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Fauna virtuale

Nei loghi dei brand, sui social, sui siti dei giornali: perché siamo circondati da così tanti animali?

17 Luglio 2018

Sulla homepage di uno dei principali quotidiani nazionali gli occhi mi si fermano sulla notizia di Fred, «il labrador che fa il papà di nove anatroccoli abbandonati». Nella fotografia dell’articolo c’è un grosso cane con nove piccole anatre gialle in fila sulla schiena. Poco più sotto c’è la foto di un altro animale – una volpe – e il titolo: «Tenerezza in uno scatto: le foto celebrano gli animali selvatici». Parla di Ossi Saarinen, fotografo di 21 anni «star di Instagram». Chiudo il computer, prendo una sigaretta da un pacchetto con un cammello disegnato. La giacca impermeabile che mi butto sulle spalle per uscire sul balcone ha, nel logo, una piccola volpe rossa, mentre la infilo lo sguardo si ferma, per un attimo, sulla tigre tatuata sul mio avambraccio.

Nel mondo occidentale, un mondo in cui la popolazione umana è sempre più concentrata in città costantemente in espansione, le rappresentazioni animali sono onnipresenti. Viviamo circondati da una fauna virtuale e silenziosa da quando veniamo al mondo e continuiamo a esserlo nel corso di tutta la vita: i giochi per bambini, i pupazzi di finto pelo, i cartoni animati, e i loghi di migliaia e migliaia di prodotti e società i cui servizi utilizziamo ogni giorno. Per non parlare di quell’altra realtà che chiamiamo internet. Uno studio pubblicato nell’aprile 2018 da PLOS Biology ha compilato una lista dei dieci “animali più carismatici” al mondo, ovvero i più presenti nell’immaginario popolare, online e off line. Le dieci specie sono: tigre, leone, elefante (africano), giraffa, leopardo, panda, ghepardo, orso polare, lupo, gorilla. Prendo la tigre, ad esempio: è la mascotte di un tipo di cereali glassati, il logo di una casa di moda francese, il nome di una marca di scarpe, il simbolo di una birra indiana, lo stemma di una squadra di calcio inglese. È, secondo lo studio, il primo della lista, il più presente nella fauna immaginaria dell’uomo. Si potrebbe dire che alla domanda “nomina un animale” la maggior parte delle persone risponderebbe, d’istinto: tigre! Quante tigri ci sono davvero, però, sull’intero pianeta Terra? Poche: meno di quattromila. È meno della capienza di un singolo spicchio del terzo anello dello stadio di San Siro, a Milano. Provo a visualizzare l’immagine: uno stadio vuoto, tranne che per un pezzetto di balconata, quella nascosta più in alto, quella più piccola di tutte. È lì che sono concentrate tutte le tigri del mondo.

Lo scopo dello studio di PLOS Biology era mostrare che tanto più gli animali sono “famosi”, quanto più diamo per scontata la loro abbondanza in natura – con gravi conseguenze. Dei dieci animali più carismatici, in realtà, soltanto il lupo non si trova al momento a rischio estinzione. Il numero di pupazzi “Sophie la girafe” venduti in Francia soltanto nel 2010 è di otto volte superiore al numero delle giraffe realmente in vita nel continente africano, e lo stesso processo è stato notato dal giornalista Jon Mooallem (che si occupa di natura e animali sul New York Times) nel suo libro Wild Ones. In questo caso è legato agli orsi polari: scelti come animale totemico del cambiamento climatico nel Dopoguerra, la loro presenza si è diffusa a tal punto da coprire il messaggio originale. «Siamo diventati così ipnotizzati e catturati dal carisma dell’orso polare, che si è persa di vista la gravità della sua situazione attuale», scrive.

Mooallem, nel libro, viaggia a Churchill, in Canada, conosciuta come la “capitale degli orsi polari”, e da lì osserva un cambiamento radicale avvenuto nella nostra percezione della natura – soprattutto faunistica – che ci rende estremamente complesso rapportarci a lei: «I primi turisti da orso polare iniziarono ad arrivare a Chruchill trent’anni fa per ammirare una bestia sanguinaria e assassina. Ora vengono a guardare una vittima, delicata e in pericolo». Fu proprio l’orso uno dei primi animali a essere trasformati dall’uomo in un avatar astratto: nel 1902, durante una battuta di caccia, l’allora presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt si rifiutò di sparare a un orso bruno che era stato profondamente ferito dai cani, era impossibilitato a muoversi ed era stato già, da un assistente cacciatore, legato a un albero. Non sarebbe stato sportivo, disse Roosevelt, che ordinò di uccidere comunque l’animale per terminarne l’agonia. Il giorno dopo i quotidiani presero a parlare dell’episodio, che venne anche ritratto dal disegnatore satirico Clifford Berryman nella vignetta “Drawing the line in Mississippi”. L’orso disegnato era piccolo e buffo, ed ebbe un grande successo di lettori. Di lì a poco, il giocattolaio Morris Michtom fece produrre un orsetto di pezza e lo espose nella vetrina del proprio negozio con la targa “Teddy’s bear”. L’idea, negli anni successivi, ebbe una certa fortuna.

La domanda è semplice: perché siamo circondati da immagini di animali, e perché ne siamo così affascinati? La risposta, purtroppo, non è netta – o meglio, non sembra essercene una completamente soddisfacente. Di recente, Adelphi ha lanciato una nuova collana dedicata alla divulgazione scientifica chiamata “Animalia”. Matteo Codignola, editore, mi spiega: «Negli ultimi tempi si scrivono moltissimi libri sugli animali, molto diversi da quelli cui ci eravamo abituati negli anni d’oro dell’etologia. L’angolazione è cambiata, e quella di oggi è meno visibile, meno definibile: dall’esterno, e su un piano formale, questi nuovi libri sono abbastanza vicini a quelli che mettiamo ormai d’ufficio sullo scaffale della narrativa non-fiction, tanto per intenderci. Ma la differenza è che in quel caso – in quegli infiniti casi – ogni libro fa più o meno storia a sé, mentre qui quasi tutti gli studi, le ricerche, i casi tentano di fornire un qualche tipo di risposta – anche parziale naturalmente, anche minima – alla domanda che attualmente risposte non ha in nessun campo: che cosa sia cioè la coscienza, e se (in questo caso) sia da considerare qualcosa di esclusiva pertinenza del Sapiens. Molto fa pensare di sì, naturalmente, e quasi altrettanto di no: niente esclude, anzi, parecchio suggerisce, che gli animali, e più ancora le macchine che stiamo per costruire, ne siano dotati. L’incertezza, però, è assoluta, e gli interrogativi tanto urgenti quanto irrisolti: il che dà a questo genere di indagini una temperatura decisamente alta, da qualsiasi punto di vista».

La ricerca di una coscienza animale è la base del primo libro uscito in “Animalia”, Al di là delle parole di Carl Safina, e come dice Codignola è qualcosa di nuovo: Safina non osserva o indaga, per dire, l’organizzazione logistica con cui un gruppo di animali si sposta per cercare il cibo, ma la loro capacità di provare emozioni come gioia, rabbia, noia, euforia. Guarda o prova a guardare per la prima volta gli animali come noi stessi – noi uomini – guardiamo i nostri simili. «L’uomo guarda [l’animale]», scriveva John Berger nel saggio Perché guardiamo gli animali?, «sempre attraverso la propria ignoranza e la propria paura». È forse questo il paradigma che sta cambiando, e forse non è casuale che cambi mentre, come dice Codignola, la nostra specie sta creando altre intelligenze su cui siamo ancora – fuori da pochissimi tecnici – più ignoranti, ancora più paurosi. Cerchiamo di conoscere meglio quello che abbiamo sempre ignorato, ora che è concreta la prospettiva di essere circondati da inquietanti quadrupedi meccanici senza testa come quelli progettati da Boston Dynamics? È una risposta.

Naturalmente, si sente forte il suono anche dell’altra campana: quella di un ritorno alla natura, dopo secoli di guerra (unilaterale) tra l’uomo e le altre specie animali, in senso sia fisico, ovvero stermini e distruzione e rimodellamento di habitat, che culturale. La distruzione degli animali si fonda sulla premessa che l’uomo sia “qualcosa di più”, un essere sacro – secondo il cristianesimo dotato di anima, a differenza delle altre specie. Il darwinismo è stata poi la dinamite che ha innescato le prime fratture nella montagna, che sono proseguite nei decenni successivi. «Più che una reazione alla perdita della natura, mi sembra interessante vedere in questo processo qualcosa di nuovo», mi dice Emanuele Coccia, filosofo e professore presso la École des hautes études en sciences sociales di Parigi. «Il capitalismo ha costretto a pensare il sociale e il politico al di là dello Stato, e dovendo pensare la convivenza oltre lo Stato gli individui recuperano forme totemiche, nel senso inteso da Lévi-Strauss». Aggiunge: «L’unico filosofo ad aver legato immediatamente l’immaginario politico e quello animale è stato Hobbes, il padre dell’immaginario liberalista».

L’ecologia, in fondo, nasce con il capitalismo – si legga a proposito la memorabile vita di Alexander von Humboldt raccontata da Andrea Wulf in L’invenzione della natura (Luiss University Press) – anzi, come dice ancora Coccia, «l’ecologia nasce con l’economia: prima di chiamarsi così, si chiamava economia animale». Tuttavia, la spinta coloniale ha, per secoli, schiacciato ogni velleità di conservazione. Oggi, al contrario, sono i mezzi di comunicazione figli della globalizzazione a concentrarsi di nuovo sugli animali: con internet, i meme, i gattini e i cagnolini, da un lato – un lato poco virtuoso e anzi potenzialmente dannoso – e soprattutto con serie tv come Planet Earth e Blue Planet (produzione Bbc), i cui secondi capitoli, usciti negli ultimi due anni, hanno ricevuto un’attenzione unica nella storia dei documentari, e sono stati girati con mezzi all’avanguardia non soltanto per il cinema, ma anche per la ricerca scientifica: qui, la spettacolarizzazione della vita di ghepardi, tartarughe, orche e delfini si accompagna – ed è propedeutica – alla conservazione delle specie in pericolo.

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