Attualità | Stati Uniti

Il momento in cui ci siamo scoperti tutti quanti complottisti

L'attentato alla vita di Donald Trump segna il momento in cui il complottismo diventa ideologia dominante. Anche a sinistra, negli Stati Uniti come nel resto del mondo.

di Francesco Gerardi

Fino al momento in cui Thomas Matthew Crooks ha premuto il grilletto del suo AR-15 puntato dritto alla testa di Donald Trump, ci è piaciuto – ci ha fatto comodo – pensare che la malattia del complottismo colpisse soltanto gli ignoranti, gli svitati, i destrorsi. Quelli come Thomas Matthew Crooks, appunto. Proprio come era successo nelle prime settimane della pandemia, quando ci ripetevamo ossessivamente che il problema era di fragili e anziani, noialtri non potevamo e non dovevamo fermarci, fino a quando non abbiamo cominciato a fare il tampone e abbiamo scoperto che il coronavirus non faceva distinzioni. Ora che Crooks è un cadavere conservato nella cella frigorifera di un obitorio e che le cartilagini sull’orecchio destro di Trump hanno già cominciato a ricostruirsi, sappiamo che il complottismo è esattamente come il Covid-19: siamo tutti potenzialmente infetti, e ce ne siamo accorti quando ormai è troppo tardi per fermare l’epidemia. Nelle ore – nei minuti – immediatamente successivi all’attentato ai danni di Trump, scorrere i feed social era come seguire il bollettino dei contagi che la Protezione civile diffondeva nei primissimi giorni della pandemia: a ogni nuovo post corrispondeva un nuovo positivo, un numero sempre maggiore di contagiati, la crescente consapevolezza dell’inevitabilità di tutto, la certezza che questo virus «prima o poi ce lo prenderemo tutti». In questo caso però non c’è vaccino né immunità di gregge che possa salvarci: questo è uno di quei virus che cambia per sempre, e in peggio, la composizione dell’essere umano.

Che i duri e puri del Maga abbiano subito creduto alla bufala di Mark Violets, il “terrorista antifa” che si è poi rivelato essere il giornalista sportivo, romano e romanista Marco Violi (vittima di una delle più vaste, surreali e riuscite operazioni di trolling della storia di internet), non ha stupito granché. Che i destrorsi di tutto il mondo – Elon Musk per primo, ovviamente – abbiano subito individuato in Biden il mandante morale del tentato omicidio, anche questo non ha sorpreso quasi per niente: Mike Collins, deputato della Georgia, ci ha messo pochissimi minuti prima di scrivere su tutti i suoi profili social che Biden andrebbe «processato per aver istigato un omicidio». Che ci sia chi è riuscito a monetizzare persino uno degli episodi più sconvolgenti della recente storia americana – 50 Cent e la sua “Many Men (Wish Death)” sono diventati la colonna sonora non ufficiale della sfiorata seconda guerra civile americana, ma ci sono tatuatori e produttori di T-shirt che hanno già incassato parecchio grazie a quella foto di Trump con pugno chiuso, grugno pugnace, sangue in faccia – anche questo fa parte degli usi e costumi di questa epoca disgraziata.

Quello che stupisce, e stravolge e terrorizza, di quanto successo nelle ultime 48 ore è che anche persone che in questi anni – diciamo dall’11 settembre in poi – si sono appellate al principio di realtà, alla versione ufficiale, per rimandare l’avvento della post verità, anche queste persone questa volta si sono fatte (con consapevolezza, entusiasmo, in certi casi persino furia) vettori del virus, hanno trasformato i loro profili social in cluster, le loro piccole e grandi community di follower in assembramenti. Il complottismo ha compiuto il suo destino di pandemia del secolo nel fine settimana appena trascorso, è diventato la malattia totale, finale, perfetta. Tutti ne siamo affetti, sintomatici o asintomatici poco cambia. E proprio come succede con le malattie, la manifestazione dei sintomi prescinde dalla volontà dell’infetto: così come una persona affetta da sindrome influenzale non può fare a meno di emettere un calore anormale, alla stessa maniera la persona infettata dal virus del complottismo non può fare a meno di supporre, di insinuare, di sperare che quello che è successo a Trump sia una false flag operation, un inside job, un complotto. «Sono una brutta persona se dico che penso che sia tutta una farsa?», è la domanda che si è letta più spesso, in tutte le lingue del mondo, tra gli esponenti della sinistra social internazionale. Manca ancora la sicumera sbavante dei complottisti navigati, di quelli convinti che Tim Robbins sapesse già tutto quello che sarebbe successo e che lo ha raccontato nel film del 1992 Bob Roberts, ma l’inizio è promettente.

D’altronde, il complottismo trionfa proprio per questo: perché è il contenitore che dà al mondo la forma che desideriamo, la motivazione di una sentenza che abbiamo già emesso, la piallatrice con la quale aggiustiamo il legno storto della realtà. Perché in passato è successo – ed è successo soprattutto in America – che le teorie del complotto si rivelassero verità dei fatti. Anche se in passato c’era una differenza rispetto al presente: le teorie del complotto si formavano per accumulo, per stratificazione di informazioni nel tempo, mentre oggi sono la risposta immediata, quasi istintiva, a qualsiasi avvenimento. E poi, soprattutto, l’altra differenza tra presente e passato: a sinistra il complotto si rifiutava, si smentiva, si sfotteva, adesione alla versione ufficiale e comprensione della realtà nel corso del tempo sono arrivate a sovrapporsi e coincidere e fondersi. Oggi invece vogliamo credere che Trump sia il tipo di uomo disposto a tutto pur di essere il prossimo Presidente degli Stati Uniti. Di più: sappiamo già che è quel tipo di uomo, lo abbiamo già deciso. E per questioni di logica aristotelica, questo carnefice non può essere allo stesso tempo anche vittima. Se non di se stesso, appunto.

La malattia ormai è in stato così avanzato che al medico non resta altro che baloccarsi con la precisione della diagnosi. Il Washington Post ha trascorso le ultime ore a trovare un nome giusto per la malattia e alla fine ci è riuscito: BluAnon, crasi tra blue, il colore con sui vengono segnati sulla mappa politica gli Stati roccaforti democratiche, a QAnon, il complotto che ha ridefinito il moderno concetto di complotto. «Researchers who track online conspiracies say liberals are increasingly vulnerable to — and generating — QAnon-like bursts of misinformation», si legge nel sottotitolo. La sinistra riparta dal complotto.

A 48 ore di distanza dai fatti, il virus del complottismo continua a diffondersi, in mezzo a richiami all’unità e alla pacificazione che appaiono persino più irrilevanti e posticci del solito. Proprio come prevedeva Naomi Klein nel suo Doppio, la realtà è ormai soltanto un canovaccio che le parti coinvolte in questa guerra totale usano come base per narrazioni opposte e soprattutto contrapposte: lo stesso video di un agente dei Servizi segreti che si abbassa un secondo “troppo presto” diventa la prova della tesi sia dell’una che dell’altra parte, tanto di chi sostiene che l’eminenza grigia sia Biden quanto di chi è convinto che Trump sia il grande manovratore. E lo stesso vale per il video di una donna ripresa alle spalle di Trump mentre quest’ultimo ancora parlava e per l’incredibile intervista fatta dalla Bbc a un Maga supporter che racconta come tutti abbiano visto Crooks appollaiato sul container, sdraiato sul fucile, dito poggiato sul grilletto. Per tantissime persone, il fatto che a detta di quest’uomo nessuno abbia mosso un dito fino a quando Crooks non ha mosso il suo è dimostrazione allo stesso tempo che Biden sapeva e che Trump sapeva.

Quel che spesso si fraintende del complottismo è proprio questo: c’è ancora chi lo considera un’ideologia falsificatrice che cancella ogni verità. Ma è esattamente il contrario: la forza distruttrice del complottismo sta nella capacità di validare ogni versione possibile dello stesso fatto, rendere tutto vero a seconda di necessità, convenienze e circostanze, everything everywhere all at once. Anche che l’attentato alla vita di Donald Trump sia un complotto ordito da Joe Biden. O da Donald Trump.