Oggi arriva su Disney+ l'ultimo episodio della prima stagione della serie creata e diretta da Tony Gilroy, che in dodici puntate ha portato la saga dove nessuno aveva mai osato prima.
È possibile che Tony Gilroy non avesse nessuna delle intenzioni che poi gli sono state attribuite, quando ha iniziato a scrivere Andor. Lui quelle intenzioni le ha negate, e ci mancherebbe altro: come Shakespeare, Gilroy vive nel mondo del re, non può certo rischiare che il re sospetti che è di lui che si sta parlando (male), quindi le sue storie le deve ambientare in posti lontani e in tempi imprecisati. D’altronde, Andor è una proprietà intellettuale che fa parte dell’infinito patrimonio Disney, multinazionale che del re ha un’opinione molto precisa, molto positiva e soprattutto molto nota ai suoi dipendenti.
Andor è il prequel di Rogue One, film uscito nel 2016 che fu subito visto come una metafora degli Stati Uniti della prima amministrazione Trump. Due sceneggiatori che contribuirono alla scrittura di quel film confermarono questa interpretazione: «L’Impero è un’organizzazione di suprematisti bianchi», scrisse Chris Weitz su Twitter. «Il suo avversario è un gruppo multiculturale guidato da donne coraggiose», aggiunse Gary Whitta. Bob Iger, ieri come oggi Ceo di Disney, non era affatto d’accordo: «Questo è un film che tutti possono godersi. Non è un film politico, in nessun modo», disse. Chi ha avuto la meglio in questa discussione è facile immaginarlo. Chi avesse ragione, pure.
Revolutionary Road
Chissà se Iger ha mai visto Andor. Probabilmente no, le serie tv non le guarda più nessuno ormai, nemmeno i Ceo delle aziende che ci mettono i soldi (e tanti, in questo caso: Disney ha speso 650 milioni di dollari). Magari Andor Iger l’ha vista e non ne ha mai parlato perché negare l’essenza politica di questa serie è davvero impossibile. Gilroy stesso ha ammesso che le sue ispirazioni quelle sono: la Rivoluzione d’ottobre, quella haitiana, il Congresso Nazionale Africano, la storia palestinese. Il filo si vede chiaramente: schiavitù, colonialismo, oppressione, fascismo, ribellione, rivoluzione, il ribelle che in ogni contrada trova la sua patria. La storia è ciclica, ha ripetuto un sibillino Gilroy in tante interviste, si ripete la prima volta come tragedia e la seconda come farsa. E cosa c’è di più farsesco di una serie ambientata nell’universo di Star Wars.
Probabilmente Andor Iger l’ha vista ma, da vecchia volpe qual è, avrà pensato bene di non dirne nulla, né di bene né di male, per evitare che troppe persone venissero a sapere della sua esistenza. Una strategia che di solito paga ma che stavolta non ha funzionato: dopo una prima stagione che ha incantato i pochi, troppo pochi che l’hanno vista, la seconda e ultima stagione di Andor è andata oltre i confini dell’escapismo nerd ed è finita nel mondo reale. Ovviamente, ci è riuscita quando più persone, tante persone si sono accorte che Andor parla di altro.
In Andor non ci sono Jedi né Sith, non si vedono spade laser né viene menzionata la Forza. Se non stesse nella sezione Star Wars della home di Disney+, uno spettatore qualsiasi potrebbe non accorgersi che la storia è ambientata lì: tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana può voler dire qualsiasi cosa (appunto). Anzi, in certi momenti lo spettatore casuale potrebbe essere tratto in inganno e pensare che la storia è ambientata qui, adesso. Il mondo di Andor è un mondo dominato da un fascismo che ha ormai gettato la maschera e rivelato il suo volto mostruoso. Un fascismo che ormai agisce spudoratamente, certo dell’impunità dei suoi, della vigliaccheria di troppi, della paura di tutti. Un fascismo così certo dell’onnipotenza della sua propaganda da essersi convinto che la realtà sia solo una delle tantissime decisioni che gli spetta prendere. Siamo sicuri di essere sempre tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana?
Star Wars è sempre stata politica
Andor è una serie politica, per questo non ha neanche tanta importanza che sia una serie bella o brutta. È stata entrambe le cose, in realtà: una prima stagione mirabile, una seconda trascurabile, sequenze che avrebbero meritato uno schermo immenso, altre che sarebbero state bene nel cestino delle cartacce di un editor severo. Ma nessun discorso estetico o drammaturgico ha importanza, a questo punto, perché Andor è diventata più di se stessa. Se è vero che viviamo nell’epoca dell’iperpolitica – quella in cui facciamo finta che i meme siano politica, e i vestiti lo siano, e le celebrity e i trend – è vero che l’incontro con un’opera davvero politica produce inevitabilmente un effetto straniante.
Quando uscì la prima stagione di Andor, tanti si chiedevano come fosse possibile che Guerre stellari sembrasse così realistico, che vedendola venisse da pensare a Putin e Zelensky e all’Ucraina (o a qualsiasi guerra un Paese imperialista abbia mai mosso e mai muoverà) invece che a Darth Vader e Luke Skywalker e la battaglia di Yavin. Per i filologi di Star Wars, Andor è stato il punto di arrivo inevitabile di una saga che è sempre stata politica, che è nata politica, che se nell’ultimo decennio ha perso tutta la rilevanza culturale che aveva è proprio perché la multinazionale che se l’è comprata ha pensato che della politica questa saga potesse, dovesse fare a meno.
Ma non basta una mitologia in perenne espansione a far vivere per sempre un mito. Un mito vive di eroi e gli eroi di Star Wars sono i ribelli e i ribelli sono politici. Con Andor, Gilroy ha dimostrato di capire davvero cosa sia stato Star Wars e cosa ne volesse fare (almeno all’inizio, prima di capire che ci poteva fare soprattutto i soldi) George Lucas. Di Lucas si possono pensare tante cose, molte pessime, ma non si può negare che sia stato (anche) un giovane artista, formatosi nella controcultura losangelina degli anni Sessanta, imbevuto delle idee radicali che contraddistinguevano quel tempo e quel luogo. A chi ha avuto orecchie per ascoltarlo, Lucas ha sempre detto che Star Wars poteva, doveva essere una di due cose per forza: una saga famigliare (le gioie e i dolori degli Skywalker) o una metafora politica.
Non ha mai nascosto di essersi ispirato ai vietcong mentre immaginava i suoi ribelli. Nella sceneggiatura di Una nuova speranza, descriveva gli imperiali come sgherri nixoniani. Nella trilogia prequel, metteva in bocca a un Anakin sprofondato nel lato oscuro una frase ispirata dall’allora Presidente degli Stati Uniti George W. Bush sprofondato nella guerra al terrorismo: «You are either with us, or against us», diceva il giovane Bush. «If you’re not with me, then you’re my enemy», diceva il giovane Darth Vader (soltanto un Sith vive di assoluti). Nello stesso film, La vendetta dei Sith, Lucas ha lasciato una frase alla quale penso spessissimo in questi tempi: commentando l’osannata trasformazione della Repubblica in Impero, una sconfortata senatrice Padme Amidala dice «È così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi».
Dall’Ucraina a Gaza
Star Wars è sempre stato politico, dunque. Se non è sempre stato inteso come tale è semplicemente perché è una saga cinematografica iniziata quando al cinema ci andavano ancora i bambini e i ragazzini, era a loro che bisognava vendere i biglietti e di certo i biglietti non si sarebbero venduti parlando di vietcong. Più di 50 anni dopo, Star Wars non lo guardano i bambini e i ragazzini (che al cinema ci vanno poco e le serie tv manco sa che esistono ancora) ma adulti che hanno smesso di capire il mondo, gente di mezza età che nella cultura ormai cerca molto di più conforto che senso. Questo fatto ha permesso a Gilroy di fare quello che nemmeno Lucas ha mai avuto il coraggio (né il desiderio) di fare: Star Wars senza l’assillo del commercio, senza i pupazzetti da vendere alla prossima generazione né le rassicurazioni da fornire alla vecchia. Andor è Star Wars per chi bambino non lo è più, per chi è ormai troppo vecchio per scappare dalla realtà e non può più fingere che esistano mondi lontani e tempi remoti, per chi ha il dovere di cedere ai suoi figli il diritto all’escapismo.
Nel 2022, la prima stagione della serie fu presa come una metafora della guerra in Ucraina. Tre anni dopo, guardandola non si può che pensare alla Striscia di Gaza. Nel nono episodio della seconda stagione, intitolato “Welcome to the Rebellion”, la senatrice dell’Impero e leader segreta della Ribellione Mon Mothma pronuncia questo discorso: «Ci troviamo di fronte a una crisi. La distanza tra ciò che si dice e quello che sappiamo vero si è tramutata in un abisso. Di tutte le cose a rischio, la perdita di una realtà oggettiva forse è quella maggiormente pericolosa. La morte della verità è la vittoria definitiva del male. Quando la verità ci abbandona, quando la lasciamo scivolare via, quando ci viene strappata dalle mani, diventiamo vulnerabili all’appetito di qualsiasi mostro urli più forte. Ciò che abbiamo visto ieri su Ghorman è stato un immotivato genocidio! Sì, un genocidio! E questa stessa aula ha rigettato questa verità mostruosa. E chi è il mostro che sta urlando più forte ora? Il mostro che abbiamo contribuito a creare? Il mostro che verrà a prendere tutti noi tra non molto».
Gilroy ha detto che questo discorso non ha nulla a che vedere con l’attualità, che lo ha scritto prima che tutto succedesse, che Ghorman non è un altro modo di scrivere Gaza, che è solo un nome inventato per un pianeta che non esiste in cui un malvagio di fantasia ha ordinato un massacro che non è avvenuto davvero. Che Andor non parla di noi e del nostro mondo, ma soltanto di quello che è successo tanto tempo fa in una galassia lontana lontana.

Quarant'anni dopo l'unico concerto della band in Italia, al Tendastrisce di Roma, è uscito un libro, Questa notte mi ha aperto gli occhi, su quell'irripetibile notte. Roberto Carvelli, l'autore, racconta i suoi ricordi di quell'evento.