Tutti i motivi per amare e odiare la propria famiglia stanno in Long Story Short

Disponibile dallo scorso 22 agosto su Netflix, la nuova serie dei creatori di BoJack Horseman è una di quelle sitcom che oramai non si fanno più: parla di famiglia, di quanto questa sia preziosa, esasperante e divertente.

27 Agosto 2025

Le giornate si accorciano, le temperature scendono, è ora di trovare intrattenimenti serali casalinghi. Un consiglio: è appena uscita su Netflix Long Story Short, una serie animata in dieci gradevoli puntate creata dalla mano e dalla mente che stavano dietro a BoJack Horseman. La mano è quella dell’illustratrice e fumettista Lisa Hanawalt. La mente, sofisticata e intelligente, è del suo compagno di liceo a Palo Alto e sodale Raphael Bob-Waksberg, sceneggiatore, comico e produttore statunitense, 41 anni, autore di Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata, libro che qualche anno fa – forse anche grazie al titolo e alla copertina – si è guadagnato una certa notorietà di nicchia in Italia tra i lettori forti di Instagram.

Questa volta, niente cavalli alcolizzati. Long Story Short è un tenero ritratto della famiglia Schwooper, crasi in stile Ferragnez dei cognomi di Elliot Cooper, il padre, e di Naomi Schwartz, la madre dei tre figli Avi, Shira e Yoshi, raccontata attraverso aneddoti e episodi, sbirciando nella loro quotidianità senza una struttura narrativa lineare ma saltando avanti e indietro nel tempo fra il 1959 e il 2022. Gli Schwooper sono una famiglia ebrea tiepidamente osservante della classe media californiana, residenti nella Bay Area. Non sono ortodossi, il loro è quel tipo di ebraismo borghese che valorizza il rituale e la comunità più che la fede e la pratica cieche.

Storia di un matrimonio

Elliot lavora in università, Naomi è casalinga, si sono conosciuti da giovanissimi, figli dei fiori, durante un trip psichedelico di Elliot (che arringa così i suoi figli: «Certo, quando ero giovane le droghe erano una gran figata. Oggi, però, fanno male») e non si sono più lasciati. Il loro matrimonio si regge su un chiarissimo equilibrio: Noemi ha sempre ragione e decide tutto, Elliot abbozza conciliante e rifugge ogni controversia. Noemi è la classica mamma yiddish delle barzellette e della letteratura di Bellow e Roth: dispotica, premurosa, apprensiva, affettuosa, soffocante, sempre pronta a cucinare qualcosa di disgustoso, tipo piatti di pesce con la consistenza delle cervella, e a arrostire la nuora con battute tranchant. Elliot è il poliziotto buono della coppia, pacato, legge solo libri sulla matematica e indossa giacche con le toppe sui gomiti.

I loro tre figli sono il prototipo del Millennial tormentato, eterni ragazzini perennemente insoddisfatti e piagnucolosi. Avi lavora come giornalista musicale, i suoi principali nemici sono i podcast e l’algoritmo che compila le playlist, è sposato con Jen e padre di una figlia adolescente arguta e poco adatta alla vita sociale, con tutti i problemi che ne conseguono. Shira è omosessuale, dalla scenata isterica facile, madre insieme alla sua compagna Kendra di due gemelli mulatti nati grazie all’inseminazione artificiale (la puntata dove se ne parla piacerà molto ai lettori di Ben Lerner), due bestie distruttive in età d’asilo che si calmano solo se ipnotizzati dal cartone animato Papà Troll. Il terzo fratello è Yoshi, eterno figlio minore, introverso e bislacco, erede del Todd di BoJack Horseman, impelagato in centomila imprese fallimentari – tipo la vendita di materassi compressi in un tubo, che si aprono lanciandoli come le famose tende – spesso affiancato dall’amico Danny, remake a cartoni del personaggio interpretato da Owen Wilson nei Tenenbaum.

Una famiglia

Long story short segue gli Schwooper nel loro fragile tentativo di condividere il cognome e passare qualche tempo sotto lo stesso tetto senza accoltellarsi. Sono cinici, disastrosi quando c’è da esprimere i sentimenti, a volte sembrano vogatori su una barca che remano in cinque direzioni diverse, ma poi c’è sempre uno di loro che fa il timoniere e li porta fuori dalla tempesta. Sballottati dalla vita, perennemente con la faccia di chi sta pensando “oh no, non un’altra esperienza istruttiva”, gli Schwooper sono l’emblema vivente della massima secondo la quale non tutti i ragazzi gettati in pasto ai lupi diventano eroi.

La fede religiosa, o meglio l’ineluttabilità di fare i conti con una famiglia ebrea, anche se si sceglie presto di essere atei, è uno dei temi principali di Long Story Short (il titolo originale che Bob-Waksberg e Hanawalt avevano ideato per la serie è Come Look at the Jews). Ognuno degli Schwooper è ebreo a modo suo, e tutti sono pronti a parlarne con verbose autoanalisi e battute fulminanti su Hitler, e soprattutto a bisticciare sull’argomento. Come dice Avi: «A che serve stare a casa il venerdì sera, quando tutti sono in giro a mangiare gamberi e a fare sesso?». Ovviamente, è già stato chiesto, in un’intervista su Variety a Raphael Bob-Waksberg, ebreo californiano, perché nella serie non si parli di Gaza. Risposta: «Sono felice di avere scritto uno show che parla di tutte le altre cose che significano essere ebrei oggi. Non credo che, solo perché sono ebreo, dovrei dire la mia opinione, offrire una soluzione, parlarne in un certo modo».

Insomma, per farla breve (eh eh), perché vedere Long Story Short? È una serie divertente, ben scritta, sincera, che fa ridere mentre ispeziona l’eterno dramma dell’incomunicabilità, alternando gag leggerissime e riflessioni sagaci. Si parla di Covid, un argomento ostico per gli sceneggiatori a giudicare dai prodotti che sono usciti negli ultimi anni, con perizia e sensibilità. Si affrontano le perversioni della vita digitale e le insicurezze tipiche della contemporaneità scavando fra i dolori esistenziali e i traumi dei personaggi, sempre accompagnati nelle loro scalcagnate vite dalla scrittura agrodolce, acuta e sensibile, tipica di Raphael Bob-Waksberg.

Ah, le famiglie, quel vecchio retaggio medievale che per colpa di oscuri legami di sangue ci lega a vita a persone che spesso non sopportiamo, ci irritano, sono diverse da noi, ci ricordano episodi traumatici e deprimenti del passato, ma che in fondo condividono con noi l’infanzia e buona parte del nostro patrimonio genetico e di solito, a modo loro, ci vogliono un gran bene. Come dice Elliot: «Dovremmo trovare occasioni felici per riunirci, non possiamo vederci solo ai funerali». Tutto sommato, forse, litigare in continuazione è meglio di ignorarsi e tagliare i ponti con la famiglia. Un giorno, ci mancheranno anche le litigate.

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