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Amare Milano, nonostante tutto

È vero, la città affronta un momento delicato, l'onda lunga dell'Expo è finita e il costo delle case continua a salire: ma i motivi per restare sono ancora molti, di più di quelli per andare via.

di Lorenzo Camerini

Quindi pare che adesso vada un po’ di moda strapazzare la cara, vecchia Milano. Forse tutto è iniziato con l’allarme sicurezza lanciato da Chiara Ferragni. Poi abbiamo letto con stupore la storia della bidella pendolare. La settimana scorsa qui su Studio Anna Momigliano ci ha raccontato che Milano inizia a essere odiata anche dai milanesi. Sul Foglio Michele Masneri si è chiesto se «Milano è diventata un brand di lusso che i milanesi non possono più permettersi». Selvaggia Lucarelli è scatenata, due articoli sul Fatto Quotidiano e un post su Instagram con pioggia di commenti in cui dice di non amare più la città ma di volerle solo bene. Anche il Corriere della Sera è intervenuto nel dibattito. Se su Twitter denunci i difetti di Milano raggiungi agilmente la quadrupla cifra di like. Io personalmente non sono molto d’accordo. È vero non è il momento migliore per Milano, che stava attraversando il suo momento migliore degli ultimi trent’anni prima di essere sconquassata dal Covid. È vero la pandemia ha avuto moltissime ripercussioni ma non ha lasciato una città agonizzante come viene raccontata in questi giorni, trasfigurata da un capitalismo senza scrupoli che spinge la classe media a fuggire, manco fossimo in un film di Terry Gilliam. Prima di essere crocifisso sui social, provo a spiegarmi.

Come eravamo? Mai simpaticissimi. Degli anni Ottanta è rimasta la Milano da bere, che al suo meglio portava Andy Warhol al Plastic e Keith Haring da Fiorucci, ma che in fondo ricordiamo soprattutto per Craxi, i paninari e Milano-Cortina in due giri di Rolex. Intanto il debito pubblico si accumulava. Poi i Novanta, Tangentopoli, il berlusconismo, Mediaset, la pubblicità, lavoro-guadagno-pago-pretendo. Che vergogna, che fatica. Il fondo si è toccato negli anni Zero, il punto più cupo, apogeo di tre decenni di sfottò (“avete solo la nebbia”, “uè figa c’ho il suv”). Traffico, smog, sporcizia, cafonaggine, macchine in doppia fila dappertutto, l’accento irritante: la nostra reputazione era sforacchiata. La Darsena, punto di incontro in centro città del Naviglio Pavese e del Naviglio Grande, pareva una discarica a cielo aperto. In via Gola e in zona Isola c’era da aver paura a girare dopo cena.

Ci eravamo rassegnati alle prese in giro e alla reputazione di città dove si viene solo per lavorare, quando c’è stata la svolta. Ha una data simbolica: le elezioni comunali del 2011, le biciclettate arancioni per Pisapia, “Tutta mia la città”, “vai Giuliano libera Milano”. Dopo un’infinita processione di amministrazioni di destra, Pisapia è stato eletto a sorpresa sindaco. Lì è nata un’energia che si riverbera ancora oggi, l’era egemonica del Partito democratico che vince in città dopo secoli di centro-destra. Partendo dalle basi, la moda e il design, abbiamo diversificato le nostre attività. Expo, Bosco Verticale, le infinite week: Milano si è presa la corona di capitale italiana della cultura, l’incremento demografico è costante dal 2012, il bilocale comprato in città al figlio è diventato uno degli investimenti più sicuri per i genitori di tutta Italia, Beppe Sala sembrava destinato a una carriera scintillante nella politica nazionale.

Bei tempi, che sembrano ormai lontani. C’è una data simbolica anche per la fine del decennio d’oro: febbraio 2020, Milano non si ferma, la birretta di Beppe Sala e Alessandro Cattelan in Galleria, i video lisergici di Gallera e Fontana. Abbiamo iniziato a lavorare da casa, e ci siamo chiesti se valesse la pena spendere tutti i giorni 9 euro per un’insalata con tonno in scatoletta. Molti locali hanno chiuso, e quelli rimasti hanno aumentato i prezzi. È scoppiata anche una guerra in Europa, con conseguenze non lievi sui prezzi dei generi di primo consumo. Inflazione, recessione: evidentemente la povertà non era stata sconfitta. Nei nostri giudizi sull’operato di Beppe Sala ha iniziato a pesare un cicinin la foto che lo ritrae vanitosissimo mentre si rilassa nel salotto di casa sua, leggendo il libro scritto da lui medesimo e con il suo faccione in copertina. Adesso il sindaco è diventato anche podcaster, e tutte queste week iniziano a stare un po’ sulle palle. Insomma, è finita la luna di miele, sono tornate le critiche.

Proviamo ad affrontarle. Conosciamo la contestazione principale: gli affitti sono carissimi. È vero. Molti convivono a età non più consone, i single soffrono, certi proprietari se ne approfittano. Però, insomma, spesso si esagera con il sensazionalismo, postando uno screenshot della casa più cara sul mercato immobiliare milanese e presentandola come la norma. Non sono analisi oneste del costo degli affitti in città. Certo, trovare casa a Milano è spesso un’esperienza scoraggiante: anticipi, garanzie, tentativi di truffa. Invito però a cercare su un qualsiasi sito internet case in affitto a Milano con tetto massimo di 700-800 euro al mese. Ce ne sono, e non sono tutti tuguri dickensiani, magari sono più periferiche, questo sì. Io vivo in una di queste. È vero, il costo del biglietto per i mezzi pubblici è aumentato di venti centesimi, e le corse sono state un po’ tagliate. Non sembra una decisione saggia, per un’amministrazione che ha promesso ai suoi elettori di puntare sulla mobilità sostenibile. L’aria sporca. Le code in circonvallazione. I drink a dodici euro. I monopattini elettrici sui marciapiedi. Tutto vero.

Però, e lo dico a bassa voce, ci stiamo facendo prendere un po’ troppo la mano con le critiche, forse come reazione al decennio di esaltazione costante. Certo, se vai a mangiare la cotoletta in Corso Garibaldi e poi a ballare al Just Cavalli puoi spendere facilmente duecento euro in una sera, e sei anche un po’ pirla. È anche vero che esistono decine di trattorie sincere e dozzine di svaghi gratuiti. Milano è più simile a Roma che a Oslo, d’accordo, ma rimane la città più multietnica d’Italia. Qua vivono duecentocinquantamila stranieri, circa il venti per cento della popolazione. È la città europea con più consolati esteri. Ha una fermata della metro dedicata alla comunità Lgbtq (e non è solo una fermata della metro).  Ha fondazioni e gallerie d’arte con un’offerta culturale incessante. Milano è piccola e pianeggiante e ci sono bici in affitto a ogni angolo per pochi spiccioli e il viaggio a pedali più lungo dura quaranta minuti. Ci sono dozzine di biblioteche, cinema. Quasi cinquanta teatri. Una settantina di parchi. La metropolitana per l’aeroporto. È ancora il posto dove un talento senza santi in paradiso può fare – scusate la brutta parola – “carriera”. E, senza pubblicizzarsi troppo, la Milan con il coeur in man vigila sui figli più fragili: i City Angels, le mense, le ronde e l’assistenza medica per i senzatetto, i corsi di italiano gratuiti per gli stranieri, le associazioni che offrono protezione legale ai rifugiati, l’assegnazione di case popolari aumentata del 14 per cento nell’ultimo anno, la rivista Scarp de’ Tenis, e potrei andare avanti ancora a lungo.

Detto questo, Milano può non piacere? Certo che sì. È una città in declino, che respinge i poveri? No. Almeno, non più della media. Londra si è sciupata con la Brexit, San Francisco è sfigurata da Airbnb e dal boom delle aziende tecnologiche, dopo il Covid i grattacieli a New York sono vuoti dal venerdì al lunedì. Del mercato immobiliare di Parigi non ne parliamo. Non è un periodo facile per nessuno. Certo, non è più la Milano di Jannacci, Strehler, del Derby, di Simonetta, questo lo so anch’io. Ma non credo che molti farebbero cambio con la vita di Bianciardi e della cricca del Bar Jamaica, con i bagni in comune sul pianerottolo di ringhiera e la difficoltà nel mettere in tavola due porzioni di rigatoni al giorno. Se Milano è davvero in declino, suggerirei di fare qualcosa per fermarlo. Le città, in fondo, sono plasmate dai loro abitanti. Per una volta, non chiediamoci che cosa può fare Milano per noi, chiediamoci che cosa possiamo fare noi per lei. Partecipare alla Critical Mass, manifestazione in bicicletta che blocca il traffico ogni giovedì sera, non dare soldi a posti dove chiedono trenta euro per una cotoletta o dodici euro per un drink, dedicare un’ora alla settimana a un’attività di volontariato, per esempio. Poi, se il prezzo delle case continuerà a salire, e diventerà impossibile per davvero affittare un monolocale ad Affori per meno di mille euro al mese, allora ce ne andremo tutti quanti in campagna a vedere l’effetto che fa, sconfitti, rimpiangendo i bei tempi andati sotto alla Madonnina.