Il dibattito intorno al caso del Ceo colto in flagrante al concerto dei Coldplay e al vocale di Raoul Bova diffuso da Fabrizio Corona ci sta facendo capire quanto ancora abbiamo bisogno di parlare di tradimento.
Temptation Island è il programma serale più seguito dell’estate e ovviamente lo guardiamo tutti per motivi prettamente scientifici o, come direbbe Fabrizio Corona, “ai fini di un’analisi sociologica”. Del resto, l’immensa viralità del video del CEO sorpreso dalla kiss cam mentre abbracciava la direttrice HR a un concerto dei Coldplay, così come il leakage dei vocali di Raoul Bova, dimostrano intanto che le storie di corna ci piacciono moltissimo, e in un certo senso meglio quelle che pensare alla Terza guerra mondiale. La straordinaria popolarità di questi temi comporta inevitabilmente un dispiegamento di forze degno di una grave crisi diplomatica: giornalisti indipendenti con le loro newsletter, testate mainstream, le community degli investigatori di Internet (che non sottovaluterei, né tratterei con sussiego, visto che ad oggi hanno al loro attivo un certo numero di casi risolti), spettatori normali e passanti a cui non interessa ma un occhio ce lo buttano. Ognuno di loro inizia a presidiare i punti strategici e le torri di controllo dell’informazione, ognuno col suo posizionamento etico su base identitaria che rinfaccia all’avversario la stessa colpa di cui si è macchiato egli stesso (essenzialmente di non “rispettare la privacy”), cercando di dominare così il frame della discussione. “Societal collapse is in the air”, come una volta aveva detto Timothée Chalamet, e di solito finisce che questo dibattito, precipitato nel caos, venga infine spostato nelle rinomate Sedi Opportune. Se tutto questo fosse un concerto in uno stadio, stile reunion degli Oasis, la scena si suddividerebbe in una gerarchia visibile: chi in prima fila col pass platinum, chi nella zona stampa col buffet, chi nel parterre a pogare ed eventualmente a menarsi, e chi in piccionaia (il mio posto preferito). Se si osservano le dinamiche dall’alto è davvero difficile non sentire quel forte senso di collasso sociale, Gesellschaftskollaps direbbero a Francoforte, se ancora ci fosse una scuola. Di qualcosa che sta andando a rotoli, di persone che si aggrappano all’intrattenimento come a una scialuppa, mentre la società si spezza in due e affonda come il Titanic. Temptation Island, comunque, è la nostra scialuppa.
Riconoscimento o dissociazione?
Preso atto dell’apocalisse in corso, almeno si ride tutti insieme sotto l’egida dell’hashtag #TemptationIsland, ed è un po’ come tornare improvvisamente al Novecento, ai primi anni della televisione, quando le persone si radunavano intorno a quell’unico elettrodomestico del salotto per riconoscersi in quello che vedevano, oppure per dissociarsene profondamente. E allora: ci riconosciamo nei personaggi di Temptation Island o ci dissociamo? Io, personalmente, mi riconosco in Filippo Bisciglia, il conduttore, la cui vita lavorativa consiste nel commentare i tradimenti altrui a piedi scalzi su una spiaggia. Non mi riconosco né nei concorrenti, e ancora meno nei corteggiatori, perché sono quel tipo di persona che concepisce il corteggiamento solo se dura meno di cinque minuti. Di questo programma continuo a non capire alcune cose, al netto di tutti gli editoriali che ho letto in proposito: perché le coppie in crisi ci vanno? Perché si comportano come se non ci fossero telecamere a riprenderli? Perché poi si stupiscono di essere stati ripresi dalle telecamere, che causano reazioni incontrollabili nei loro partner, cosa che causa ulteriore stupore e smarrimento? Perché, insomma, non sono rimasti semplicemente a casa loro, a lasciarsi con un messaggio WhatsApp come tutti? E soprattutto: perché gli autori insistono sul fatto che sia “tutto vero e autentico”? Avrei preferito che ci fosse qualcuno col pieno controllo della situazione. Temptation Island è il programma televisivo che più di ogni altro ci costringe a fare i conti con le fragilità del nostro relativismo morale, un relativismo che, come avrebbe detto David Hume, oscilla non sulla base di princìpi assoluti, ma secondo il flusso mutevole delle nostre percezioni soggettive. In un mondo dove il bene e il male sembrano negoziabili, basta il montaggio di una clip o un falò ben piazzato per spostare l’asse etico di chi guarda.
L’illuminante spiegazione di Corona
Ecco che torna in mio soccorso Fabrizio Corona, nume tutelare dell’intrattenimento di massa e di altri peccati mortali, a spiegare la verità nuda e cruda (nel suo podcast su YouTube, Falsissimo, gentilmente sponsorizzato da un sito di scommesse): chi partecipa a Temptation Island lo fa nella speranza di essere notato dalle alte sfere della Fascino, la casa di produzione televisiva, cioè da Maria De Filippi. L’obiettivo sarebbe accedere ai livelli superiori della piramide mediatica: diventare tronista a Uomini e Donne, ottenere una partecipazione al Grande Fratello, diventare ospite fisso in qualche salotto televisivo. Oppure, più semplicemente, raccogliere circa centomila follower su Instagram e garantirsi almeno un paio d’anni di guadagni facili, divertendosi tra serate in discoteche, sponsorizzate di costumi e acque detox. La spiegazione turbocapitalista mi soddisfa: finalmente un po’ di razionalità. Si torna alle sovrastrutture marxiste e ad altre nobili astrazioni che ci mondano la coscienza, rendendo Temptation Island un prodotto coerente con la logica del sistema. Hanno del tutto ragione quegli intellettuali che vorrebbero dare il Premio Strega a Temptation Island, che riesce là dove falliscono romanzi e saggi, ma io gli darei anche un Leone d’oro, perché arriva anche dove non arrivano certe serie tv distopiche e film pluripremiati, e lo fa meglio di chiunque altro, con la grazia devastante della verità detta per sbaglio in prima serata su Canale 5.
Analisi del cluster maschile
Intercettata la finalità di questo gruppo sociale specifico (coppie che si mettono in gioco, tentatori e tentatrici) che viaggia nei sentimenti per alzare l’ISEE, ci si può concentrare sulle sue specificità. I partecipanti a Temptation Island hanno tutti lo stesso aspetto, cioè rappresentano un cluster sociale piuttosto preciso caratterizzato esteticamente da una presenza totalizzante di tatuaggi di ogni foggia e dimensione. Sembra ci sia il bisogno impellente di comunicare qualcosa con il corpo, ma cosa? In Polinesia, gli autoctoni si tatuano su petto, braccia e gambe le loro storie familiari. Tra i tatuaggi c’è sempre anche quello di un animale “totem”, cioè una creatura che li protegge e con cui si identificano spiritualmente o caratterialmente (di solito squali, lucertole o uccelli della fauna locale). Questo succede anche per i partecipanti a Temptation Island, soprattutto i maschi, sui cui corpi spiccano animali di ogni sorta, disegnati magari con uno stile più occidentalizzato: tigri gigantesche con la bocca aperta, serpenti che attraversano il petto da parte a parte, cavalli al galoppo. Oltre a questi si sovrappongono altri oggetti semiotici: nomi di mamme e figlie, date con un significato particolare, moltissimi occhi (guardare ed essere guardati come centro dell’esistenza), gli inevitabili “Forza Lazio” e “Forza Napoli”, piccoli cuori nascosti magari sotto un’ascella a simboleggiare quegli scarsi momenti in cui tutto sembrava andare bene, la vita ancora intatta e pura, il destino aperto a mille possibilità.
In quest’ultima stagione, invero, il fenotipo maschile è particolarmente vistoso, rumoroso e strabordante. Ci tengo a precisare che non sto parlando del maschile in generale, ma di quello relativo al cluster “partecipante a Temptation Island” (o aspirante tale), un cluster, in effetti, molto ristretto, che tende a concentrarsi tra gli studi televisivi e Instagram. Eviterei quindi allarmismi sociali o rieducazioni di massa: hanno un palcoscenico ben preciso, e noi possiamo osservarli e giudicarli mentre urliamo verso le nostre Tv (per questo Temptation Island è servizio pubblico).
Uomini in lacrime davanti a un falò
Insomma, assistiamo alle overreaction di questi maschi, che iniziano a dare di matto per motivi che raramente riusciamo a comprendere del tutto. Un tentatore che propone alla tentata di andare a vedere la partita “in tribuna Posillipo” può scatenare nel compagno ufficiale urla belluine e corse forsennate verso la spiaggia dov’è la fidanzata. La corsa forsennata si era già verificata all’inizio di quest’anno a Temptation Island Spagna, diventata subito un meme globale (“Montoya, por favor!”), e quando una cosa funziona una volta, funzionerà anche le volte successive, motivo per cui il pubblico a casa inizia ad avere sospetti sull’autenticità di questi exploit. Ma dunque, perché questi energumeni si comportano così? Mi arriva in soccorso Eleonoire Ferruzzi, ex concorrente del GF Vip e intellettuale di riferimento di molte community. Scrive sul suo profilo Instagram che questi sono “uomini di dubbia sessualità, che sfogano la loro ignoranza tramite gesti aggressivi ed inconsulti, rassicurati solo dalle loro pochette di Gucci, sopracciglia spinzettate e gambe depilate, mentre sperano di lavorare in tv, […] mentre godono nel vedere donne sempre più sole e prive di attenzioni, perché in fondo le vere donne sono loro”. Forse un po’ dura, ma in parte si può anche concordare. Eppure, questi uomini li si guarda tornare prima ragazzi e poi bambini mentre si sciolgono in lacrime davanti a un falò, implorando di non essere lasciati soli, affidando il loro più grande desiderio ai fuochi d’artificio che vanno a comporre la richiesta finale, quella più disperata, cioè M’ VUÒ SPUSÁ? Sui loro corpi, d’altronde, tra tigri, cavalli al galoppo, stimmate, croci, ali di angeli e quant’altro, si legge la speranza di non essere traditi, né feriti da chi più si ama. Subentra a questo punto nel telespettatore, me compresa, un certo senso di colpa per aver giudicato troppo duramente queste persone che si sono davvero messe in gioco per intrattenerci nelle calde sere d’estate, alla ricerca del vero amore e aggrappati all’illusione di poter guadagnare senza lavorare. E non sono forse desideri a cui siamo tutti appigliati?