Intervista alla scrittrice in occasione dell'uscita del suo nuovo romanzo, risultato di tre anni e mezzo di conversazioni con il boss Peppe Misso, con cui Ciabatti ha parlato di carcere, guerre di camorra, plastiche facciali e avvistamenti di Ufo.
Parlare de Lo sbilico, il nuovo libro di Alcide Pierantozzi appena uscito per Einaudi, è fare filologia di un lungo atto dove carnefice e vittima sono una sola persona: l’autore, precisamente un quarantenne, uomo geniale e fragilissimo che racconta la sua quotidianità non comune, vissuta all’ombra di un disturbo psichiatrico. Fra blister, sostanze, pasticche, referti e visite di controllo, dentro un’infinità di sintomi e reazioni, chi legge è gettato nel cannibalismo della psiche umana, scaraventato nella sua fornace annullante, messo faccia a faccia con la supremazia della mente; chi legge capisce subito di non stare davanti a un organo qualsiasi, piuttosto si sta documentando su una specie di ordigno, meglio ancora una guerra, un uragano intracorporeo con cui però Alcide Pierantozzi riesce a fare i conti, con il quale perfino dialoga, estraendone le convulsioni che rende poi in conversazioni, selezionandone i picchi e traslandoli in narrativa.
ⓢ In che modo definiresti questo tuo ultimo lavoro? Non è autofiction, come spieghi nei ringraziamenti, e nemmeno invenzione integrale.
Ho scritto ricoprendo tre incarichi: quello dell’invasato che tira fuori tutto da sé stesso, quello dell’interprete razionale che prova a tradurlo, e quello di un altro interprete che litiga col primo. Sono diventato il filosofo della mia follia, e per farlo non ho potuto inventare niente – tranne, a un certo punto, le montagne innevate a Carpi. L’ho fatto apposta, come a dire: guardate che tutto il resto è vero! Non lo definirei un romanzo, forse è una testimonianza, o forse una deposizione scritta per un giudice che vorrei mi aiutasse a capire cosa mi succede. O addirittura un modo per provare a capirci qualcosa da solo, per tracciare mappe, per ricomporre i passaggi che mi hanno portato alla malattia.
ⓢ Perché riflettere su tutto questo adesso e non prima?
Sono stato così male che non avrei potuto scrivere altro. Lasciare Milano è stato il dolore più grande e la spinta per raccontare. Ci ho messo molto tempo a guardare in faccia i miei problemi, ma soprattutto è solo negli ultimi cinque anni che la terapia è così massiccia da giustificare il resoconto della mia esperienza.
ⓢ Nelle prime pagine parli di tua madre e del suo tumore, creando una correlazione col tuo disturbo. Quella malattia, così totalizzante e feroce, è come se riguardasse da vicino anche te, come se lottassi anche tu con un cancro da cui non si sfugge.
Lo psichiatra mi dice sempre che il corpo umano ha due modi per impazzire: o quello cellulare o quello psichico. A un certo punto il corpo capisce che non ce la fa più a resistere, a sopportare la vita, così sceglie una delle due strade per autoeliminarsi. Quando mia madre si è ammalata, ormai più di dieci anni fa, era il periodo in cui i miei disturbi stavano raggiungendo per altre vie il loro apice. Avevo meno di trent’anni e quello è un momento in cui il cervello dei maschi cambia. La malattia di mia madre mi ha colpito in una fase in cui si stava schiudendo anche la mia, mi ha sorpreso con le spalle al muro.
ⓢ Lo sbilico si apre con una citazione in esergo di Joker, romanzo di Todd Phillips. Cos’hai da spartire di più intimo con quel personaggio e con quella storia?
È una frase che il Joker scrive nel suo quaderno: «La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi». Io non la considero la parte peggiore, ma è abbastanza chiaro che viviamo in un mondo che non ha nessun rispetto verso i disturbi psichiatrici. Personalmente, mi sento meno ferito quando mi danno del “frocio”. Tornando al Joker, hai presente il pianto-risata di Joaquin Phoenix nel film? Ecco, il mio libro vorrebbe essere quella cosa là. Quello è lo sbilico: il punto di passaggio tra la disperazione e l’euforia dovuta alla possibilità che se ne possa uscire. La malattia mentale, mentre ti fa a pezzi, ti dice anche: guarda che io potrei essere un inganno.
ⓢ Nella narrazione mischi con grande maestria momenti più “tecnici”, dati da descrizioni del tuo percorso curativo, e altri più introspettivi. Come hai calibrato questi due aspetti?
L’unico ragionamento che ho fatto del libro è stato: come riesco a comunicare con chi fa una terapia simile alla mia? Con un libro così non puoi fingere, e io sono andato avanti molto d’istinto. Il libro non dà risposte, mi serve a continuare l’indagine, perché solo i pazienti che lo leggeranno potranno confermarmi se provano o no le stesse cose. Per quanto riguarda i momenti tecnici, ho riportato le mie cartelle cliniche quasi alla lettera, ma per me è stato più crudo descrivere i meccanismi della psicosi e le dispercezioni sensoriali.
ⓢ Capita poi che inserisci qualche puntello ironico, poche battute capaci di far riprendere fiato ai lettori. Questa tecnica ha aiutato anche te su un altro piano? Fotografare la malattia sotto quella luce la rende forse più gestibile, persino più amichevole?
A volte mi diverto a prenderla un po’ in giro, o a parlarci. Ormai ho capito che quando mi arrivano certi pensieri, o voci nella testa, una parte della malattia vuole distrarmi dalla presa di coscienza di altre cose probabilmente peggiori. Stamattina ho avuto una crisi molto forte pensando di avere un tumore alla schiena, e questo mi ha impedito di concentrarmi sull’ansia per il libro appena uscito. Chi soffre molto nella propria interiorità conosce bene certi rari momenti di pausa dalla sofferenza, anche la più insostenibile, dove è possibile farsi una risata.
ⓢ Ritorniamo su tua madre, il personaggio più importante del tuo racconto oltre a te, il protagonista: lei è una figura così forte che pare duellare con la tua malattia.
Confermo. Mia madre è stata l’unica a duellare davvero con la mia malattia, che a volte chiama ancora “il demonio”.
ⓢ Si può dire che il disturbo psichiatrico è per te così imprescindibile e determinante da essere definibile come materno?
La malattia psichiatrica è una madre. Anzi: è anche una madre, che ha in sé qualcosa di protettivo, una sorta di salvaguardia mascherata. La domanda è sempre la stessa: la psiche è determinata dalla carne del cervello o il cervello è solo un pannello di controllo per la psiche? In questo senso è certamente una madre che ci onniavvolge.
ⓢ Mentre tutti i medici che ti hanno seguito finora? Se quella che stai vivendo fosse una fiaba e tu fossi l’eroe, loro sarebbero più antagonisti o aiutanti? O entrambe le cose?
Aiutanti, ci mancherebbe altro. È vero che nel libro li maltratto un po’, ma spero si capisca che senza il loro aiuto sarei morto.
ⓢ Ultima domanda: quali autori ti sono stati d’aiuto?
Sicuramente Zanzotto, Magrelli e Cavalli, che sono la mia settimana enigmistica quando sto male: li leggo, analizzo i versi, i sintagmi, e il mio cervello si acquieta. Per scrivere la parte intitolata Apocalisse degli animali ho studiato l’uso dell’infinito sostantivato di Pavese, lì c’è qualcosa di magico. Ma il riferimento più importante è senza dubbio David Foster Wallace, Infinite jest, nella traduzione di Edoardo Nesi.

Con la Palma d’Oro a It was Just an Accident diventa il secondo regista, dopo Michelangelo Antonioni, a vincere tutti i grandi festival europei. Un traguardo incredibile, soprattutto per un uomo che da 30 anni sopravvive a censura, repressioni, incarcerazioni.