Cultura | Personaggi
Fama, teen drama e Generazione Z secondo Chase Stokes
Abbiamo incontrato a Milano l'attore protagonista di Outer Banks, popolare serie su Netflix, in occasione di un evento di Omega. Ci ha parlato di celebrità, pressione sociale e del perché funziona una serie adatta a tutta la famiglia.
Chase Stokes. Photo courtesy of Omega
C’è una recensione lasciata su Google alla serie Netflix di Outer Banks che penso la descriva perfettamente. A scriverla è l’utente S448-Jahnaya e dice, con qualche refuso sintomatico del suo entusiasmo: «La serie più bella che abbia mai visto! Amo tutto (specialmente i ragazzi) a parte le giacche dell’Fbi». Uscita nel bel mezzo della pandemia e rimasta per settimane al primo posto delle serie più viste – «Probabilmente perché la gente aveva finito tutte le serie nel catalogo Netflix», azzarda l’attore protagonista Chase Stokes, che abbiamo intervistato in occasione di un evento di Omega, marchio di cui è testimonial – Outer Banks è un mystery drama con protagonisti dei bellissimi trentenni che si spacciano per diciassettenni che cercano di trovare un tesoro nascosto nelle profondità del mare.
Camicette perennemente sbottonate, capelli bagnati schiaffati all’indietro, i protagonisti che finiscono per fidanzarsi anche nella vita reale e infine le corse al tramonto dalla polizia, per eccellenza nemica della Generazione Z: è una serie fatta per funzionare. Oggi stanno girando la terza stagione di Outer Banks, quindi non si può più dare la colpa alla pandemia per il suo successo. Semplicemente ogni tanto abbiamo voglia di aprire Netflix senza pensarci troppo e farci intrattenere per ore dai dilemmi di cuore degli adolescenti, dalla ricerca di un tesoro che forse nemmeno esiste.
Secondo Chase Stokes, il segreto di Outer Banks è proprio che riesce a tenere incollati allo schermo grandi e piccoli, una qualità per un prodotto di oggi che secondo lui non va sottovalutata. Stokes è diventato attore quasi per caso: si era trasferito a Los Angeles con questo sogno vivendo i primi mesi dentro alla sua macchina. Dopo qualche tentativo e qualche errore, è arrivato Outer Banks, la sua prima produzione importante, a cui lui nemmeno voleva partecipare. Quando lo avevano chiamato per proporgli la parte e gli avevano raccontato a grandi linee la trama della serie, lui aveva rifiutato perché gli sembrava una scopiazzatura dei Goonies. Alla fine ai Goonies non assomigliava per nulla e ora Outer Banks è diventato un punto di riferimento per la Generazione Z come lo sono stati a loro volta Beverly Hills, 90210, The Oc o Dawson’s Creek: pretesti divertenti per intavolare quelle conversazioni sull’amore, sesso, amicizia e sul diventare grandi.
ⓢ In Outer Banks interpreti il classico ragazzo cattivo che appena si innamora si riscopre essere dolce e tenero. Come mai l’archetipo di questo personaggio, eterne rivisitazioni di Ryan di The OC, continua a funzionare?
Se vogliamo spingerci oltre, è lo stesso principio dietro a Romeo e Giulietta. È una storia antica come il mondo, è una formula che funziona perché ha radice nella forma più grezza della nostra umanità. Facciamo tutti degli errori ma nonostante questo vogliamo essere amati, cerchiamo tutti di provare qualcosa che va oltre a quello che stiamo vivendo in questo momento. Ci riconosciamo nel personaggio più becero perché porta con sé un tipo di speranza. Così pensiamo che l’amore sia quella cosa che ci salva e ci fa fare meno schifo, indipendentemente dal nostro punto di partenza. Ci aggrappiamo a questo e ci rassicura che c’è di più in questa roccia che fluttua nello spazio e per ora stiamo solo grattando la superficie.
ⓢ Perché secondo te avevamo bisogno di Outer Banks proprio durante la pandemia?
Negli Stati Uniti è uscito circa tre settimane dopo l’inizio della pandemia e mi piace scherzare e dire che magari è perché avevamo già finito tutte le serie nel catalogo Netflix. Penso che la forza di Outer Banks sia che parla a tutti e non mira a toccare solo una nicchia: durante la pandemia capitava che le famiglie guardassero la televisione tutte insieme. Non importa se sei un adolescente o un genitore che ha già vissuto quelle esperienze e non sa come dire al figlio che anche lui a quell’età andava in giro a correre qua e là bere birre e che è ok farlo. Spesso mi scrivono che Outer Banks è stata la serie che ha riallacciato rapporti genitori-figli nel periodo della pandemia, è stata una fuga dalla realtà ma anche un argomento di conversazione.
ⓢ Stai per compiere trent’anni, mentre il tuo personaggio ne ha appena diciassette. Mi chiedevo come fosse fingere di essere qualcuno di significativamente più giovane di te.
Credo di passare più tempo a essere frustrato con John B per le sue decisioni egoiste e impulsive che a cercare di capirlo. Per questo ogni tanto mi devo ricordare che ora ho quasi trent’anni e più esperienza, ma che anche io a diciassette anni ero egoista e impulsivo. Allora ogni volta che mi chiedo «Perché ti comporti così, John B?», vado dai miei amici e dalla mia famiglia e chiedo loro com’ero in quel momento della mia vita. Penso sia importante capire perché un personaggio si comporta in un certo modo, così mentre lo interpreti anche il pubblico impara ad amarlo o a esserne frustrato dopo tutti i tentativi e gli errori.
ⓢ Trovo molto adatto il modo in cui la serie affronta il discorso sul sesso, toccando en passant anche il tema del consenso. Penso in particolar modo alla scena del tuo personaggio e di Sarah, che stanno per fare sesso la prima volta e prima, semplicemente, ne parlano. Pensi che sia il linguaggio naturale della Generazione Z?
Vogliamo tutti tutto subito, ma ci dimentichiamo che l’intimità è più della fisicità del momento: è la connessione emotiva che si crea. Infatti Sarah subito si tira indietro, poi ne parlano e si apre uno spazio emotivo, che è la parte più importante di una relazione. È da quella che si crea l’intimità fisica in quella confusione «Dovremmo fare questo? Si fa così?» e di sicuro non gettarsi a capofitto nelle circostanze: penso che quelle scene siano importanti specialmente per i ragazzi che imparano che non devono essere aggressivi. Poi coi social mettiamo sempre in mostra la fisicità, ma bisogna andare oltre e penso che questa serie fornisca ai più piccoli una mappa per navigare quelle dimensioni dell’intimità.
ⓢ Com’è stato essere catapultati all’improvviso nel mondo delle celebrità?
Eravamo in piena pandemia anche mentre giravamo la seconda stagione, quindi una volta finite le riprese, improvvisamente, ci siamo trovati catapultati in un mondo diverso. Uno in cui la gente inizia a fissarti mentre porti a spasso il cane, vai a un evento e ci sono le persone in fila solamente per vederti e salutarti. A Venezia c’era una ragazza che si è messa a piangere quando mi ha visto, io non sapevo che fare, l’ho abbracciata. È strano vivere questo da un giorno all’altro, non c’è modo di prepararti.
ⓢ Specialmente ora con Instagram, TikTok, basta aprire queste app e vedere la tua faccia ovunque, in qualche video promozionale, fan art. È una dimensione in cui ti senti a tuo agio?
Non molto e infatti è anche il motivo per cui cerco di tenere l’uso dei social al minimo. Non ho nemmeno le notifiche. Genera ansia aprire un sito e vedere la tua faccia sulla pagina “esplora”, magari stavi cercando tutt’altro e ti si apre un video con le tue clip. Cerco di non osservarmi troppo nemmeno quando lavoro, mi dico, ok, mi stai dicendo che questa è davvero la mia faccia? Ovviamente sono contento che alle persone piaccia, ma in realtà io sono ipercritico. Se mi rivedo trovo sicuramente un errore nel modo in cui pronuncio qualcosa, in cui mi muovo…
ⓢ Allo stesso tempo mi sembra che il tuo profilo Instagram restituisca una scintilla di autenticità. Certo, mostri i progetti a cui stai lavorando ma per lo più fai carrellate di foto e video in cui ti fai vedere mentre fai qualcosa di divertente, mostri i tuoi cani, i tuoi amici che fanno facce buffe. Un po’ come fa BeReal se vuoi.
È incredibile, si finisce sempre a parlare di BeReal. L’uso che faccio del mio profilo Instagram è più che altro trasparente, metto anche foto sfocate in cui non è che sia venuto proprio bene, mi piace condividere foto mentre scherzo coi miei amici. Sono interessato a mostrare la verità dietro al glamour di Hollywood. Magari carico una foto mentre sono a un evento stupendo ma alla fine la maggior parte del tempo la passo a scherzare con le persone sedute vicino a me e a fare casino, e penso sia importante comunicarlo e che i miei follower sappiano che anche se sto indossando un completo sono sempre io, un po’ cretino, che mi faccio sgridare mentre mi sdraio sul taxi a Venezia. E allora la condivido.
ⓢ Pensi che la percezione del tuo corpo da parte delle altre persone abbia inficiato sulla tua scelta di diventare attore?
Assolutamente no, anzi era qualcosa che ripugnavo. Il mio migliore amico e compagno di liceo, Jeremy Pope [protagonista di Hollywood e Pose di Ryan Murphy], è sempre stato ossessionato dalla recitazione, mentre io ero terrorizzato dall’idea di salire sul palco. Non ci ho più pensato fino a quando non ho avuto un incidente mentre facevo sport. Da lì sono entrato nella produzione televisiva a scuola e davo gli annunci al mattino all’interfono della scuola: davo le notizie, poi mi sono dato al meteo, dicevo cose stupide come «Indovinate, in Florida farà ancora caldo!». Alle persone piaceva e ho pensato che avrei potuto approfondire questa carriera, ma in Florida non c’è una via veloce per arrivare all’industria dell’intrattenimento, e non avevo conoscenze. Alla fine sono diventato ossessivo e mi fingevo il mio manager e mandavo mail a tutti gli agenti di Hollywood ma alla fine nessuno rispondeva. Alla fine ho fatto la valigia, l’ho caricata in macchina, e sono partito a Los Angeles, e dopo i primi esperimenti in spot pubblicitari e cataloghi Disney di Natale per cui venivo pagato pochissimo, alla fine ce l’ho fatta, sette anni dopo.
ⓢ Una cosa curiosa che ho trovato studiando la tua filmografia su Wikipedia è che non sembri aver fretta, fai un progetto alla volta. I tuoi colleghi fanno uscire 3 serie e 2 film all’anno, tu sembri prendere un progetto a cuore e metterci tutto te stesso. Sei un perfezionista?
Ho capito che voglio solo scegliere di portare in scena storie in cui credo. Non mi piace fare le cose di fretta, mi piace prendermi il mio tempo. Per ora il tempo è stato dalla mia parte, sono stato paziente e in realtà non è esattamente una scelta, continuo a fare molti provini, che credo aiutino a mantenerti umile. Nessuno mi chiama per dirmi che ha una parte perfetta per me, anche perché se no verrebbe a mancare la mia parte immaginifica di attore.
ⓢ C’è qualcosa di te nei tuoi personaggi?
Cerco sempre in ogni modo di lasciare una parte di me nel personaggio che interpreto, ma allo stesso tempo mi piace fare finta di essere qualcuno che non mi assomiglia per niente. Per quanto riguarda John B, potrei essere io a 17 anni, un omaggio all’adolescenza. Mi piace prendermi dei rischi e provarle tutte, anche perché oggi sono qui e questo lavoro mi piace tantissimo, ma domani?