Era da un secolo che i chicagoani non potevano fare il bagno nel fiume cittadino. Un esempio che adesso anche Roma sembra intenzionata a seguire.
A Milano, da qualche tempo, succede una cosa strana. O meglio: succede qualcosa di nuovo, eppure familiare. Un venerdì sera ti ritrovi a ballare e a uscire dal retro di un kebabbaro in uno stato di trance mentre addenti una piadina, circondato da neon mediterranei e T-shirt serigrafate live. La domenica, invece, scendi al piano -1 di un ristorante hot pot in zona Farini, e sei catapultato in un after che parte alle 9 di mattina. Non c’è nessuna selezione all’ingresso. Anzi, ti becchi anche un biscotto della fortuna.
Eventi che si collocano a metà strada tra il party e il pasto. È un’ibridazione, una mutazione post pandemica dell’aggregazione notturna che nasce dalla voglia (o dal bisogno) di uscire dal club tradizionale senza rinunciare al dj set, al ballo, al senso di comunità, dove il dancefloor incontra il tavolo da pranzo. Solo che tutto avviene in dinamiche più morbide, più umane, più consapevoli, meno codificate. E anche meno notturne. L’etichetta “soft clubbing” arriva dalla Gen Z, a coniarla è stato Yusuf Ntahilaja nella sua newsletter Substack (Fountain Of Yus), dove oggi si analizzano e in parte si decidono le sorti della niche culture. Il giovane giornalista britannico ne parla come di una forma di «militanza gioiosa». È una scelta. È una nuova forma di socialità che si prende i suoi spazi là dove fino a poco fa si veniva solo a mangiare prima o dopo aver fatto serata. È come se il clubbing stesse gradualmente cedendo spazio a nuove forme di aggregazione, notturna e diurna, che trovano casa in spazi comuni, autentici, a volte improbabili, trasformandoli senza annullarli.
After Fortuna
Nella cornice dell’ultima fashion week milanese, ben lontani da afterparty brandizzati da moda e distillati, si è verificato nuovamente come lo spazio gastronomico informale stia diventando una nuova zona franca di espressione. Uno degli esempi più emblematici di questa nuova scena è After Fortuna, progetto ideato da Biscotto della Fortuna, appuntamento domenicale che da mesi, come un rituale itinerante, trasforma ristoranti cinesi di Milano in spazi di festa queer, liberi e senza stress. L’ultima edizione si è tenuta domenica 28 settembre da Shoo Loong Kan Hotpot, via Carlo Farini. Orario: 9–17. Mood: sudare di giorno, ballare tra i tavoli, mangiare hotpot al beat del dj. Un biscotto della fortuna viene distribuito all’ingresso, come biglietto simbolico. Nessun buttafuori, nessuna lista, nessuna tensione.
«Vogliamo trovare location che rappresentano l’Oriente e hackerarle, il fenomeno inverso di quello che sta avvenendo nell’ultimo decennio», raccontano. «È un’integrazione sottile tra due culture». Il luogo per qualche ora cambia funzione, accoglie differenze, crea intersezioni, ma contemporaneamente resta se stesso. E proprio per questo funziona. In questi eventi si balla sul serio. Non è una scampagnata con playlist lo-fi. I dj set sono curati quanto il lavoro fotografico, la gente è lucida, presente. «La festa avviene in un’orario che spinge la gente ad un’auto selezione. Le persone spesso non sono reduci da altre serate ma consapevolmente riposate con l’idea di ballare di giorno e magari pranzare anche nello stesso posto».
Pizza al Trance
Altro format simbolo è Pizza al Trance, nato dall’amicizia tra Club Universo e DJ Buono, entrambi resident su Fritto FM. Location fissa: Oliva Kebap Mediterraneo, Viale Monza 56. Sì, un kebabbaro, ma con una saletta inaspettata di tutto rispetto. Magliette stampate live, trance-pop destrutturato, cibo servito senza soluzione di continuità e gente che balla a pochi passi dal gyros. «Oliva è sempre stato un punto di ritrovo per noi», dicono gli organizzatori. L’obiettivo di dj Buono era proprio quello di suonare in un ristorante per rafforzare il suo immaginario legato al cibo, condividendo con Club Universo una visione di commistione tra cibo e musica legati da un minimo comune denominatore: le persone.
Il match era perfetto. E così è nato questo evento «free entry, senza alcun scopo di lucro, svincolati dai numeri e dagli algoritmi», che punta tutto sull’autenticità. «In una Milano dove, in questo preciso momento storico, è sempre più difficile trovare uno spazio che lasci un’ampia libertà, Latif e il suo staff ci hanno accolto senza pretese o aspettative e sono sempre stati complici del nostro viaggio. L’incontro tra le due culture coesiste senza snaturare né l’una né l’altra realtà ma rafforzandosi a vicenda». Mi svelano che il gioco di parole Pizza al Trance era un loro inside joke, ancor prima di diventare il nome dell’evento, mantenendo una grande ironia alla base del progetto di trasformare un kebabbaro in un vero e proprio club. «Ciò che pensiamo renda speciale questo incontro è proprio questa combinazione improbabile, questa coesistenza che non dovrebbe funzionare ma che invece piace e sorprende chi viene».
Una nuova grammatica sociale
Questi eventi non rappresentano una parodia del clubbing, ma piuttosto un salto laterale, una riscrittura che prende sul serio il contesto e lo reinventa da dentro, senza colonizzarlo. In fondo, però, tutto questo arriva in un momento preciso e coincide con una certa disillusione verso i codici rigidi del clubbing tradizionale, dopo la chiusura del Plastic, lo sgombero del Leoncavallo, e la generale sterilizzazione dei luoghi notturni milanesi. Queste assenze aprono un vuoto, soprattutto per chi cercava spazi non convenzionali, meno regolamentati, più aperti alla sperimentazione e in cui era socialmente accettato cantare “Gli ostacoli del cuore” in serata.
Grazie alla digitalizzazione e alla cultura DIY, le comunità che oggi si aggregano sono spesso mosse da social media, newsletter, micro‑reti: non serve un grosso patrocinatore, basta una certa credibilità locale, una buona selezione musicale, una buona scenografia improvvisata. Non si tratta di “feste amatoriali”, di appropriazione superficiale né di esotismo ma di organizzazioni con un’estetica riconoscibile.
Da Milano a Berlino, passando per Lisbona
Quello che succede a Milano non è certamente un unicum. A Berlino, il collettivo Sonic Brunch organizza matinée techno in ristoranti vietnamiti. A Lisbona, Tasca Frequência porta la musica elettronica nelle tascas di quartiere. A Parigi, Club Riz fa “rave de quartier” in alcuni ristoranti asiatici a gestione familiare. E infine a Londra, Dim Sum Rave unisce sound system grime e garage con cucina cantonese tradizionale. Tutti questi eventi hanno in comune una cosa: hackerano il quotidiano. Trovano nella gastronomia etnica, nei luoghi ibridi, un nuovo orizzonte per la socialità creativa.
Naturalmente questo paradiso underground non è privo di problemi. Se diventa mainstream, perde mordente. Se cresce troppo, si burocratizza. Ma finché resta così fluido, funzionale, sincero, il soft clubbing può essere una delle cose più interessanti successe alla cultura giovanile urbana negli ultimi anni. Una risposta leggera ma concreta a metropoli compresse, costose, iper regolate. Un modo per fare comunità senza monumenti. E senza dover per forza iniziare a mezzanotte.