Cultura | Dal numero

Big Fish, come si costruisce un successo

È stato e continua a essere una figura cardine del rap italiano marcando con le sue produzioni, dagli anni ’90 a oggi, ogni decennio. Ora esce con un libro che spiega ai giovani come fare carriera nella musica.

di Tommaso Naccari

Big Fish fotografato da Guido Borso per Rivista Studio n° 42

Lo studio di Big Fish è a Milano nord. Da quando vivo a Milano mi è capitato spesso di andare in studi di rapper e molto spesso dalla mia base di Milano sud non mi sono dovuto mai spingere oltre Paolo Sarpi. Eppure, mentre cammino verso il luogo dell’appuntamento, nelle cuffie ho Ensi che intervista Paola Zukar, la quale racconta dei primi anni a Milano di Fabri Fibra in un «tugurio a Loreto», mentre aspetta febbricitante il responso da Universal. Fabri Fibra è la persona che, ai ragazzi della mia generazione, ha presentato Big Fish chiedendogli “Do You Speak English?”. I più curiosi in realtà avevano già recuperato i Sottotono che fanno parte del decennio precedente, quelli più giovani avranno cantato a squarciagola i ritornelli di Emis Killa, i giovanissimi di TikTok invece impazziranno per Chadia Rodriguez. Non ci sono molte figure trasversali come Big Fish, uno che è riuscito a mettere una bandierina in ogni decennio in cui il rap in Italia è esistito. Sottotono, Fabri Fibra, Emis Killa e Chadia Rodriguez sono “prodotti” che chiunque, anche superficialmente, conosce e ha apprezzato per tutta la sua vita o per un breve tratto.

Il 26 maggio esce Il direttore del circo, il suo libro edito da Sperling & Kupfer. Quando ne parlo con il suo manager, i primi input che ricevo sono: «Non sarà una biografia, certo c’è tutta una parte aneddotica, ma principalmente sarà un mix tra un libro didattico e motivazionale». Così, appena mi siedo di fronte a Big Fish, gli chiedo subito conto di questo “motivazionale”, perché mi affascina. Negli Usa c’è Dj Khaled che in qualche modo si è reinventato motivatore hip hop, ma Fish mi sembra una personalità molto più schiva. «Quando pensi alla parola motivazionale chi ti viene in mente?», mi incalza subito e nel mio tentativo di fare il giro largo e non spendere subito il nome meno spendibile del mondo, mi riprende: «Non cercare fuori dall’Italia? Ecco, pensi a lui. Io non voglio essere Young Montemagno», dice ridendo. Questa intervista è frutto di due conversazioni: una di persona avvenuta agli inizi di febbraio, l’altra telefonica il 24 maggio, perché la nostra chiacchierata necessitava di un aggiornamento, considerati i cambiamenti avvenuti nel frattempo.

Ok, allora facciamo un passo indietro: perché un libro?
Io non credo di avere una biografia da rockstar, con una vita che possa interessare a tante persone. Lo scopo di un libro, ma in generale di un progetto almeno per come lo intendo io, è quello di arrivare al maggior numero di persone, avendo qualche cosa da raccontare. Avrei potuto raccontare ciò che è successo con i Sottotono, con Fabri Fibra, con Emis Killa, le serate… Trovo, però, molto poco interessante per una persona normale il gossip da rotocalco. Quindi mi sono imposto di trovare un’utilità, uno scopo al tutto. Perciò nel libro racconto qualcosa che sia utile ai giovani che vogliono avvicinarsii a questo lavoro o che lo stanno facendo. Vedo, infatti, dei ragazzi di vent’anni che si ritengono cantanti, produttori, registi di video, esperti di marketing, ma non hanno ben presente quello che è il reale equilibrio tra le parti di un progetto. Per esempio, il progetto in cui tu sei il frontman, prevede che ci siano anche altre figure che ti aiutino a portare avanti questo progetto. Se tu sei il cantante hai bisogno di tutto un ecosistema che ti supporti e perciò devi fare un passo indietro e saperti fidare della gente. Firmare un contratto discografico è un qualcosa che al giorno d’oggi in molti intendono come fare cassa ai danni di poveri ignavi. Ma la casa discografica, questo molti non lo capiscono, è come una banca che ti presta dei soldi: se tu non fai rientrare l’etichetta da questo investimento, non hai vita facile. Da qui la parte motivazionale: fare musica è una missione, se non hai un obiettivo a lungo termine, non vai lontano, anche se hai la famigerata botta di culo. Quindi avrei anche da ridire sul termine “didattico”.

Ok, rimuovo sia didattico che motivazionale.
No, quello che voglio dire è che non è il libro di Fish il santone che sa tutto lui, ma di un uomo che ha vissuto delle fregature, degli insuccessi, dei successi e che ti racconta cosa ha capito in venticinque anni di musica. Quindi, più che “se vuoi puoi”, il messaggio è: “svegliati!”. Qualche tempo fa è venuto qua uno a propormi la sua musica, tra l’altro neanche così tanto male. Mi dice che lui faceva un altro lavoro e che a un certo punto si era rotto il cazzo di lavorare, voleva fare il rapper. Così si è chiesto: “Cosa serve per fare il rapper?”. Be’, la risposta è stata: i vestiti di marca. Questo, dunque, si è venduto la macchina e si è comprato i vestiti e da lì sono usciti i primi pezzi, che sono andati anche bene. Questo è un genio del crimine, un genio del marketing, però la sua storia ti fa capire la differenza con chi viene come me dalla fine degli anni ‘80. L’avrai sentita mille volte questa storia: eravamo degli emarginati, quelli coi pantaloni larghi, non c’erano le marche. Oggi è tutto molto più facile, però in questo momento il balance pende di più verso l’immagine che il contenuto. Io non voglio fare il vecchio nostalgico, anche perché detto fuori dai denti non c’è molto di cui essere nostalgici, ma se non rappavi bene prendevi gli schiaffi…

A proposito di “anni in cui prendevi gli schiaffi”: siamo in un periodo di ritorno di alcuni nomi, penso a te con Chadia, penso a Don Joe. Dopo un periodo in cui le nuove leve sembrava vi avessero scalzato definitivamente, eccovi tornare più forti di prima. Come vive una persona che ha vissuto tutte le fasi del genere in Italia questo periodo storico?
Bene, grazie dell’interessamento. Bene perché io comunque lo faccio per passione, tutto ciò che accade è un di più. Non ho necessità di apparire, di suonare in contesti che non mi interessano, di produrre persone che non mi interessano… Faccio quello che mi piace nella vita, meglio di così non può andarmi. Ho un profondo rispetto per le nuove generazioni che hanno qualcosa da dire: se Sfera, Ghali, Tedua e compagnia sono ogni settimana a giro alla numero uno in Fimi, un motivo ci sarà. Bisogna rendersi conto che parlare al passato è da sfigato incredibile, questo vorrei che fosse chiaro.

Anni ‘90 Sottotono con Tormento, anni Zero i primi dischi in major di Fibra, anni ‘10 l’ascesa al pop di e con Emis Killa, anni ‘20 Chadia Rodriguez. Cos’è cambiato in questi quattro decenni?
Be’ sicuramente oggi c’è la tecnologia che ti aiuta a fare delle cose che prima non potevi fare, ma di base l’approccio è sempre quello. Io ho fatto tante cacate in vita mia, ma le cose che sono andate meglio sono quelle uscite così. Vedi i Sottotono, con me e Tormento che lavoravamo nella mia cantina in provincia di Novara, Fibra con cui ho lavorato in uno studio qua dietro che era 10mq, registrando il primo disco con dei materassi presi fuori in strada. Emis con uno studio un po’ meglio di quello precedente, ma un po’ peggio di quello attuale, con lui ragazzino e le cose fatte con passione. Anche con Chadia uguale: una volta mi sono seduto con Jake e ci siamo dati un paio di anni prima che esplodesse, pensavamo ci volesse del tempo ma a noi il progetto convinceva, ci piaceva lavorarci. In tre mesi è successo quello che è successo. La realtà è che la mia fortuna è stata quella di lavorare con persone brave, sempre da instradare, da indirizzare, ma molto brave. I produttori diventano “di nome” perché hanno la fortuna di lavorare con rapper bravi. Se nei primi anni ’90 non avessi mai incontrato il miglior rapper italiano, a quest’ora non sarei Big Fish.

Non sono le parole di un santone che sa tutto lui, ma di un uomo che ha vissuto delle fregature, degli insuccessi, dei successi e che ti racconta cosa ha capito in venticinque anni di musica

Big Fish fotografato da Guido Borso per Rivista Studio n° 42

Sono passati un paio di mesi dall’ultima volta che ci siamo visti e, com’è ovvio che sia, sono cambiate diverse cose. Una su tutte, ovviamente, è il gigantesco elefante nella stanza. Alla luce della situazione attuale, come è cambiato, come sta cambiando e come cambierà il tuo lavoro, sia in senso stretto che in senso lato, quindi per intenderci il lavoro di tutti i produttori musicali?
Si arrivava da un momento carico di aspettative per tutti, eravamo in un’età dell’oro per il rap italiano, probabilmente la scena non è mai stata così produttiva come negli ultimi anni. In giro c’erano cose belle, cose meno belle, ma bene o male tutti avevano un loro spazio. Secondo me ovviamente le cose, oggi, cambieranno: ci sarà un’inversione, non tanto a livello stilistico, ma quanto a livello numerico. Ci sarà un setaccio, al momento c’è tanta fuffa in giro, penso che anche da parte del pubblico inizierà a esserci un po’ di selezione, il superfluo verrà messo da parte. Per quanto riguarda il mio lavoro in studio, da produttore, la tecnologia mi ha permesso che non cambiasse quasi di una virgola. Anche il rap italiano ha scoperto lo smart working, per così dire.

Rispetto alla prima parte del tuo discorso, forse neanche credendoci fino in fondo, faccio un po’ il contraltare negativo: la fuffa, come l’hai chiamata tu, vive su internet e spesso fagocita a livello di numeri tutto un “underground” che invece vive nel mondo reale, fatto di eventi e live. Non credi che saranno più questi ultimi a rimetterci?
Se si parla di produzione di musica, vale ciò che ho detto prima. Ovviamente la parte più colpita è quella dei live: chi faceva 15/20 live al mese ha indubbiamente subito un tracollo. D’altra parte questa cosa deve però portare a meditare sul futuro. Io la definisco la cura dello specchio: a una certa devi capire chi sei, cos’hai fatto finora e soprattutto capire se la cosa giusta sia lamentarsi o inventarsi un modo di uscirne a testa alta, di reinventarsi. C’è stato un reset, se eri abituato a fare una cosa oggi devi ripartire in modo diverso, trovare in qualche modo la nuova cosa che diverrà l’abitudine.

Senza fare spionaggio industriale, questa cosa però ti tocca da vicino – penso a Chadia. Tu come stai ovviando al problema?
Io in qualità di manager ho subito delle perdite, perchè Chadia faceva una decina di concerti al mese, quindi puoi immaginare… Però ci stiamo attrezzando, stiamo facendo della musica, d’altra parte stiamo riflettendo sul nostro progetto. Le voci dicono che a marzo si potrà tornare a suonare, noi ci faremo trovare pronti. Ovviamente se ci si focalizza solo sulle perdite economiche è un disastro, se però si coglie la palla al balzo per riflettere su cose sulle quali non si ha mai tempo di soffermarsi, può essere un qualcosa di anche positivo. Siamo in un periodo, poi, in cui i bravi artisti lavorano bene anche sulla loro immagine: i brand sono sempre interessati a chi ha un’immagine interessante. Là fuori esiste la qualunque: Twitch, YouTube e affini, si può diversificare il business in mille modi. Penso che chiunque si pianga addosso, i vecchi dicendo che ai loro tempi era meglio, i giovani che non hanno inventiva e aspettano che sia tutto pronto, sia un po’ uno sfigato. Io ho 48 anni, ma cerco nei giovani qualcuno che mi trasmetta la fotta di quando avevo 20 anni. In questo momento serve la creatività, non tappare i buchi. Abbiamo avuto tre mesi per pensare al da farsi e ripensarci, se sei rimasto fregato e non hai idee forse è stata solo un’accelerazione di un processo inevitabile.

Pensi che oltre a pensare a nuove attività, sia anche il momento di sedersi al tavolo con le varie piattaforme di distribuzione streaming per ripensare agli accordi in essere?
Guarda, non è il mio campo, non ho le competenze per ridiscutere con Spotify e affini certi dettagli. Io la musica la produco, mi interessa di più il lato creativo, ecco.

A proposito di lato creativo e di energia di quando avevi 20 anni, un’altra delle cose cambiate in questo periodo è stata che “sono tornati i Sottotono”. Dopo l’apparizione a Sanremo, anche EPCC è stato un palcoscenico calcato da te e Torme. È stata un’apparizione di una volta o c’è qualcosa dietro?
Torme e io ci siamo ritrovati dopo Sanremo 2019, abbiamo parlato a lungo, ci siamo confrontati e a un certo punto è stato naturale pensare di fare qualcosa insieme. Secondo me uscirà qualcosa, in inverno. L’idea però non è grattare dei soldi rispolverando un progetto di 30 anni fa, è avere la forza di creare un’alternativa, di proporre un certo tipo di suono, adattato a oggi, che secondo me può funzionare.