Le polemiche delle ultime settimane non colgono il vero punto della discussione: la crisi non è della città, ma del modello di sviluppo di cui essa è diventata simbolo in Italia.
Alfredo Cannella è il giovane ereditiere di un’impresa di costruttori di successo, spietati. Si chiama EdilCannella Luxury Real Estate srl. Sono gli anni precedenti a Expo 2015 e siamo a Milano. Hanno individuato una zona in cui costruire. Trasformare un grande complesso occupato in una serie di appartamenti di lusso. Non hanno tutti i permessi per farlo, ma li avranno. Come? Li troveranno. Dovranno abbattere anche un piccolo bosco, protetto da un vincolo di non edificabilità. Ma che importa? Qualsiasi delibera può aggirare quel vincolo, e far sparire gli alberi, e far apparire un nuovo grattacielo. Non è cronaca: è – per sommi capi – la trama di un romanzo italiano del 2011, ristampato proprio nel 2024, che parla delle trasformazioni urbanistiche di Milano negli anni antecedenti Expo. Si chiama La cospirazione delle colombe (Bompiani) e l’ha scritto Vincenzo Latronico. Come è evidente, la realtà – le recenti richieste di arresto per Giancarlo Tancredi, assessore alla Rigenerazione urbana, e Manfredi Catella, presidente di Coima, ma anche i circa 150 cantieri bloccati per le inchieste della Procura che hanno portato alle dimissioni dell’assessore alla Casa Guido Bardelli e all’arresto dell’architetto Giovanni Oggioni nel marzo 2025 – sembra ispirarsi alla fantasia. Allora è un esercizio interessante, oggi, rileggere quel romanzo dal respiro americano, che voleva ritrarre uno Zeitgeist e il teatro di personaggi che lo popolava, e parlarne con l’autore, di recente finalista all’International Booker Prize con il romanzo Le perfezioni.
ⓢ E quindi, che effetto fa aver scritto un libro quasi profetico?
Ahimè a essere profetiche erano certe inchieste giornalistiche, certe campagne fatte dai movimenti di quartiere di cui anch’io facevo parte, che avevano già cominciato a rilevare una serie di comportamenti poco trasparenti nella gestione delle grandi trasformazioni della città in preparazione di Expo. Sia il mio romanzo che queste inchieste che stanno emergendo adesso, però, sono semplicemente effetti della stessa cosa: del fatto che c’è stata una gestione quantomeno torbida di una serie di rapporti fra pubblico e privato nella trasformazione di Milano.
ⓢ La cospirazione delle colombe esce nel 2011, quattro anni prima di Expo. Parla della nascita della zona di Porta Nuova, della trasformazione del quartiere Isola, della gentrificazione “comandata” dall’alto. Uno dei protagonisti si chiama Alfredo Cannella. Erano, questi, avvenimenti legati a Expo, pur essendo iniziati ben prima di Expo?
Il mio romanzo parla nello specifico della trasformazione del quartiere Isola, la zona ex Varesine, Porta Nuova, cioè tutta quella parte che va dal Bosco verticale a Porta Nuova fino ai grattacieli che sono sorti più verso Repubblica. Quel progetto però è cominciato con l’abbattimento del Bosco di Gioia, quindi stiamo parlando di parecchi anni prima, del 2006: ed era legato a quello che era lo sviluppo del “Formigün”, il grattacielo della Regione Lombardia, che è stato reso possibile tramite uno scambio di zone e di diritti a edificare che è stato un po’ il tassello che ha innescato la trasformazione e lo sviluppo di tutta quella zona.
ⓢ Facendo dei passi indietro, possiamo contare due amministrazioni Sala, un’amministrazione Pisapia, un’amministrazione Moratti, un’amministrazione Albertini. Hanno tutte operato nello stesso modo?
Nel bene e nel male, il grosso dei lavori che sono stati poi realizzati a Expo erano stati avviati sotto la giunta Moratti, che non a caso aveva anche celebrato con una propria vittoria la assegnazione di Expo alla città. E non è un caso, se vuoi, che dopo l’esperienza di rottura, che è stata la singola giunta di Pisapia, si è tornati a quella che era sì una giunta di sinistra, ma che in molti aspetti era in continuità con la giunta Moratti, perché Beppe Sala è arrivato nel governo della città di Milano come city manager sotto Letizia Moratti, poi da lì è passato a essere il commissario di Expo e poi è diventato un sindaco candidato con il PD, ma in qualche modo in continuità con certi aspetti legati alla progettualità della città. In qualche modo tra la sinistra che abbiamo oggi a Milano e la destra che avevamo prima ci sono delle forti discontinuità, ad esempio su tutti i diritti civili, ma sull’idea di edificazione dello spazio urbano, sull’idea di privatizzazione dello spazio urbano c’è una continuità totale.
ⓢ Di recente hai scritto molto, su Internazionale, su come il mercato abitativo a Milano stia cambiando: diventando sempre più costoso, escludente, insostenibile anche per chi ha degli stipendi di livello medio-alto. Come mai ti appassiona tanto il tema immobiliare?
Volendo suonare anche la campana opposta, la grande trasformazione di Milano – in parte di Milano, in misura più grande dell’immagine della città – è una delle cose più macroscopiche che sono successe nel panorama sociale italiano negli ultimi decenni. Eppure Milano resta incredibilmente non raccontata: cioè il racconto di Milano, il racconto della coscienza collettiva, è fermo a certi aneddoti sulla Milano da bere o al massimo sui Tangentopoli. Quello che avevo cercato di fare con La cospirazione delle colombe, prima che questa trasformazione fosse ufficializzata, entrata in atto, era cominciare a raccontare questa trasformazione e cercare di trovare un lessico condiviso, un immaginario condiviso per raccontare questa storia.
ⓢ Era troppo presto?
Mi sono reso conto che è estremamente difficile, in Italia, creare un immaginario aggiornato. Pensa al racconto di Roma: il racconto di Roma è ancora il racconto della Roma di Fellini, e non a caso Sorrentino ha ripreso quegli stilemi lì. Il racconto di Roma non ha fatto refresh, e in qualche modo, nonostante la nostra immagine di Milano sia profondamente cambiata, nel male ma anche molto nel bene, anche qui questo refresh non è stato fatto. Quello che io ho cercato di fare con il lavoro giornalistico su Internazionale è stato anche di contribuire a un tipo di discorso che sta venendo fatto sulla crisi abitativa. Qui non sono io l’esponente di punta: il libro di Lucia Tozzi L’invenzione di Milano è stato fondamentale.
ⓢ Forse perché la gentrificazione che sta vivendo Milano è sempre più diffusa in tutto l’Occidente, ed è legata al turismo e all’assalto del mercato immobiliare.
È come se non si riuscisse a tirare fuori una storia. Eppure ci sono un sacco di dati, le case che costano sempre di più, gli Airbnb, la turistificazione che colpisce Firenze o a Bologna, e si riesce a mettere in continuità quello che succede a Milano con quello che succede anche a Roma e Bologna, a Barcellona e New York, però è molto difficile fare emergere un racconto di una specificità milanese. E io trovo che questa brutta commistione di interessi tra pubblico e privato, che poi è anche in linea con quello che era successo a Tangentopoli, sia un po’ l’essenza della milanesità di questa storia, perché in fondo tutte queste cose che stiamo vedendo sono i lati oscuri del project financing. Il lati chiari del project financing – e ci sono – è che Milano è stata in grado di fare un’infinita quantità di cose che altre città che non avevano accesso a questo tipo di fondi privati non sono state in grado di fare.
ⓢ Queste inchieste possono cambiare qualcosa in questa narrazione?
Da una parte bisogna aspettare, accertare la responsabilità, capire che cosa succederà dopo. È possibile che questo sia una sorta di momento-Tangentopoli. Bisogna vedere poi che cosa c’è sotto. In questo caso io trovo che possa anche essere un’ottima occasione per rendersi conto dei limiti e dei problemi, delle debolezze, delle falle di un sistema di sviluppo che è quello che ha adottato la città di Milano negli ultimi anni, e quindi magari questa cosa potrà portare a qualche cosa di buono. Il rischio è che invece porti semplicemente a una paralisi, che è quello che già stiamo vedendo in questi primissimi tempi, già dopo lo scandalo del cosiddetto decreto Salva Milano.
Quello che può cambiare le cose sono i soldi pubblici. Sono investimenti nella città come spazio pubblico, come oggetto collettivo. Ci vuole un racconto, e non intendo uno storytelling che è una sorta di pubblicità, ma un’immagine collettiva che motiva le persone a sentirsi di avere un posto in questa città. Una delle cose, ad esempio, che faceva Isola Art Center, un gruppo di cui facevo parte in Isola nel 2005-2006, era fare dei disegni, delle spiegazioni delle trasformazioni che avrebbero investito il quartiere che non fossero solo i render luccicanti dei developer, ma che aiutassero chi viveva il quartiere, chi lo possedeva in un senso stretto, a capire come sarebbe cambiato, anche per suggerire magari delle possibilità diverse. Ed è in questo, in qualche modo, che un racconto in senso diverso dallo storytelling può creare una sorta di soggetto collettivo, di soggetto politico. Ma è un “very long shot”.
ⓢ Il tuo ultimissimo libro si chiama invece La chiave di Berlino, e racconta, con molta autobiografia, la trasformazione della capitale tedesca negli ultimi 20 anni. Affinità e divergenze tra quello che Milano ha vissuto e quello che hai visto succedere in Germania?
Ci sono due grosse differenze. La prima è che Berlino partiva da una situazione di estrema sproporzione fra un bassissimo costo immobiliare e un livello di reddito nazionale molto più alto che in Italia. Quindi si può dire che c’era uno scompenso che il mercato avrebbe pareggiato, cosa che a Milano non succedeva. In secondo luogo, il tessuto della città di Milano era già molto denso, mentre quello di Berlino lo era molto di meno perché si era spopolata e così via. Quello che hanno in comune, anche se poi ovviamente le due trasformazioni si sono declinate in modo diverso, è che quello che è successo è l’arrivo del capitale di investimento nel campo immobiliare. Cioè le persone, i fondi, le grandi società hanno cominciato a considerare, in parte grazie all’arrivo di Airbnb, in parte in seguito a una serie di crash nel mercato finanziario che ha portato alla necessità di diversificare, hanno cominciato a considerare la casa come un bene speculativo da far fruttare. Se ci pensi, è una trasformazione molto grossa. Noi che siamo nati negli anni Ottanta, ma ancora di più i nostri genitori, si ricordano quando i grandi immobili erano di proprietà delle assicurazioni e degli enti pensionistici: non erano qualcosa che doveva produrre grandi utili, erano qualcosa che doveva produrre basso rischio, grande affidabilità. Questo si è trasformato: adesso invece sono delle cose che devono battere il mercato, o da cui ci si aspetta dei rendimenti molto più alti. Questa è la grande trasformazione che ha toccato sia Milano che Berlino.
Foto di Miguel Medina/AFP via Getty Images

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