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Apple Vision Pro mi fa paura

Il nuovo visore di realtà aumentata è una rinuncia pressoché totale alla realtà in favore degli schermi. Che promettono di sostituire i nostri stessi occhi.

di Davide Coppo

Il primo meme che ho trovato su Apple Vision Pro mostra due ragazzi seduti al tavolo di un ristorante cinese, entrambi con la faccia nascosta dietro questo grosso coso grigio infilato in testa come una maschera da sci. La caption sulla foto scimmiotta un adagio anti-tech famoso, che ricorda l’idillio di un’epoca pre-smartphone: «Not a cell phone in sight, just two friends, present in the moment, enjoying a meal together».

Ho sempre provato un certo fastidio verso questa retorica, e i cartelli di certi bar che dicono cose come: “Qui non c’è il wi-fi qui, parlate tra di voi come si faceva una volta”. Non perché non provi altrettanto fastidio – anzi: di più – ogni volta che prendo una metropolitana e sono circondato da persone con la faccia infilata in uno schermo, ma per un motivo più pratico: questa stanca venerazione per il passato è il modo peggiore per convincere qualcuno ad abbandonare una cattiva abitudine. E poi mi costringo a darmi il beneficio del dubbio: e se tutte queste persone inebetite dagli smartphone stessero in realtà leggendo un lungo pdf sulle divergenze tra gli Houthi e il regime saudita? Una lettera d’amore dell’amante lontana? Un passo del Corano o del Vangelo?

Va detto che però questo esercizio di pazienza e astensione dal giudizio non sta funzionando in questi giorni in cui vedo i primi video di come viene usato, in pubblico, il visore per la realtà virtuale Apple Vision Pro: c’è un alienato che sull’autobus muove le mani come se stesse tirando dei fili invisibili; c’è un cretino che guida una Tesla self-driven mentre batte sui tasti di una macchina per scrivere invisibile (e infatti l’hanno arrestato), ce n’è un altro che attraversa la strada, poi si ferma, prende lembi d’aria e li tira insieme, infine riprende a camminare. Tutte queste azioni, naturalmente, con questo coso grigio infilato in faccia. Cosa vedono queste persone? Nelle recensioni su YouTube e nelle pubblicità di Apple si capisce bene: una schermata non di sola realtà virtuale (e Apple ci tiene molto a specificarlo) ma soprattutto di realtà aumentata: finestre e applicazioni fluttuanti su uno sfondo che è più o meno quello che si vedrebbe passeggiando normalmente, senza quel coso infilato sulla testa. Più o meno, appunto.

Questo è uno dei (diversi) problemi che vedo nell’atterraggio dei visori di AR o VR nelle nostre vite: quello che puoi vedere, con quello schermo davanti agli occhi a fare da filtro, non è proprio quello che vedresti senza quello schermo. Mi spiego: i colori del mondo visto attraverso Apple Vision Pro non sono gli stessi che vediamo con, beh, i nostri occhi veri. Perché le immagini che vediamo quando indossiamo Apple Vision Pro non sono percepite come se il vetro fosse un semplice filtro, tipo occhiali da sole: ma sono registrate dalle telecamere del visore, e in tempo reale riprodotte sullo schermo che sta davanti ai nostri occhi. Sembra una sciocchezza? Non lo è: si tratta di un drastico cambiamento della percezione della realtà, anzi, si tratta di appaltarla completamente a una macchina. Se vi state chiedendo quanto è facile, in questo modo, creare una realtà ingannevole, la risposta è: certamente.

Ci siamo abituati a guardare con tenerezza e paternalismo i profeti dell’apocalisse delle nuove tecnologie, e io stesso non sono mai stato troppo critico nei confronti delle innovazioni. Sono anche consapevole del fatto che, se l’entusiasmo che provai quando uscì il primo iPhone derivava in parte dai miei 21 anni, lo scetticismo verso il Vision Pro ha qualcosa a che fare con i miei 37. Il conservatorismo è come un certo grado di demenza: inevitabile, sul lungo termine. E però mi sembra che questa volta i timori verso questo nuovo prodotto non siano solo lamentose visioni di vecchi tromboni, ma un sentimento più diffuso e consapevole. C’entra, credo, il modo in cui questi cosi si rapportano alla realtà: a differenza di iPhone, iPad o iWatch, i visori non sono un intermediario con la realtà. Sono un modo per uscirne.

Dopo anni di cieca fiducia nelle tech company e nei loro prodotti, il pubblico si è accorto in diversi modi che vivere dentro un mondo virtuale non è esattamente il massimo. C’è il rischio, banale, di spendere molti soldi. Quello, più grave, di non sapere più comportarsi in situazioni sociali, diciamo, tradizionali. Quello, decisamente serio, di provocare nuove forme di depressione, ansia sociale e violenza, in soggetti più o meno fragili. Il mercato si muove di conseguenza: sbocciano le applicazioni per meditare, quelle per non usare gli smartphone, per stare lontano dai social. Il visore è, da un lato, tutto il contrario di questa tendenza, e dall’altro un modo decisamente furbo di aggirarla. Mentre ti promette di lasciarti le mani libere, e di non tenere il collo piegato in avanti, chino su uno schermo, ti illude di mostrarti un mondo “aumentato”. Come abbiamo visto, non è così.

Se guardate da vicino qualcuno che indossa un visore come il Vision Pro, vi sembrerà di vedere un paio di occhi, dietro allo schermo. Non sono gli occhi di chi lo sta indossando, o meglio: sono una riproduzione digitale di quegli occhi. Esattamente come il mondo esterno viene registrato e poi riprodotto in tempo reale all’interno dello schermo, il contatto oculare (o “eye contact”) tra una persona con un Vision Pro e una persona “normale” passa attraverso lo stesso filtro: non sono i suoi occhi, quelli che vediamo guardando da fuori il visor, ma una riproduzione digitale di quegli stessi occhi.

Ci sono molte implicazioni tecnologiche nel tracciamento degli occhi: ancora più che delle dita, ancora più della scannerizzazione del proprio volto, sono uno degli organi più intimi e personali che abbiamo, e che non sappiamo veramente controllare. È difficilissimo, in pratica, mentire con gli occhi, perché hanno movimenti quasi automatici, e istintivi, che rivelano di noi cose che non vorremmo rivelare. Succede quasi sempre, succede quasi a tutti. Ma anche lasciando da parte le questioni più gravi (abbiamo già regalato alle macchine i nostri connotati, le nostre impronte digitali), e rimanendo su questioni più romantico-esistenziali: cosa significa la fine dell’eye contact? Guardarsi negli occhi è accedere a una dimensione intima che può significare fiducia, aggressività, sfida, sensualità, a seconda di microscopiche smorfie facciali, o del contesto in cui ci si trova. E poi c’è un paradosso evidente: in una società in cui, a causa soprattutto della tecnologia, tutto è stato reso visibile, e l’intimo, il sacro, il nascosto sono stati annullati, ecco che ci troviamo a occultare proprio ciò che ci definisce maggiormente in quanto persone: lo sguardo.

Quando, con le prime misure di lockdown per la pandemia del marzo 2020, ci prese una diffusa paura dell’altro, riflettevo su questa improvvisa assenza di contatto. Rileggevo le parole del filosofo Merleau-Ponty: «Toccare è toccarsi». Allo stesso tempo, diceva anche, più o meno, che guardare è guardarsi: «Il vedente, essendo preso in ciò che vede, vede sé stesso». Se questo sguardo è intermediato da pannelli fluttuanti su una realtà riprodotta e non presa in diretta, o peggio, se “noi” possiamo essere sostituiti da un avatar, cosa rimane di noi stessi? In che diverso modo esistiamo, se non conta più come appariamo?

I visori (anche quelli futuri, e non questo specifico prodotto di Apple, che è stata solo più brava e veloce degli altri) non ci libereranno dagli schermi. Al contrario: ci proietteranno al loro interno, con tutta la nostra vita e tutta la nostra persona. Se l’epoca dei social network ha reso schizofrenico il rapporto tra realtà e rappresentazione, l’epoca dei visori promette di annullare del tutto quella dicotomia. Come? Annullando la realtà stessa, completamente, a piacimento. Non mi sembra nemmeno un caso che arrivino mentre il mondo, tra guerre e crisi climatiche, sta prendendo una strada sempre più ripida e pericolosa. Nascondere gli occhi dietro a un vetro, accucciarsi dentro una simulazione, mentre tutto là fuori crolla.