Cultura | Fotografia
Carla Sozzani, una vita per le riviste e la fotografia
È uscita una biografia della fondatrice di 10 Corso Como, con oltre 400 immagini che raccontano un percorso fuori dall'ordinario e senza confini.

Due, forse tre generazioni cresciute nel mito della specializzazione, intere economie fondate su interessi e modelli predittivi, tutti i “che cosa farai da grande?” lasciati cadere con un certo imbarazzo, per scoprire che il segno lo lascia chi non ha badato troppo ai confini delle discipline. Scelte di vita che oggi farebbero impazzire algoritmi e genitori. Prendiamo Carla Sozzani, di cui è appena uscita in libreria la biografia Carla Sozzani. Arte, vita, moda (L’Ippocampo Edizioni), scritta dalla giornalista Louise Baring e con più di quattrocento immagini di Sarah Moon, Helmut Newton, Paolo Roversi e molti altri compagni di viaggio. Una vita che spesso si intreccia con quella della sorella Franca, avvicinamenti e allontanamenti, a periodi. In questo libro, più che scoprire che cosa ha fatto in sessant’anni di lavoro Carla Sozzani, scopriamo che cosa l’ha interessata, e forse è questo ciò che conta. Fotografia, moda, artigianato, design, viaggi, magazine, editoria? Tutto? Sicuramente, la storia inizia con la materia di cui erano fatti i magazine: la carta.
ⓢ Nel libro lei racconta che ha imparato molto, se non tutto, dalle riviste di carta.
È vero. Le ho tenute in mano fin da piccola, mia mamma era un’appassionata di riviste di moda. Poi ho cominciato a lavorare giovane, avevo diciannove o vent’anni, in un giornale che si chiamava Chérie Moda, ero appassionata dei Bazaar degli anni Cinquanta, giornali pazzeschi. La moda per me era importante, ma quello che mi piaceva era tutta la parte grafica, la messa in pagina, i testi, l’estetica nella sua totalità, non solo una bella immagine. Così ho sempre desiderato fare giornali, e dopo naturalmente i libri.
ⓢ Non si è mai identificata solo nella moda, solo nel design, solo nella fotografia. Ma in tutto questo messo insieme.
Una vita piena di curiosità.
ⓢ Anche la curiosità verso il mondo. Nel libro racconta il periodo di Marrakesh, il periodo dell’Asia, degli Stati Uniti, New York. Un’esploratrice.
Eh sì. Sono stata anche molto fortunata perché viaggiare per lavoro dà la possibilità di incontrare persone in profondità, persone di ogni estrazione sociale. Quando fai un servizio fotografico incontri il console o il re e incontri le persone che ti aiutano a lavorare nel quotidiano. Riesci a creare un rapporto molto bello con le persone del posto, non è certo turismo.
ⓢ Ha sempre guardato con interesse l’artigianato perché, dice, dalla manualità nasce l’arte, dal lavoro manuale nasce il lavoro dell’artista.
Sì, sono convinta che una sia la conseguenza dell’altra, si integrano continuamente. Senza l’artigiano non c’è l’artista. Ho sempre dato un grande valore alla creazione manuale. Quando viaggiamo, andiamo a vedere gli artigiani che lavorano, li guardiamo affascinati fare una scarpa, produrre un vaso. L’artigianato deve essere preservato, anzi deve essere riabilitato perché spesso ai più giovani non viene spiegata bene l’importanza della manualità. Le abilità manuali sono la ricchezza di un Paese, anche per il suo futuro.

ⓢ Quanto è stato utile crescere in una famiglia borghese e quanto è stato necessario il fatto di doversene allontanare?
Credo che il fatto di essere cresciuta in una famiglia appassionata d’arte e di bellezza abbia aiutato tantissimo sia mia sorella sia me ad apprezzare la bellezza e passare la nostra vita a cercarla non solo nei musei. Questo è stato sicuramente un privilegio, così come è stato un privilegio essere nata in Italia. E poi, certo, era necessario liberarsene, ma non è stato un progetto, a un certo punto è diventato necessario trovare una forma di libertà, che comunque la mia famiglia ha sempre incoraggiato, pur cercando di trasmetterci dei principi di base: bisogna lavorare, non essere pigri. I nostri genitori hanno sempre incoraggiato la nostra indipendenza, anche quando forse noi abbiamo un po’ esagerato (ride).
ⓢ C’è stato un momento in cui lei e sua sorella Franca avete capito che la moda non erano solo i vestiti, che comunicare la moda voleva dire parlare della società.
Penso che sia stato il periodo storico che sensibilizzava molto in questo senso. Negli anni Sessanta non si poteva pensare di andare a vedere le sfilate, sedersi, e ignorare quello che succedeva intorno, sarebbe stato completamente senza senso. Siamo state fortunate a vivere un periodo in cui successe tante cose che hanno cambiato la società in modi diversi. Ma non è stato un ragionamento conscio, sembrava naturale, viaggiando tanto, vedendo tanto, imparando ogni giorno qualcosa di più, è arrivato il desiderio di comunicare agli altri quello che pensavamo fosse importante, interessante, quello che aveva significato nella società. Quando nella Milano del 1975 c’erano i vestiti da sogno e c’erano i rapimenti, le targhe alterne o non c’era la luce, non potevamo vivere scollegati dalla realtà.

ⓢ Perché ha deciso di allontanarsi dall’editoria dei magazine per aprire una galleria e una casa editrice?
A un certo punto mi avevano chiesto di rientrare in Condé Nast, ma nel frattempo mia sorella era diventata direttrice di Vogue Italia, e la cosa sembrava estremamente complessa. Così ho pensato che fosse il momento di fare un cambiamento. In realtà, si trattava sempre di fare un lavoro di editing. Dirigere una galleria è fare editing, si tratta di scegliere. Fare libri è editing. Ho cambiato, certo, non in modo così radicale.
ⓢ E ha sempre messo al centro la fotografia.
La fotografia è sempre stata al centro dei miei interessi. Ma anche questo è venuto in modo naturale, il lavoro nei giornali mi portava a incontrare molti fotografi. E poi, a Milano, una galleria di fotografia non c’era, c’era la galleria Diaframma di Lanfranco Colombo che aveva fatto un lavoro straordinario e con il quale sono stata amica per anni, ma era l’unica. Mentre a Londra e a New York, dove passavo molto tempo e avevo cominciato a collezionare fotografia, andare nelle gallerie era una cosa normale. Aprii quindi la mia galleria con entusiasmo, in un garage isolato, e non fu facile, né fu facile per Milano accettarmi. La galleria è stata importante per poter fare un lavoro di comunicazione e negli anni si è creata una conversazione continua con i visitatori.

ⓢ È vero che l’esperienza Vogue Italia ha dato poco spazio ai fotografi italiani?
Guardi, lo hanno detto anche degli stilisti. Abbiamo lavorato molto con Giovanni Gastel, con Paolo Roversi, con Maria Vittoria Backhaus, solo per citarne alcuni. Il nostro concetto era l’internazionalità, guardavamo al mondo, quindi è possibile che il fotografo italiano si sia sentito meno protagonista, meno al centro.
ⓢ Lei e sua sorella volevate essere influenti?
Si trattava di condividere, non di essere influenti, non di condizionare. Penso che se uno condivide con gli altri in modo autentico, allora sarà sempre guardato con rispetto, e a quel punto potrà anche influenzare.
ⓢ Oggi lei dedica gran parte della sua vita alla Fondazione Sozzani, ma anche alla Fondazione Azzedine Alaïa a Parigi. E molti fotografi con cui ha lavorato hanno dato vita a fondazioni. Quale pensa sia il ruolo di una fondazione per l’eredità di una persona?
Dall’esperienza che ho avuto, è un modo per preservare e trasmettere. Alaïa era ossessionato dal fatto di raccogliere tutto in una fondazione per poter poi trasmettere alle nuove generazioni tutto il suo sapere, che non era un sapere innato, ma derivava da anni, da decenni di apprendimento. La fondazione vuole conservare tutto in un luogo, in modo che l’archivio possa essere visitato, condiviso e trasmesso. Penso quindi che abbia un ruolo educativo, non sia una celebrazione. Credo che il lavoro educativo sia molto importante, e quello vale anche per la mia piccola fondazione.