecipato per lavoro (ma adesso sono qui, all’Uci Cinemas Bicocca), sia le tredicenni alla mia destra, che conoscono a memoria la canzone con cui lui chiese a Chiara di sposarlo all’Arena di Verona (lo dimostrano cantandola in coro). Il marito di Chiara Ferragni funziona benissimo come elemento di spontaneità, tenerezza e imperfezione (forse l’unico in tutto il film), mentre funziona malissimo quando cerca di essere simile alla moglie, e cioè diplomatico, come quando ci ammorba con un monologo sulla scelta di “pubblicare” Leone (dicono proprio così, parlando di lui: «Abbiamo deciso di condividerlo e pubblicarlo fin da subito perché evitare di farlo sarebbe stata una forzatura») arrivando a dire che, per loro, i Ferragnez, bombardarci di stories e foto del bambino è anche un modo per esorcizzare le insicurezze e i timori dovuti all’essere dei “giovani genitori”.

E poi i due momenti drama che cercano di conferire profondità al film: quello in cui Ferragni piange ripensando ai problemi di placenta avuti durante la gravidanza e una durissima accusa a Riccardo Pozzoli. A quanto pare, 10 giorni prima del parto, l’ex fidanzato e socio in affari di Chiara avrebbe deciso di comunicare l’intenzione di vendere il 45% dell’azienda. Meno male che il personal manager di Chiara ha deciso di avvertire la neo mamma soltanto dopo il parto (piange anche lui, mentre lo racconta). Il racconto superficiale e completamente privo di dettagli del tradimento di Pozzoli è accompagnato da inquadrature gloriose: sola e pensierosa in un punto panoramico, un po’ Caspar David Friedrich un po’ Re Leone, Chiara osserva serena l’orizzonte e tutto quello che è suo, immersa nella luce della golden hour. Stesso trattamento riservato al suo coraggioso personal manager.

La lista dei difetti non è finita: strane e innaturali le mini interviste in cui Ferragni pone domande inutili a Paris Hilton e a Diane Von Furstenberg, gratuite le brevissime testimonianze delle followers accanite, imbarazzanti le slide/infografiche con sfondo glitterato in cui Ferragni, con voce impostata da studentessa della Bocconi, legge un abstract che spiega in parole semplici in cosa consiste la sua azienda. Ridicola la finta-riunione in cui si dicono l’un l’altro che gli affari stanno andando benissimo. Pleonastiche le testimonianze di varie personalità del mondo della moda (Maria Grazia Chiuri, Jeremy Scott e molti altri) che enunciano banalità prevedibili e dichiarazioni femministe facilone. Tra queste, bisogna ammetterlo, spunta qualche considerazione interessante, come quella della scrittrice Chiara Barzini, che sottolinea l’evidente «sparizione del conflitto» (se le grandi storie pop di un tempo ruotavano intorno al conflitto, nella storia di Chiara i drammi sono ridotti al minimo e immediatamente inondati di una luce che al posto di mostrarli, acceca chi guarda)Simone Marchetti, direttore di Vanity Fair, parla invece di un medioevo dei social media (siamo solo all’inizio e non abbiamo gli strumenti per capire cosa sta succedendo e quindi, forse, neanche per capire il fenomeno Ferragni). L’artista Francesco Vezzoli segnala «il mistero della normalità diventata universalità» e sottolinea il grande fascino della trentaduenne, e cioè la capacità di lanciare un messaggio di autenticità pur essendo tutto l’opposto, e cioè una persona estremamente riservata e controllata, «che ti lascia sempre col desiderio di saperne di più».

«Il suo mezzo è il suo talento», dice qualcuno nel film, «le persone criticano i contenuti, ma lei ha il suo mezzo». È una frase importante perché si può usare per spiegare il successo di Unposted. Non importa che sia bruttissimo: è un’altra trappola in cui siamo invitati a cadere mentre proviamo ad avvicinarci alla comprensione dell’enigma. Forse la sua forza sta proprio nella capacità di deludere ogni curiosità, nella sua inafferrabile superficialità. Uscendo dalla sala alla fine del film, le amiche e le coppie discutono animatamente: nessuno sembra soddisfatto, nemmeno le fan più accanite. «Dicono che è autentica: ma non è vero, è tutto artificiale», oppure, «È nata in una famiglia ricca, non è vero che si è fatta da sola».

Invece di invitare tutti quei pezzi grossi a snocciolare ovvietà, sarebbe stato molto più interessante raccontare approfonditamente la genesi di The Blonde Salad, per chi non l’ha seguita fin dall’inizio: Ferragni è stata estremamente acuta e lungimirante, la prima italiana a captare a qualcosa che negli Usa stava già iniziando a funzionare e a provare a riproporlo a modo suo, senza lasciarsi frenare dal senso di inferiorità che perseguita molti di noi («In Italia non funzionerebbe»), ma anzi superando di gran lunga le sue “maestre” e finendo per modificare il business della moda a livello globale. Una storia di successo perfettamente contemporanea, che varrebbe la pena, prima o poi, raccontare bene.

Ma non è tutto da buttare. Il film contiene una serie di indizi che lasciano intuire un enorme potenziale artistico andato sprecato. I frammenti dei filmati girati dalla madre Marina Di Guardo quando Chiara era piccola, ad esempio, mostrano come l’ossessione di catturare ogni momento attraverso le immagini abbia in realtà profonde radici famigliari. «Il passato è importante», dice Di Guardo a un certo punto, «ci dice perché siamo diventati quello che siamo e anche come diventeremo». In un altro frammento una piccola Chiara dice che da grande vuole fare la pittrice (ma non è affatto convinta e sembra anche un po’ spaventata dalle domande della mamma, che finge di intervistarla). In un altro (è ancora più piccola) spara verso l’obiettivo con una pistola immaginaria fatta con la mano, poi la avvicina alla bocca e soffia, spara e soffia, spara e soffia, sempre più veloce, finché si confonde e si spara in bocca («Chissà qual è la ferita segreta che ha infiammato il suo successo», si chiede a un certo punto la scrittrice Silvia Avallone, convinta che una ferita ci deve essere per forza). E poi, la frase che dice poco prima di sposarsi, davanti agli occhi di milioni di persone: «Spero di piangere in modo carino».