La nuova mostra di Nan Goldin ci ricorda che per lei l’arte è una battaglia dopo l’altra

Tra intimità, memoria e attivismo: negli spazi di Pirelli HangarBicocca di Milano il più grande corpus di slideshow mai riunito dall’artista invita a ripensare il legame tra immagine e vita, prima che sia troppo tardi.

10 Ottobre 2025

Dall’11 ottobre 2025 al 15 febbraio 2026 Pirelli HangarBicocca presenta This Will Not End Well, prima retrospettiva dedicata al lavoro di Nan Goldin (Washington, 1953) come filmmaker, organizzata dal Moderna Museet in collaborazione con Stedelijk Museum, Neue Nationalgalerie e Grand Palais Rmn. La versione Milanese, curata da Roberta Tenconi e Lucia Aspesi, giunge con il più grande corpus di slideshow mai riunito dall’artista, accompagnato da una nuova installazione sonora del collettivo Soundwalk Collective e dall’esordio europeo in un contesto museale dei due lavori più recenti, You Never Did Anything Wrong (2024) e Stendhal Syndrome (2024). L’allestimento, progettato da Hala Wardé, non è una semplice scenografia ma un dispositivo narrativo: un villaggio di padiglioni, ciascuno costruito attorno a un’opera, per rievocare i luoghi originali dove furono mostrati per la prima volta i vari film. A differenza di molte altre sue mostre, dove l’immagine è restituita in fotografie stampate e incorniciate, qui la scelta è quella di calare il visitatore in ambienti bui in cui le immagini delle diapositive emergono unicamente dalla luce dei proiettori. Ogni spazio funziona come una piccola sala cinematografica, invitando il pubblico a sedersi, entrare e uscire liberamente, passare da una narrazione all’altra, costruire il proprio tempo di visione, mettere insieme una “playlist” goldiniana personale. In questo modo, la mostra diventa un’esperienza sensoriale e temporale, un attraversamento emotivo dove la luce, più che il supporto, diventa materia narrativa. Il titolo della mostra (letteralmente: questo non andrà a finire bene) non deve essere letto con tono pessimista ma con ironica e schietta consapevolezza, le opere di Goldin infatti non hanno mai promesso vane speranze ma qualcosa di sempre più prezioso nell’arte come nella vita: una sincerità radicale.

Dentro questo paesaggio visivo e sonoro si attraversa una carriera che ha ridefinito il concetto stesso di sguardo intimo. The Ballad of Sexual Dependency (1981–2022) resta il centro gravitazionale di tutto il suo immaginario: un montaggio di fotografie e musica nato nei club e nei cinema underground, che Goldin ha aggiornato negli anni come un organismo vivente. Si riconosce qui, più che in ogni altro lavoro l’eredità dell’artista e filmmaker Jack Smith, figura fondamentale dell’underground americano, che Goldin ha sempre citato come riferimento per la libertà e la sensualità anarchica del suo cinema. Seguono poi The Other Side (1992–2021), ritratto di una comunità trans e drag amata e vissuta dall’interno; Sisters, Saints, Sibyls (2004–2022), presentata nel Cubo di HangarBicocca, che rievoca la Chapelle de la Salpêtrière di Parigi; Fire Leap (2010–2022), dedicata all’infanzia; Memory Lost (2019–2021), viaggio nell’astinenza e nella dipendenza; Sirens (2019–2020), un’esperienza visiva sull’estasi e la perdita del controllo. I lavori nuovi, You Never Did Anything Wrong, meditazione astratta sul mondo animale ispirata al mito dell’eclissi, e Stendhal Syndrome, che intreccia Ovidio con i ritratti degli amici e le opere d’arte di musei di tutto il mondo, estendono la narrazione verso un registro mitico, come se Goldin volesse misurare la propria storia con quella di un’umanità ancestrale.

Nan Goldin, This Will Not End Well, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2025 © Nan Goldin, courtesy l’artista, Gagosian e Pirelli HangarBicocca, Milano, foto Agostino Osio

Etica dell’intimità

Per capire la radicalità del suo sguardo bisogna tornare alle origini, agli anni Settanta, tra Boston e la Lower East Side di Manhattan. Le prime serie in bianco e nero, come Drag Queens, nascono da una convivenza reale: Goldin vive con le persone che fotografa, condivide la loro quotidianità. Poi il passaggio al colore e alla diapositiva, un gesto tecnico che diventa estetico e politico: le immagini si proiettano dal vivo, accompagnate da una colonna sonora scelta e montata da lei stessa, una drammaturgia di emozioni e ricordi che pur nell’istante fotografico sembra rifiutare la staticità del medium. La fondamentale importanza dello spazio sonoro della mostra crea un tempo sospeso in cui le immagini, le musiche, le voci e i silenzi diventano una cosa sola. Ogni slideshow è una forma di montaggio emotivo, un modo di rimettere in circolo le storie, di riattivarle. La fotografia, in questo contesto, non è più lo sguardo distante del testimone: è una presenza dentro la scena. Qui la differenza con le generazioni precedenti di fotografi dediti alle istantanee diventa rivelatrice. Si pensi ad un altro autore, americano ed ebreo come la Goldin, Weegee (1899-1968, il cui vero nome era Arthur Felling): se il fotografo newyorkese puntava l’obiettivo sui corpi feriti della città (la cronaca nera, la violenza, la trasgressione) con lo sguardo del reporter che arriva per primo, Goldin rivolge la macchina verso se stessa e verso chi ama, spostando l’atto fotografico da un gesto voyeuristico a un gesto di partecipazione. L’uno penetrava senza invito nella vita degli altri, l’altra partecipa a quelle esistenze: entrambi documentano, ma Goldin aggiunge un’etica dell’intimità che trasforma la testimonianza in alleanza.

Una famiglia di amici

Il suo concetto di famiglia nasce da questa postura che non è mai una metafora ma un dottrina laica. Con queste parole nel 1996 l’artista spiegava la sua sfera relazionale: «Nella mia famiglia di amici, c’è un desiderio di intimità di sangue, ma anche un desiderio di qualcosa con un finale più aperto. I ruoli non sono così definiti. Queste sono relazioni a lungo termine. Le persone se ne vanno, le persone tornano, ma queste separazioni non infrangono l’intimità. Siamo legati non dal sangue o dal luogo, ma da una moralità simile, il bisogno di vivere completamente e per il momento, una sfiducia nel futuro, un rispetto simile per l’onestà, un bisogno di spingersi al limite, e una storia comune. Viviamo la vita senza considerazione, ma con considerazione. C’è tra noi una capacità di ascoltare e di solidarizzare che supera la normale definizione di amicizia». La famiglia, in questa accezione, scardina i costrutti borghesi e diventa un atto d’amore e insieme di politica.

Dopo il suicidio della sorella maggiore, quando aveva undici anni, la fotografia diventa per lei un modo di trattenere la memoria, di opporsi alla cancellazione: una protesi affettiva contro la morte. Scattare è un modo per tenere vicine le persone, per registrare la loro esistenza e farne una storia condivisa. La macchina fotografica, scrive, non serve per spiare ma per «ricordare davvero qualcuno». Nata come linguaggio personale e priva di ambizioni commerciali, la fotografia di Goldin è diventata, negli anni, un punto di riferimento imprescindibile per generazioni di artisti e per l’immaginario visivo contemporaneo.

Nan Goldin, Fire Leap, 2010-2022, veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2025 © Nan Goldin, courtesy l’artista, Gagosian, e Pirelli HangarBicocca, Milano, foto Agostino Osio

Nan Goldin, Stendhal Syndrome, 2024, veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2025 © Nan Goldin, courtesy l’artista, Gagosian, e Pirelli HangarBicocca, Milano, foto Agostino Osio

Nan Goldin, Memory Lost, 2019-2021, veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2025 © Nan Goldin, courtesy l’artista, Gagosian, e Pirelli HangarBicocca, Milano, foto Agostino Osio

L’equivoco della moda

Indipendentemente dalla radicalità dei temi e dei soggetti che tocca (in mostra si passa da corpi di una bellezza sconcertante ma anche corpi feriti, malati, percossi dalla violenza maschile come nel famoso auto-ritratto dell’artista), ogni singolo scatto possiede un valore estetico intrinseco che non lascia nessuno indifferente. Anche per questo, già dai primissimi anni Novanta, la sua influenza appare prepotente anche nella moda, dove si afferma una nuova estetica “grunge”: volti pallidi, corpi magri, interni domestici, “un’idea” di realtà contro l’artificio degli editoriali di moda. I volumi dedicati a The Ballad of Sexual Dependency o libri come Tulsa di Larry Clark diventano riferimenti assoluti per fotografi, art director e stilisti che cercano di spogliare la moda della sua finzione. È una rivoluzione estetica e commerciale insieme: la quotidianità diventa stile, la vulnerabilità diventa linguaggio. Ma proprio questa trasformazione rivela un equivoco. Vale la pena ricordare ad esempio come nel 1997 l’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, in un discorso diventato tristemente famoso, condannò l’“heroin chic”, denunciando le campagne pubblicitarie che impiegavano modelle giovanissime, magrissime, spesso senza sorriso. Elementi che, affermava, idealizzavano l’assunzione di stupefacenti in un periodo in cui l’eroina era diventata una droga socialmente alla moda. In quel discorso Clinton citò  il lavoro della fotografa “Dan [sic] Goldin”, prendendolo come esempio di estetica del disagio. Ma la differenza era e resta sostanziale: l’immaginario della moda, pur ispirato alla sua autenticità, era privo del suo fondamento etico. Mentre Goldin fotografava il dolore, la fragilità, l’amore e la dipendenza dall’interno di una comunità reale, la moda ne aveva estratto la superficie, facendone un codice commerciale. La fotografia artistica di Goldin sfuggì ai censori proprio perché intrinsecamente “protetta” dal suo radicamento biografico, dalla sua autenticità; la fotografia di moda, priva di quella verità e vincolata a un compito pubblicitario, divenne invece il bersaglio morale di chi vedeva in quelle immagini la glorificazione di un disagio estetizzato.

Nan Goldin, Sunny in my room, Paris, 2009 © Nan Goldin Courtesy Gagosian

Nan Goldin, Self-portrait at The Other Side, Boston, 1972 © Nan Goldin Courtesy Gagosian

Una battaglia artistica e civile

Nel tempo, Goldin ha portato la stessa tensione etica dentro le istituzioni. Con il collettivo P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now) ha messo in discussione i rapporti tra i grandi musei e la famiglia Sackler, legata alla produzione di oppioidi che hanno devastato intere comunità statunitensi condannandole alla dipendenza, vicenda che l’artista ha vissuto sulla sua pelle è che è stata splendidamente ripercorsa nel documentario vincitore del Leone D’oro nel 2022 All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras. È una battaglia artistica e civile insieme: la fotografia, come la protesta, diventa una forma di responsabilità culturale. Allo stesso modo, la sua voce si è levata contro il genocidio in corso a Gaza, chiedendo al mondo dell’arte di riconoscere la propria responsabilità politica. Non si tratta di un’azione “parallela” al lavoro artistico, ma di una sua prosecuzione coerente: da sempre, Goldin fa coincidere arte e vita, sfera privata e sfera pubblica, immagine e gesto. Durante l’anteprima stampa all’HangarBicocca l’artista ci ha tenuto a mostrare il suo ultimo lavoro intitolato Gaza (2025) che, purtroppo, non farà parte del percorso espositivo regolare. Non ci sono parole per restituire il montaggio che Nan Goldin, insieme ai suoi collaboratori, hanno realizzato per testimoniare attraverso immagine di media e video girati da singoli individui, il genocidio ancora in corso a Gaza. L’artista ha sottolineato quanto fosse importante soprattutto per i giornalisti e media riflettere su quelle immagini. Invito che, almeno in quella sede, non è stato del tutto accolto dalla stampa milanese. 

Negli ultimi anni, mostre monumentali come la recente di Wolfgang Tillmans al Centre Pompidou sembrano condividere con Goldin la stessa urgenza: fare un punto sull’umano, sui corpi, sulla loro dimensione politica e sulla loro verità, prima che sia troppo tardi. Non una verità assoluta, ma una verità relazionale: come ci guardiamo, cosa scegliamo di rendere visibile, cosa siamo disposti a riconoscere dell’altro. Queste grandi retrospettive non sono solo bilanci di carriera. Ci insegnano a guardare, a ricordare, a chiederci chi siamo noi mentre osserviamo e prenderci carico del nostro sguardo. “Vedere” come atto di resistenza.

Immagine in evidenza: Nan Goldin, “Self-portrait with eyes turned inward, Boston”, 1989 © Nan Goldin, Courtesy Gagosian

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