Cultura | Letteratura

Alberto Arbasino

Il periodo americano, gli incontri con Pasolini, il rapporto con Moravia, la vita culturale, l'Italia: il meglio delle interviste di Alberto Arbasino, che oggi compie 84 anni.

di Giuseppe Rizzo

La prima Frankenstein Interview è dedicata ad Alberto Arbasino, che oggi compie 84 anni. Le abbiamo chiamate Frankenstein per un motivo semplice: sono composte da decine di pezzi di decine di diverse interviste, vecchie e nuove, ripescate dagli archivi dei giornali e del web, smontate e rimontate e riscritte per noi da Giuseppe Rizzo. Ogni domanda modificata, è modificata a fin di bene.

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Alberto Arbasino è uno stronzo. Oppure no. Alberto Arbasino è un genio. Oppure no. Alberto Arbasino è: il più grande stronzo geniale leggerino provinciale complesso cosmopolita narciso moralista vago vecchio chirurgico snob scrittore pop italiano. A seconda che siate un guelfo o un ghibellino (eterna divisione nazionale) potete cancellare gli aggettivi che vi piacciono meno. Li ho incontrati passando in rassegna molto del materiale pubblicato su Arbasino dalla pubblicazione del suo primo libro, Le piccole vacanze (1957), fino al suo ultimo, Pensieri selvaggi a Buenos Aires (2012).

Al netto del rosario di incensi e pidocchierie resta questo autoritratto inserito nell’Autodizionario degli scrittori italiani (1989): A. A. è un «self-made man d’origini decadenti (nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere “come se”. Cioè, come se abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita, di spiriti forti…».

Resta questo, e le domande e le risposte che seguono (le prime sono state riscritte usando la seconda persona singolare, essendo la formula più utilizzata dagli intervistatori). Caratteri: 21,500. Interviste lette: 40. Arco di tempo: dal 1965 al 2013. Tra le fonti: la Repubblica, Corriere della Sera, l’Unità, La Stampa, Il Sole 24 Ore, IL, Alfabeta2, Vogue, Il Venerdì, Il Fatto Quotidiano, Il Giornale. Tra le firme: Alessandro Piperno, Antonio Gnoli, Gabriele Pedullà, Nello Ajello, Francesco Pacifico, Sandra Petrignani, Malcom Pagani.

Come pensavi che saresti stato ottantenne?
Non ho mai fatto previsioni di questo tipo. Quando ero bambino o adolescente, era difficile immaginare di raggiungere un’età come la mia attuale. (La Stampa)

Angelo Guglielmi sostiene che sei il più grande scrittore italiano vivente.
Il più grande non so. Uno dei più vecchi sicuramente. (La Recherche)

Assicura anche che tu possa essere molto antipatico.
È vero. Con chi mi rompe le palle sono antipaticissimo. (ibidem)

Hai iniziato a scrivere già durante la guerra?
No, dopo la guerra. Le piccole vacanze sono uscite nel cinquantasette, Calvino l’ha pubblicato, è stato il mio primo libro. Però erano racconti scritti da un anno o due circa. Prima avevo scritto un po’ di poesie che sono quelle poi raccolte in Matinée… In verità è successo che volevo, ormai stufo da anni e anni di neorealismo postbellico, esemplato sulle brutte traduzioni degli americani, tutti quei disse… allora io nelle Piccole Vacanze, nel primo racconto, si dice che adagio adagio era finita la guerra, e questo adagio adagio è finita la guerra dice proprio il contrario perché non era adagio adagio: era morte, fame… Perché facendo finta di parlare di vacanze, di estati, in realtà si decretava la fine del neorealismo ed è per quello che a molti non è piaciuto quel libro, perché non era engagé, non c’erano i partigiani, non c’erano le SS, e non c’era Bella ciao, insomma… (minima&moralia)

Fortunato?
Calvino mi scelse per primo. Ti pubblicherò solo cinque racconti. Ora ti piangerà il cuore, ma in realtà ti faccio un favore. Nessuno recensisce o legge un libro più lungo di 170 pagine. Aggiunse: Se l’esordio va bene, ti aspettano all’appello che è spesso un tonfo. Ma il tuo secondo libro è già qui, sono gli altri 10 racconti. (La Recherche)

Com’era stato l’arrivo a Roma?
Io sono arrivato subito dopo Le piccole vacanze, fra il Cinquantasette, Cinquantotto. Ero tutore e sono stato a lungo assistente di diritto internazionale… io mi ero trasferito a Roma da Milano con il mio professore di diritto internazionale, Ago, di cui ero assistente… alle Scienze Politiche, quelle dove c’era anche Moro che aveva una cattedra e parecchi altri luminari dell’epoca… allora siccome lui si è trasferito a Roma, anche perché poi aveva molte cariche internazionali a Ginevra, all’Aia, a tribunali vari, allora aveva casa a Roma – fra l’altro era cognato di Noberto Bobbio, avevano sposato due sorelle figlie di un notaio molto… (minima&moralia)

Un ritrovo per gay vicino al Duomo. Oltre a bulletti e frocetti si incontravano personaggi interessanti. Ci vedevi Allen Ginsberg che per via di certi abiti, molto simili a dei manti religiosi, avevamo soprannominato Padre Pio

Sembra che stia parlando di un paesino, sembra che ci siano trecento persone che si conoscono tutte… E dove si abitava? Quali erano i quartieri in cui abitavate?
Dunque… io ho abitato per i primi tempi, per un paio d’anni in via Mario dei Fiori all’angolo con via Frattina ed era un ultimo piano dove avevano abitato nei vari periodi Zeffirelli, Bolognini… E allora la cosa che si usava normalmente e tranquillamente era che si pranzava in trattoria prendendo un’hachée, uno spaghetto, qualche cosa così, alla trattoria romana di via Frattina che non esiste più… e invece la sera Cesaretto, via della Croce, dove c’erano appunto Flaiano, Comisso, Giovanni Rodani, Sandro Viola che era il più giovane di tutti e insomma si era in parecchi… io di solito andavo a colazione, cioè pranzo alla romana, con un gruppo tutto di spettacolo perché c’erano appunto Bolognini, Tosi, Zeffirelli, Laura Betti, Adriana Asti… che poi Laura Betti era simpaticissima, non quella strega che viene diffamata da Emanuele Trevi [in Qualcosa di scritto]… Io l’ho conosciuta quando scrivevamo le canzoni per lei… le scrivevano Moravia, Pasolini, Soldati, Calvino, Fortini… che poi sapeva anche trovare degli ottimi compositori… era veramente, ripensandoci, una specie di paesino perché per esempio per il fatto di essere… l’impressione di paesino è inevitabile, perché la mattina l’università, lì fa meno paesino già… (ibidem)

In Parigi o cara dici una cosa molto divertente (…) che cioè ne La dolce vita si vedono i generici e le comparse che facevano noi, ovvero quelli che nella realtà erano lì.
La frase ha un senso molto più preciso e specifico di quello con cui la si può leggere oggi. Fellini a quell’epoca si recava tutte le sere a via Veneto con Flaiano (siamo prima de La dolce vita) e non saprei dire se ci veniva già con l’idea di girare un film o se poi, frequentando quell’ambiente, ci si sia ispirato per una storia. Certo se ci fosse andato anche soltanto alla metà degli anni Cinquanta non avrebbe potuto progettare nessun film: perché la dolce vita non c’era ancora. A via Veneto, all’epoca, vigevano orari spagnoli, nel senso che dopo il cinema o il teatro si andava a cena, e da lì ci si muoveva per via Veneto, il che significa che arrivavamo per l’una e mezzo o le due, e i caffè chiudevano all’alba. Quando Fellini ha cominciato a girare il film, la prima cosa che ha fatto è stato di mandare i suoi assistenti dagli amici de Il Mondo o di proporre lui stesso agli habitués di via Veneto: Vorreste venire domani sera o stanotte a Cinecittà a partecipare alle riprese? Non dovete far niente, dovete solo stare lì ai tavolini e fare quello che fate di solito. Ma siccome si prevedeva che ci sarebbero state delle angolazioni più o meno satiriche e che ci avrebbe fatti passare tutti per dei buffoni ridicoli, noi ci guardavamo bene dal prestarci al gioco. A parte il fatto che stare su tutta la notte con i tempi morti del cinema in attesa che qualcuno regoli le luci è uno dei modi più stupidi per passare la notte. Si fanno le quattro, le cinque, le sei, l’alba… E tutto questo per che cosa? Per poi fare la figura dei pagliacci… Per cui non ci voleva andare mai nessuno e dicevamo: No, no grazie, poi verremo a vedere il film quando è finito. E infatti poi Fellini ci invitò ad assistere a diverse proiezioni private che nel mio ricordo erano molto più belle del film finito perché c’era ancora la colonna sonora di base con le vere voci degli attori (che poi, come sempre in Italia, sarebbero state doppiate), le indicazioni di regia di Fellini (Vieni avanti… Ora muovi il naso) e, come musica, non i pezzi di Nino Rota, ma delle splendide canzoni di Kurt Weill che non potevano essere eseguite nel film per motivi di diritti d’autore (per inciso, a riprese ultimate, Nino Rota compose la colonna sonora proprio sulla falsariga di Kurt Weill). Era tutto molto più affascinante del prodotto finito. “Quelli lì fanno noi” era una delle tante battute che circolavano, perché eravamo stati invitati a non far niente, cioè a fare solo noi stessi… (Marcos y Marcos)

Con Moravia che rapporti avevi?
Ottimi, perché erano pessimi con Elsa Morante, perché non so perché lei ce l’aveva con me… con Moravia erano ottimi… (minima&moralia)

Pasolini?
Mi pare fosse il 1956, gli avevo mandato dei versi che avrebbe dovuto pubblicare su Officina, una rivista fatta da Pasolini e Leonetti dove si pubblicavano in prevalenza cose sperimentali (…) E lui ricordo mi diede appuntamento, sotto il Ponte Sant’Angelo, ai famosi bagni del Ciriola. (Pasolini.net)

Strano appuntamento per due intellettuali.
Era un posto che lui amava. Ricordo che mi ricevette in costume da bagno malgrado la stagione non fosse propizia. E con grande ospitalità mi presentò dei piccini bruttissimi. (ibidem)

E tu?
Mi ero provocatoriamente vestito in grisaglie e cravatta regimental, neanche dovessi andare nella redazione del Mondo di Pannunzio. Reagii interpretando la parte del vecchio gentleman arrivato dal Nord Europa che a Copenhagen o a Amsterdam ne aveva viste ben altre. Mi sembra che non gradì particolarmente quel gioco vagamente internazionale. (ibidem)

A proposito di cose inimmaginabili racconti le frequentazioni milanesi nel bar Storkino.
Un ritrovo per gay vicino al Duomo. Oltre a bulletti e frocetti si incontravano personaggi interessanti. Ci vedevi Allen Ginsberg che per via di certi abiti, molto simili a dei manti religiosi, avevamo soprannominato Padre Pio, c’era Alexandre Jolas, il più celebre gallerista di allora, mi regalò due bellissime stampe di Max Ernst che ancora conservo. E spesso ci trovavi anche Rudolf Nureyev. (ilmiolibro.it)

Era il 1959 quando arrivasti negli Stati Uniti. Che Paese scopristi?
Era ancora presidente Eisenhower, i russi incalzavano sulla competizione spaziale, e questo sorprendeva gli americani, abituati al primato. Arrivai in America con una borsa di studio, avviato a una carriera diplomatica. Ma l’insegnamento non mi ha mai interessato e men che meno occuparmi di relazioni formali tra gli Stati. Mi divertivo molto di più a parlare con i pochi amici che avevo e scoprire gente nuova e interessante. (ibidem)

«Perché avete suscitato tanto astio?» «Perché questo è un paese di merda»

Poi il Gruppo 63, ma ne sei stato sempre un po’ distaccato.
Va detto, in primo luogo, che il Gruppo 63 era costituito da una piattaforma generazionale anagraficamente piuttosto uniforme, dato che avevamo tutti la stessa età. Voglio dire che i diversi esponenti del gruppo – da Manganelli, a Sanguineti, a Balestrini, a Giuliani, a Guglielmi, Barilli… – erano giovani coetanei che a un certo punto si erano messi in testa – e a mio parere giustamente – di approfittare del boom economico (iniziato nel ’56 e destinato ben presto a estinguersi, ma ancora in corso in quei primi anni Sessanta) per rialzare il livello medio della letteratura. Questa era, secondo me, l’intento di fondo del Gruppo: sollevare il livello medio della letteratura… (Alfabeta2)

Perché avete suscitato tanto astio?
Perché questo è un paese di merda. (l’Unità)

E perché non avete avuto un seguito?
I movimenti significativi, in realtà, durano poco. Il cubismo quanto è durato? Il surrealismo, quello buono? Solo il rock dura da mezzo secolo: è una delle forme più conservatrici. (ibidem)

Nel 1963, tra l’altro, esce la prima edizione di Fratelli d’Italia
L’idea era sempre stata quella di riprodurre in contemporanea il parlato che si usava allora. Si trattava del parlato di una conversazione colta, di un certo livello, come non credo che ne esistano più, oggi. In un certo senso, Fratelli d’Italia costituisce una testimonianza dell’epoca, in quanto in quegli anni le conversazioni colte erano caratterizzate nei modi rappresentati in quel libro. Ho sempre consigliato, del resto, di aprirne una pagina a caso: ci si trova – o, meglio: ci si trovava, una volta – nel vivo di una conversazione colta: di una di quelle conversazioni che si verificavano quotidianamente tra amici quando ancora non era diffusa la televisione, cui un nuovo interlocutore riusciva a partecipare senza eccessive difficoltà anche senza aver ascoltato le ore di dialogo che l’avevano, eventualmente preceduta. (Alfabeta2)

Non temi che tra 50 anni qualcuno non possa capire la montagna di riferimenti e citazioni?
Altro che cinquant’anni! Sono già stupito che li capiscano oggi. Anche se occorre dire che tutti i libri, prima o poi, diventano criptici. Sono piacevolmente stupito dalla pubblicazione del primo Meridiano e dal fatto che la gente lo abbia acquistato. (Corriere della Sera)

Il lavoro continuo sulla lingua, l’abitudine di riscrivere molte volte le opere, è un’ossessione personale?
No. La ricerca dello stile non finisce mai. Dipende anche da circostanze concrete. Spesso i miei libri si ristampano. Ogni volta che rivedo bozze ricavate da un’edizione precedente, trovo che moltissime cose si possano migliorare, una frase si può esprimere meglio, un’altra è diventata un luogo comune, viene in mente un sinonimo più efficace… (il Giornale)

Sento dire spesso di questi tempi che sarei uno scrittore barocco, ma la definizione non mi soddisfa. Mi considero piuttosto uno scrittore espressionista.

Pensi che il tuo metodo del montaggio (che è molto cinematografico, per definizione) debba qualcosa anche al gusto surrealista del fotomontaggio?
Nei miei accostamenti c’è di certo la poetica dell’objet trouvé, ma soprattutto la lezione espressionista del corto circuito tra le diverse parole. Il mio libro più surrealista è anche il mio libro più espressionista: ovvero Super-Eliogabalo, soprattutto per le descrizioni dei luoghi, che sono sempre onirici e deliranti. Sento dire spesso di questi tempi che sarei uno scrittore barocco, ma la definizione non mi soddisfa. Mi considero piuttosto uno scrittore espressionista. L’espressionismo non rifugge dall’effetto violentemente sgradevole, mentre invece il barocco lo fa. L’espressionismo tira dei tremendi vaffanculo, il barocco no. Il barocco è beneducato. (Marcos y Marcos)

Hai sempre fatto satira. Perché il pubblico dovrebbe prendere sul serio gli intellettuali italiani quando spiegano, predicano, impongono?
Non vedo perché prenderli sul serio. Ho sempre avuto molti dubbi sulla qualifica stessa di intellettuale. Se uno è un docente, lo è di qualcosa, non vedo perché dovrebbe spiegarcene infinite altre, per esempio messo a capo di una linea d’autobus, una tranvia, un piccolo ospedale, una clinica, un pronto soccorso, una centrale del latte. Al massimo potrebbe esprimere idee molto nobili, teoriche e generiche. Un conto è avere una competenza specifica, ma l’intellettuale generico è inutile. (il Giornale)

Dunque non ti definisci un intellettuale?
No, sono uno scrittore. (ibidem)

Che significato hai voluto dare all’operazione In questo stato?
Il giorno che hanno rapito Moro mi son detto: mi dedico a questa vicenda finché non si conclude. Seguirla ha significato sentire la gente negli ambienti più diversi, privati e pubblici, registrarne giudizi e commenti e posizioni e reazioni e dichiarazioni e congetture, eccetera, prima che tutto si perdesse. Uno scrittore di oggi (settembre 1978, nda), credo, non poteva sottrarsi a questo dovere civile, in un’epoca in cui raccontare vicende private diventa insignificante di fronte alle vicende pubbliche. I fattarelli personali non interessano. (l’Unità)

Bandire le narrazioni da tinello è stato sempre un tuo punto d’onore.
Non sono specializzato nel ricordare le minestrine della zia o i motti dei nonni, però con la casalinga di Voghera io e Beniamino Placido non ci risparmiammo. (La Recherche)

Una tua metafora-principe.
Tanti anni fa la casalinga di Voghera concentrava in sé tutto ciò che di arretrato e di piccoloborghese c’era in Italia. Da qualche tempo s’è aggiornata. Vive di provocazioni e di trasgressioni. È impietosa. Irriverente. Dissacrante. Ma rimane più piccoloborghese che mai, rappresentando la mutazioni del gregge cui appartiene. (Loredana Lipperini)

Potrebbe partecipare a un raduno di no global? O, che so io, di no-tav, di sì-tav?
Come no? Sarebbe in prima fila. Con accessori griffati. (ibidem)

La classe media italiana, se esiste, è molto ignorante?
Manca il nucleo di lettori, che sapevano la stessa cosa. Medici, diplomatici, ingegneri… si tenevano al corrente, leggevano in francese, in inglese. Le riviste di Totò o Wanda Osiris, che attingevano ai classici, da Ulisse a Elena di Troia, all’Orlando furioso, o parodiavano i Promessi Sposi con qualche birbonata, oggi sarebbero improponibili. (il Giornale).

In quale rozza realtà siamo immersi…
Se ne occupano tutti! I libri sono pieni di angoli cottura, divani letto, posti motorino, personaggi in crisi, malattie delle mamme e disturbi delle zie. Dovrei parlarne anch’io? (Sandra Petrignani)

Che fine hanno fatto i Mostri Sacri?
Oggigiorno appena un nuovo romanziere si affaccia alla ribalta subito viene interpellato su un’ infinità di questioni. È fatale che finisca per omologarsi. Perché tutte le opinioni si somigliano. Ha presente le anticipazioni di qualche nuovo libro sui giornali? Tutti piccoli episodi di quotidianità, con la mammina, il bambino, il cane, il gatto. (Corriere della Sera)

«La morte ti spaventa?» «Avevo più paura da giovane. Il timore di non riuscire a esprimersi è più invadente della clessidra che scorre»

Provincialismo?
Un tempo la piccola borghesia era terrorizzata dai cambiamenti anche minimi. Le sciurette si angosciavano moltissimo. Ora invece sono aggiornatissime, alternative e soprattutto all’estero ci si preoccupa della figura che si fa in quanto italiani. E torniamo al complesso d’inferiorità. Basta leggere le lettere ai giornali: da noi sono frequenti quelle della serie «un amico straniero mi fa notare che» eccetera. Ma all’estero non accade mai di leggere lettere in cui si fa presente che un amico italiano ha osservato qualcosa. Del resto chi sono gli italiani conosciuti nel mondo? Sarti, cuochi, calciatori, comici, cantanti, mafiosi. Se si viaggia in Asia, anche in posti sperduti, ci si sente dire: “Italiano? Valentino Rossi”. Prima c’era Pablito. Gli scrittori non li conosce nessuno, penalizzati dalla lingua a cominciare da Gadda, che si impadronì in modo prodigioso di un dialetto romanesco dalle venature abruzzesi oggi sconosciuto ai giovani zombi televisivi. E i pittori? E gli altri artisti? E i musicisti? (Affari italiani)

La politica. Tra il 1983 e l’87. Con i repubblicani.
I colleghi si premuravano: Potresti mandare avanti questa pratica? Io torno mercoledì. Natalia Ginzburg era spesso stufa. Si annoiava. Mi delegava tutto. (La Recherche)

Eri tra i deputati più presenti.
Detestavo il Transatlantico, i divani, i baci e abbracci tra panzoni, le passeggiate sottobraccio alla buvette. Con Sarti e Zolla ci facevamo il caffè alla macchinetta. La Iotti era scrupolosissima: ascoltava tutti, anche gli ostruzionisti, senza farsi mai sostituire; contava i minuti, al massimo 45, e al quarantaseiesimo scampanellava. Mi ricordava le presidi della mia infanzia. La direttrice didattica di Voghera. (Corriere della Sera)

Chi ti offrì la candidatura?
Visentini, cui mi legavano l’ arte e la musica. E Spadolini, che era stato il mio direttore al Corriere. (ibidem)

Gli chiedevi (a Borges, ndr): quali sono i maggiori pericoli per l’esercizio della letteratura? Lui rispondeva proprio: la politica. Dopo più di trenta anni la tua risposta qual è?
Due pericoli: fare letteratura politically correct ad ogni costo, da ogni punto di vista. E, poi, ancora: l’omologazione sul livello familistico cheap. Ai tempi di Borges si omologava a un livello di letteratura latino- americano molto alto. Adesso il livello è basso. Una vera frana. (Il Messaggero)

Perché non scrivi più libri di fiction?
I miei racconti e romanzi parlavano di fatti e personaggi non fittizi. Allora mi domando quali siano, nell’Italia d’oggi, le figure degne d’essere raccontate. I politici, i sarti, gli industriali, i boiardi di Stato, o ancora i sindacalisti, i presentatori o le vallette tivù, le signore dei salotti o le mignotte? Non mi sembrano affascinanti. (Loredana Lipperini)

Se delle opere che hai scritto potessi salvarne una sola, quale sceglieresti?
Fratelli d’Italia. La prima edizione, che risale al 1963, è quella riprodotta nei Meridiani (…). (ibidem)

Che cosa leggi?
Leggo libri storici, cataloghi e programmi di mostre e spettacoli, diari spesso postumi come quelli di Christopher Isherwood. Più interessanti delle novità, anche perché vi ritrovo persone che ho fatto in tempo a conoscere. Poi, sfogliando i giornali, ritornano memorie del vissuto. Per esempio, Borges che dopo un’intera mattina di intervista Rai, la sera in un ristorante mi chiede: Chi siete?. Kissinger, mio docente a Harvard nel 1959, su cui ho scritto abbastanza. E più recentemente, Joan Didion, al suo primo ricevimento dopo la morte dell’amato marito, e il memoriale che ne aveva scritto, con successo. E lì, per decine di ospiti, c’erano un paio di camerieri, non una ventina come ho letto da qualche parte. (La Stampa via Dagospia)

È vero che molti giovani si riferiscono a te e al tuo lavoro con grande ammirazione quasi fossi un guru?
Non mi sento affatto un guru! Ma dopo una vita piuttosto vissuta, credo di avere accumulato parecchie esperienze da raccontare. Non so se questi ricordi interessino alla maggioranza dei giovani. I miei coetanei, invece, guardavano il passato soprattutto come fondamento per noi classici moderni. (ibidem)

Chi sono i nipotini di Arbasino?
Non saprei. Pier Vittorio Tondelli l’ha sempre rivendicato. E ne sono più che mai contento, anche se i nostri rapporti furono sempre formali, per riguardi delicati e reciproci. Ora, chissà. Arrivano montagne di volumi pieni di mamme e babbi e nonne e cognate e cugini e anche bambini piccoli in preda a dolori, dispiaceri, agonie, operazioni, funerali, e anche ricette e sughetti nelle cucine di una volta. Anche fattorini stracarichi di noir e gialli e delitti e commissari e indagini di cui non voglio togliervi il gusto. Mi basta, dopo ogni titolo di thriller e killer, aggiungere di Voghera. E siamo tutti sereni e tranquilli, spero. (Corriere della Sera)

Come vivi la tua età avanzata?
Tranquillamente, facendo libri nuovi. L’ultimo, America amore, era lunghissimo e rielaborava testi ormai storici, per me. Questo nuovo è tutto inedito. E poi sui giornali, ritorno per nuove scoperte sui luoghi delle antiche esperienze. E rievoco un passato-vissuto che non so a quanti, oggi, possa interessare davvero. (La Stampa via Dagospia)

La morte ti spaventa?
Avevo più paura da giovane. Il timore di non riuscire a esprimersi è più invadente della clessidra che scorre. Ho composto qualche sinfonia forse memorabile e molta musica da camera. Mi consola. Da ragazzo disperavo di terminare Fratelli d’Italia. (La Recherche)