È anche una maniera per sentirsi vicini a Emma Stone, che per la sua interpretazione nel film ha deciso anche lei di rasarsi a zero.
Yorgos Lanthimos ha una interessante visione del mondo. Lo considera, da sempre, triste e malato, detto con la voce dello speaker dello show preferito della cinica Daria (chi non ricorda o non conosce la geniale serie animata di MTV veda di porre rimedio alla lacuna). Dal “disturbante” (si dice così) Kinodontas (Dogtooth in inglese) al film che lo ha fatto conoscere al mondo intero, The Lobster, fino ai fasti de La favorita, che lo portò alle soglie dell’Oscar, il regista greco ci ha detto che, distopico o nella Gran Bretagna del 1700, c’è poco da stare allegri, perché siamo circondati da pazzi convinti di essere depositari della verità e desiderosi di controllare il prossimo.
Bugonia è un altro capitolo di questo suo ideale romanzo cinematografico. Tratto dal film sud-coreano Save the Green Planet, questo remake si basa su una sceneggiatura scritta da Will Tracy ma sviluppata da Lars Knudsen, socio produttivo di Ari Aster (considerato ormai un vate nel moderno indie statunitense. In sala trovate il suo quarto film da regista Eddington). Come mi ha raccontato quando l’ho incontrato durante il BFI London Film Festival lo stesso Lanthimos, quando Knudsen gliel’ha inviata è stata un’epifania. «L’ho semplicemente trovata incredibile fin dalla prima lettura, tutta d’un fiato. Facile, emozionante, divertente e complessa, tutte cose che cerco quando scrivo qualcosa. Mi sono subito entusiasmato al progetto. L’ho inviata a Emily, che ha avuto una reazione simile, quindi è stata una decisione rapida. Quando abbiamo iniziato a lavorarci, ho collaborato con Will per modificare la sceneggiatura per adattarla alla mia sensibilità, ma è stato un processo molto più veloce rispetto ad altri in passato. È stato praticamente un regalo».
Emily sarebbe Emma, Stone, naturalmente, arrivati al quarto film insieme, praticamente inseparabili. Il perché ha cercato di razionalizzarlo proprio lei, dicendomi che «andiamo d’accordo da oltre un decennio. Siamo attratti da storie e mondi simili. Prima di incontrare Yorgos avevo visto solo Dogtooth, credo nemmeno The Lobster, perché non era ancora uscito. Mi era piaciuto molto, ma una volta che ci siamo incontrati ho capito che era semplicemente una persona con cui andavo molto d’accordo e di cui mi potevo fidare. Fare il nostro lavoro preferito insieme ha solo rafforzato questo legame». Lanthimos ci tiene a sottolineare che detta così «è una semplificazione eccessiva. È un rapporto più complesso, che per esempio negli anni ’70 era molto comune. All’epoca, attori e registi lavoravano insieme ripetutamente e i film erano semplicemente migliori».
Facci ridere, Yorgos
Difficile dargli torto, sui film degli anni Settanta intendo. Ma Bugonia è per molti versi figlio di quell’epoca, d’oro, una commedia nera, surreale e politica, come molte se ne facevano all’epoca, basti pensare a film come Anche gli uccelli uccidono di Altman o Piccoli omicidi, geniale, unica regia di Alan Arkin. Usare la commedia per raccontare il mondo di oggi è un esercizio che ogni regista dovrebbe provare a fare, così come raccontare storie che siano almeno un po’ scomode e che mettono a disagio, lo spettatore in prima battuta, e anche qualcuno in qualche comodo ufficio tra i corridoi del potere.
Qui la storia, apparentemente piccola, è quella di un uomo, Teddy Gatz (Jesse Plemons, al secondo film con Lanthimos dopo Kinds of Kindness, grande interpretazione) deciso a rapire l’amministratrice delegata di una industria farmaceutica, Michelle Fuller, perché convinto che la donna sia in realtà un’aliena mandata sulla Terra con lo scopo di distruggere l’umanità. Il sequestro andrà a buon fine, Michelle verrà reclusa e incatenata in cantina e resa innocua in accordo con le convinzioni e gli studi condotti da Teddy frequentando siti contenenti le più disparate teorie cospirazioniste. Bugonia parte un po’ con il freno a mano tirato, ma si trasforma ben presto in una folle, e assai divertente, corsa verso il baratro, surreale senz’altro, ma anche attuale al minuto, soprattutto pensando agli Stati Uniti contemporanei, dove pascolano legioni di ignoranti pronte a bersi qualunque scemenza, a partire da quelle che racconta loro l’amministrazione corrente. Un film politico, e di questi tempi ce n’è molto bisogno.
«È quello che si cerca di fare sempre. A volte in modo più diretto, altre più velato, e in questo secondo caso il pubblico deve spremersi un po’ di più per arrivare all’essenza del racconto. Ma l’intenzione è sempre quella, porre domande sulla nostra natura, sulla società, sulla situazione politica, sul mondo o su qualsiasi altra cosa. Bugonia è tra i miei film tra i più espliciti, e quello che racconta è ancora più rilevante perché abbiamo iniziato a lavorarci tre o quattro anni fa, Will probabilmente cinque. È solo una coincidenza, ma una brutta, sfortunata coincidenza che lo stato del mondo sia riflesso nel film, anche attraverso i suoi dialoghi e monologhi».
Complotto duro e puro
Complotti, cospirazioni, guru della Rete, di questo si nutre Teddy, e la squadra di Bugonia ha dovuto fare le sue ricerche in questo senso. Scoprendo cose così esilaranti da far gelare il sangue. «Esiste un tipo convinto che gli uccelli siano falsi. Ma non so cosa dovrebbero essere, una specie di spie o qualcosa del genere, forse. Programmi governativi. Non lo so. Mi sono appassionato molto a tutto ciò che riguarda gli alieni, ma dopo il film. Non volevo approfondirla mentre stavamo lavorando per non confondermi le idee. Ma dopo, ho conosciuto e ascoltato molte di queste persone che hanno teorie sugli alieni e su tutte le cose che il governo americano avrebbe recuperato e di cui sarebbe a conoscenza. Mi sono appassionato molto, sono andato anche a una convention sugli alieni, dove ho incontrato molti seguaci di Bob Lazar e altri come lui. Alla fine è solo una forma diversa di fantasy».
Bob Lazar, per chi non lo sapesse, è l’uomo che ha dedicato la sua vita a svelare il mistero dell’Area 51, personaggio tra lo schizoide e il criminale, ma a suo modo una figura affascinante su cui prima o poi qualcuno farà un film, probabilmente anche molto bello. Lanthimos mi ha esposto una sua personale teoria sulle teorie della cospirazione, ed ha un che di affascinante. «In fondo sono le stesse cose che ci attirano verso il fare film, una tradizione, un mito, l’idea che non sia solo ciò che abbiamo davanti, ma, per favore, anche qualcos’altro? Ma la cosa divertente è che alcuni di loro sono anche reali, perché costruiscono le loro bugie. Oggi, con la tecnologia e i progressi dell’intelligenza artificiale, è così difficile distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, e inoltre ci vuole molta ricerca per credere in qualcosa, quindi anche ciò che non esiste finisce con il diventarlo. Diventiamo tutti teorici della cospirazione, e iniziare a credere diventa una seconda natura. È come se tutti avessimo una teoria su qualcosa. La conseguenza sarà che avere fonti attendibili e reali diventerà sempre più difficile. E di questo sono semplicemente terrorizzato».
Il rischio ulteriore è che tutto questo possa ripercuotersi anche sul fare cinema, i toni, i generi, il messaggio che si vuole dare attraverso un film, che potrebbe diventare progressivamente sempre più ambiguo, confuso, anche incomprensibile per una fetta sempre maggiore di pubblico. C’è una soluzione a questo pericolo?
«Non c’è una risposta soddisfacente. È sempre una lotta per capire l’equilibrio e il tono, e non si può essere sicuri di arrivare al giusto equilibrio. E penso anche, come hai detto, che dipenda dalle persone che poi consumano il prodotto, dal modo in cui lo percepiscono, lo vivono, cambia in base alle loro convinzioni, alla loro cultura, alle loro esperienze, al loro umore. Si può solo fare il possibile per garantire che ci sia abbastanza ambiguità, ma altre cose sono chiare e si può giudicare in base ai propri standard, sperando che funzioni per molte persone. Ma non esiste una formula scientificamente provata per raggiungere chiunque, perché ci sono variabili in ogni fase del processo: sceneggiatura, casting del film, location, riprese, montaggio, tutto cambia continuamente, è un processo in cui pensi costantemente: “Oh, qui ho sbagliato, forse posso correggerlo in qualche altro modo”. L’importante è non essere troppo rigidi».
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