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Chernobyl non è un documentario ma un film dell’orrore

O del perché il considerare l’aderenza ai fatti è un errore di prospettiva.

13 Giugno 2019

Prodotta da Hbo e Sky, in Italia su Sky Atlantic dal 10 giugno, Chernobyl è forse la serie che sta avendo più eco quest’anno, almeno sui social, ma la sensazione è che si stia discutendo perlopiù ponendosi le domande sbagliate, e cioè quanto la ricostruzione storica sia o non sia attinente a quello che successe. Abbiamo iniziato con commenti entusiastici che ci dicevano quanto bene fosse fatta. Come quello del giornalista sportivo russo Slava Malamud, cresciuto proprio in quella Russia, che su Twitter ha manifestato in un lungo thread la sua sorpresa per l’accuratezza dei dettagli vicina alla perfezione della produzione americana: «Tutto ma dico veramente tutto è incredibilmente autentico», ha scritto. Poi, dopo pochi giorni, siamo arrivati a Masha Gessen, scrittrice russa naturalizzata americana, e autrice di Il futuro è storia (Sellerio), docu-libro molto apprezzato sulla Russia post-sovietica, che sul New Yorker ha messo in evidenza alcuni aspetti a suo avviso profondamente sbagliati della ricostruzione. Gessen riconosce l’accuratezza dei dettagli, ma critica la rappresentazione dei rapporti di potere e la non chiarezza rispetto alle responsabilità della burocrazia russa nell’incidente. Conclude infine con una considerazione arrischiata per quanto a effetto: «Si può dire che il costo delle bugie siano altre bugie. Oppure si può dire che queste sono fantasie, abbellimenti, scorciatoie e persino traduzioni. Qualunque cosa siano, non sono la verità».

Iniziando a vedere Chernobyl il primo sentimento che si deve affrontare è la stranezza nell’ascoltare degli attori recitare la parte dei russi in inglese. Tutta la scena è appunto accurata a livelli maniacali, ma in quella scena si muovono delle persone realmente esistite, Gorbačëv compreso, che parlano una lingua che non era la loro. Siamo davanti alla prima palese incongruenza e possiamo superarla solo con la proverbiale sospensione di incredulità. Tradotto: non è grazie all’adesione estrema alla realtà che cadiamo dentro una storia, ma, nel cinema e nella tv, con la forza della messa in scena, che è somma di tutta una serie di ingredienti – sceneggiatura, recitazione, regia, fotografia, etc. – di cui il “realismo” è solo una piccola e talvolta marginale parte. Del resto la deriva più pericolosa di questo discorso schiacciato tutto sulla fedeltà della ricostruzione dovrebbe portare a una sola conclusione, che pure è stata formulata in qualche non tanto remoto angolo delle nostre social-amicizie, e cioè che gli amerikani (posto poi che Hbo ha una solida e sperimentata tradizione produttiva nell’Est europeo) non dovevano permettersi di mettere le mani su una roba così lontana dalla loro sensibilità, Chernobyl non era roba per loro. Le possibili risposte argomentate a questa obiezione sono circa un miliardo e mezzo, ma ce n’è una fresca fresca che ci viene in aiuto, l’ha suggerita il Guardian qualche giorno fa: i russi stanno preparando una risposta alla serie Hbo, in cui si ventila che l’incidente di Chernobyl sia legato a un complotto della Cia. Insomma la sensibilità degli amerikani non c’entra, c’entra piuttosto la fiction e il rapporto difficile che intratteniamo tra questa e la verità dei fatti in un’epoca in cui, da Gomorra ad American Crime Story, i fatti sono pezzi di puzzle con cui quella stessa fiction viene costruita.

Qual è allora il motivo per cui Chernobyl funziona e perché va visto? Io direi perché ha la rarissima qualità di questi tempi di produrre delle immagini che agiscono a livello fisico. Bastano pochi minuti per sentire qualcosa, un formicolio, un senso di fastidio, un’angoscia che si posa letteralmente sulla pelle. È il motivo per cui Chernobyl, più che essere giudicato sul terreno della docu-fiction, dovrebbe essere considerato una specie di film dell’orrore. Quel tipo di film che produce un effetto fisico immediato e una più lenta e successiva ricaduta simbolica.

L’incidente di Chernobyl, come evento storico, fu uno spartiacque, così come lo è stato, 25 anni dopo, l’Undici settembre. Fu un enorme e partecipato trauma collettivo, e così come l’Undici settembre, la realizzazione di timori che erano già stati iper-rappresentati, o addirittura previsti: proprio in occasione della serie Hbo, Vulture ha fatto un elenco parziale ma interessante degli «irradiated nightmares», citando due film del 1983 come Silkwood e il poplarissimo all’epoca film per la tv The Day After, che per la mia generazione sono stati letteralmente degli incubi collettivi. Ma oltre alla paura nucleare Chernobyl ha anche anticipato la – ed è stato metafora della – fine di un’Era geopolitica (la fine del comunismo o addirittura della Storia). Credo insomma che la domanda che bisognerebbe porsi – la domanda che bisognerebbe porsi sempre di fronte a un’opera di finzione, ma in questo caso in particolare – sia: non quanto aderente è la serie ai fatti di Chernobyl, ma quanto, in un presente come il nostro che vive contemporaneamente la crisi della democrazia e la crisi del clima, una serie come questa possa incarnare lo spirito del tempo e le sue paure. Il fatto che se ne stia parlando così tanto mi sembra già un grosso indizio.

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