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Anna Pazos ha trovato l’equilibrio tra memoir, politica e intimità

Il suo "Tagliare il nervo" è uno dei libri più interessanti dell'anno, capace di rinfrescare un genere forse in declino.

di Gabriella Dal Lago

C’è qualcosa che mi mette a disagio nella narrazione autobiografica: averci a che fare annulla quel tempo di avvicinamento che sempre mi richiede l’incontro con un altro essere umano. Ecco perché leggere Tagliare il nervo di Anna Pazos mi ha fatto provare un certo grado di scomodità: dopo le prime pagine avevo già visto Anna in modo profondo, intimo. Sdraiata su un materasso matrimoniale nell’aria lattiginosa della febbre, a mangiare banane portate da «una sorta di fidanzato». A fumare erba con sconosciuti in un salotto di Salonicco, a comprare la pillola del giorno dopo in farmacia. Tutte cose che di solito non condivido con persone che ho appena sconosciuto, figuriamoci con sconosciute. Invece questo memoir mi costringe all’intimità. Il primo libro di Pazos, che è una regista di documentari, restituisce le cronache dei suoi vent’anni attraverso una scrittura nitida che pare derivare dalla consuetudine con le immagini e il reportage. Questo taglio documentaristico e giornalistico non viene usato per raccontare il mondo ma per delineare un ritratto privato della scrittrice, che quindi risulta quasi osceno nella sua sincerità.

Allora, prima di incontrarla per questa intervista mi sento nervosa: mi pare di avere troppe informazioni in mano, troppo potere, mentre lei di me non sa niente. Forse dovrei condurre l’intervista in mutande, per pareggiare la situazione: per fortuna non è un’idea che metto in pratica, seduta  con lei sulle scale della Nuvola di Roma, lontana dal brusio dell’edizione più chiacchierata di Più Libri Più Liberi. Accantonata l’idea della nudità di questo disagio non so cosa farmene, e quindi come al solito lo riverso nella teoria: le chiedo cos’è questo libro che ho letto, chi è la protagonista, in quale cornice devo inquadrarlo. Implicitamente le sto chiedendo il conforto della fiction. Che lei, giustamente, mi nega. D’altronde Tagliare il nervo non offre conforto, ma è scritto con la sfacciataggine e l’intensità dei vent’anni: quelli che lei ha passato in giro per il mondo, all’inseguimento di sogni, di desideri, di amori e di un posto da chiamare, anche solo per un poco, casa.

ⓢ Sulla copertina dell’edizione italiana di Tagliare il nervo (pubblicata da nottetempo, nella traduzione di Amaranta Sbardella) c’è scritto “memoir”. Mentre lo leggevo però ci ho trovato dentro anche un diario di viaggio, una storia d’amore, un reportage narrativo. Qual è la casella in cui inserisci questa cosa che hai scritto?

Mentre scrivevo non avevo in mente delle etichette, anche perché è un libro composito: una parte sono delle memorie, una parte ha un approccio più giornalistico, un’altra parte ancora è una sorta di archeologia della memoria della mia famiglia. Nei vari Paesi in cui è stato tradotto è stato etichettato in modo diverso; in generale, diciamo che io mi tiro fuori da queste questioni, lascio il compito agli editori e ai lettori.

ⓢ Quando ho letto “Gli alisei”, il capitolo del libro in cui tra le altre cose racconti il viaggio in mare che hai fatto nel 2016 con il tuo allora compagno Guillermo, sono andata a vedere anche il documentario (A story of love, waves and the arms trade, 2020) che hai girato su quell’esperienza e sulla fine della tua relazione. Cosa cambia nel raccontare una storia attraverso un documentario autobiografico e poi sulla pagina scritta? Come è stato vedere la stessa vicenda attraverso due media diversi?

Quando ho montato il documentario erano trascorsi solo tre o quattro anni da quel viaggio. A quell’epoca lavoravo per la BBC a New York e avevo ore e ore di materiale girato. La storia era raccontata dal tempo presente di allora, con quella distanza. Ma la BBC è molto rigida in termini di autorizzazioni e licenze da parte di tutte le persone che sono presenti nei lavori che produce, quindi ho dovuto chiedere a tutti il consenso per comparire nel mio documentario; questo aspetto riguardava in particolare Guillermo, non solo perché era il protagonista del lavoro ma anche perché era l’autore di molti dei video che ho usato. Per certi versi è come se mi fossi un po’ autocensurata nel momento in cui lavoravo al documentario: ho lasciato che molti elementi della storia si potessero solo intuire, non venissero esplicitati. Con il libro, invece, ho voluto riempire i vuoti che avevo lasciato, dire quello che non avevo potuto dire, vuoi per il contesto, vuoi per il formato stesso dell’opera.

ⓢ Questo mi fa venire in mente una domanda che sempre mi ronza nel cervello quando leggo memoir o testi che hanno una componente autobiografica, una certa curiosità morbosa. Quando hai scritto questo libro, come ti sei comportata con le persone di cui parli? Le hai coinvolte, avvisate, ti sei confrontata con loro o ti sei sentita più libera di tirarle dentro la narrazione scritta senza chiedere esplicitamente il loro parere?

Nel momento in cui mi sono messa a scrivere questo libro non ho avvisato nessuno, perché avevo bisogno di libertà e avevo deciso che avrei gestito in un secondo momento il tema dell’intimità. Mi sono limitata a cambiare nomi e riferimenti biografici; alcune persone sono state avvisate, ma non ho mandato loro il testo. Le uniche due persone a cui l’ho inviato sono state mia madre e suo marito, che in effetti mi hanno chiesto di cambiare alcune cose. Adesso, con il senno di poi, mi sono resa conto che forse agirei diversamente, chiederei prima l’approvazione alle persone di cui scrivo. Anche perché alcune di loro si sono arrabbiate.

ⓢ Cambio prospettiva: dalla pratica della scrittura vorrei passare più al contenuto. Mentre leggevo Tagliare il nervo ho pensato molto a cosa noi chiamiamo casa. Mi chiedevo come ti sei interrogata sulla tensione verso un’idea di casa per persone nate in Europa negli anni Novanta, che partecipano all’esperienza dello sradicamento da un punto di vista certamente privilegiato, mosso sia da necessità economiche che dal desiderio.

Sì, la casa è assolutamente centrale in questo libro. Quando vivevo a New York avevo un’amica giamaicana con la quale molte volte conversavamo di questo concetto. Ci chiedevamo che cos’è una casa, come si può definire e quali sono le cose che fanno una casa, come noi ci sentiamo a casa. Forse dirò una banalità, ma mi sembra che la globalizzazione abbia portato al fatto che molte cose con cui ci identifichiamo non sono geograficamente o culturalmente vicine a noi, mentre le cose che sentiamo vicine non lo sono. Tutto ciò può aumentare il senso di sradicamento, ed essere molto destabilizzante.

ⓢ Il desiderio è una grande direttrice di movimento nel libro, ma diventa anche un oggetto di riflessione, in cui si innesta un discorso sul sesso. Nel capitolo in cui parli degli anni post-MeToo che hai vissuto a New York scrivi: «Viviamo nel punto più alto di una retorica della salute mentale che si ostina nel calcolo pragmatico di ciò che riguarda amicizie e partner, e invita a una confortevole mediocrità lontana dagli eccessi e dalle passioni». Adesso che sono passati degli anni da quel momento, cosa pensi rispetto al ruolo che il desiderio gioca a livello sia culturale che personale?

Appunto, credo che ci siano due aspetti diversi da considerare. Uno è proprio quello culturale, che nello specifico riguarda il MeToo e le conseguenze che ha avuto, che hanno portato il desiderio a essere messo sotto sospetto. Ma il desiderio difficilmente può allinearsi totalmente a ciò che vorresti, perciò penso si sia verificato una sorta di impulso a razionalizzare il desiderio che non credo sia stato positivo – non lo è stato in epoca vittoriana, non vedo come lo potrebbe essere ora. Dall’altra parte, per quel che riguarda un aspetto più personale, nell’epoca di cui parlo nel libro, questi dieci anni che vanno dai miei venti ai trenta, il desiderio è proprio come una forza esterna, della quale non sempre io ho avuto il controllo, per cui c’è anche una componente di immaturità in quello che mi accadeva. La crescita diventa ammettere che non si potrà mai del tutto addomesticare il desiderio, ma anche a prendere maggiormente il controllo.

ⓢ Mi colpisce molto come la politica entri nella tua narrazione: diventa un modo per rendere chiaro il contesto in cui le vicende che racconti si muovono, ma ha anche un impatto reale sui protagonisti che le attraversano. Questo sguardo giornalistico sul mondo deriva dai tuoi studi passati? E come hai amalgamato una scrittura più da reportage con quella da memoir?

In tutti questi posti che ho descritto, soprattutto per quello che riguarda il vicino Oriente o la Grecia, ma anche New York, ci sono arrivata con un intento cronachistico. Ancora avevo una visione romantica del giornalismo, e volevo scrivere delle cronache che poi nessuno all’epoca ha pubblicato. Le ho lasciate come dire in congelatore, e poi quando è sorta l’occasione del libro è arrivato il momento di recuperarle, rileggendole a posteriori, con una consapevolezza data dal tempo che è passato. Per esempio, quando vivevo a Gerusalemme e scrivevo di Gerusalemme avevo 24 anni, mentre quando mi sono ritrovata a riprendere quelle cronache per il libro ne avevo trenta. Questo mi aiuta a capire come stessi osservando il mondo a quel periodo, e crea una sorta di mescolanza di sguardi, introspettivi o meno, che tengono insieme una vicinanza e una distanza.

ⓢ Ecco, parlando di distanza e risonanza: nel capitolo che dedichi a Gerusalemme descrivi la situazione di Israele e Palestina nel 2015. Scrivi: «Poche cause offrivano un’opportunità così limpida di sentirsi importanti. Diversamente da altre miserie più recenti la Palestina aveva una sovrastruttura dedicata alla sua permanente esposizione. Una sovrastruttura che si era retro alimentata e cronicizzata,e all’interno della quale l’Europa solidale e io costituivamo elementi essenziali». Che effetto ti fa rileggere queste righe sull’attivismo europeo e più in generale su quell’esperienza di vita oggi, durante la guerra a Gaza?

Sì, quel capitolo è un capitolo molto particolare proprio alla luce delle circostanze attuali – mi riferisco al genocidio in corso. Io l’ho scritto prima (dello scoppio dell’attuale guerra, nda) e si riferisce a un’esperienza di vita di molti anni fa, anche se già nel 2015 la condizione in cui si trovavano a vivere i palestinesi era insostenibile, e lo era da tempo. E se il mio sguardo è duro nei confronti dell’attivismo europeo è perché, in fin dei conti, io ho a che fare con gli europei, con la mia gente, e quindi posso parlare di loro e criticare loro. All’epoca, quando vivevo a Gerusalemme, mi aveva colpito molto che la Cisgiordania fosse trattata come una sorta di parco divertimento per gli attivisti europei, e che le persone usassero la loro esperienza lì come un modo per definirsi progressisti una volta tornate nel proprio Paese in Europa. Va detto questo però, che questo capitolo è stato scritto prima che avvenisse quello che sta avvenendo nell’ultimo anno: se dovessi scriverlo oggi sarebbe diverso, perché oggi ci sono altre priorità di narrazione. Eppure possiamo considerarlo molto interessante proprio alla luce di questo, perché può permetterci di osservare come nell’arco di poco tempo la visione di una persona che scrive di fatti del mondo può cambiare radicalmente.

ⓢ Nel libro ritorna spesso una domanda che fai a te stessa e che poni ad altre persone: «Qual è la tua paura più grande?». Mi sembra che nell’arco dei tuoi vent’anni, quelli che racconti, una paura a cui fai spesso riferimento è quella di essere irrilevante. Cosa è cambiato nel decennio dopo, quello dei trent’anni in cui ti trovi adesso?

Sono molto contenta che la paura di essere insignificante nel tempo si sia ridotta. Era come un virus, un’auto-ossessione che mi portava a guardarmi sempre l’ombelico, a guardare sempre me stessa. Il riconoscimento di quello che facevo doveva sempre venire dagli altri. Ora non è più così: ed è stato un processo affrancatore, liberatore. Adesso è importante fare le cose per le cose in sé, e non per gli altri.