I podcast stanno ai Millennial come i talk show stanno ai Boomer

Il famigerato Podcasterone, Tintoria di Tinti e Rapone, il Bsmnt di Gazzoli, ArteSettima, quello di Giulia Salemi e di Daria Bignardi: tutto ormai succede nei podcast, anche perché tutti ne hanno uno.

08 Maggio 2025

«Se perdoni la donna che ti ha tradito puzzi di estrogeni», dice un uomo molto muscoloso seduto a un tavolo con un altro uomo altrettanto orgogliosamente gonfio. Le vene pulsano visibili sulle tempie abbronzate, i bicipiti si contraggono in piccoli spasmi sotto gli abiti attillati, l’arredamento è scarno, c’è una confezione extra large di gomme da masticare alle loro possenti spalle, dove campeggia la scritta «Podcasterone».

Difficile emergere nel flusso incessante del content, eppure Flavio Raponi e Petar Duper, bodybuilder e oratori, i Tinti e Rapone delle palestre nei seminterrati che profumano di anabolizzanti e frullati proteici gusto cookies, sono riusciti a farsi notare con il loro podcast a base di due ingredienti fondamentali, che non sono pollo e riso in bianco. Il testosterone, in abbondanza, con tutti i suoi effetti collaterali del caso, e l’usanza attualmente molto gettonata di strutturare un dibattito partendo dal presupposto che gli uomini non possano più dire quello che pensano, mentre lo fanno senza alcun problema.

Mai dire Podcasterone

Non sono solo i testosteronici e virili amici alpha di Podcasterone a intrattenerci con le loro curiose teorie lombrosiane sul mondo diviso in puttane e puttanieri, tenendo bene alla larga i cosiddetti natural, uomini colpevoli di aver mantenuto la circonferenza del loro quadricipite sotto il metro, a riempire tutti gli spazi di internet con chiacchiere su chiacchiere che diventano reel, meme o meta-contenuti su cui fare reaction. «Dario Moccia scopre il Podcasterone» è il titolo di un video con 600mila visualizzazioni caricato su YouTube da un benefattore autorizzato alla trasposizione libera dei video a pagamento di Moccia su Twitch – si stava meglio quando si stava mamma Rai con un solo canale? Chissà. Come in una puntata di un Mai dire qualcosa, Moccia guarda il dibattito sul Dna delle donne costruite geneticamente per essere puttane, appunto, commentando lo scambio tra i gentiluomini gonfi di mascolinità come la Gialappa’s poteva commentare un litigio tra Maurizio Mosca e Ricky Tognazzi al Processo di Biscardi.

È una matrioska di discorsi che si sovrappongono, creando piccoli tormentoni che spariscono in fretta, frammenti di dialogo che ci rimbalzano nell’algoritmo e finiscono in dm: sono ciò che per i nostri genitori erano i talk show, inquadrati nella loro cornice novecentesca di verticalità televisiva, e che oggi si moltiplicano come conigli nei miliardi di podcast che abbiamo a disposizione da millennial e in cui tutti, ma davvero tutti, parlano di ciò che gli pare.

Il podcast è il fast-fashion della tv

Siamo fatti della stessa sostanza del Maurizio Costanzo Show, voliamo inconsciamente sul Tappeto Volante di Rispoli, ci crogioliamo nell’idea di essere capaci di parlare senza inibizioni e senza tenere in conto che Camila Raznovich lo ha già fatto a Loveline e prima di lei Catherine Spaak ad Harem. La differenza, piuttosto, sta nel fatto che il palinsesto si è sgretolato in favore di una distesa di offerte di qualsiasi tipo, mentre gli studi televisivi si sono rimpiccioliti fino a diventare la cameretta di qualcuno, «fenomenali poteri cosmici in un minuscolo spazio vitale», per citare il Genio di Aladdin.

La forma del podcast, purissima democrazia dell’intrattenimento audiovisivo, consente di fare ciò che hanno fatto i talk show in anni di scrittura, coinvolgimento di personaggi e costruzione di identità in tempi e sforzi abbondantemente ridotti: dubito che gli amici del Podcasterone abbiano una squadra di autori, registi, scenografi e montatori alle spalle, ma tutto è possibile. Insomma, il podcast è il prêt-à-porter del talk show, per non dire il fast-fashion della tv, con il risultato che ci induce in quesiti come «ma c’era davvero bisogno di Storie oltre le Stories, il nuovissimo contenuto firmato Valentina Ferragni?». La risposta non può essere netta, così come niente lo è nella fluidità del presente fatta di nicchie, bolle, segmenti, target, e tutte quelle altre parole che si usano per descrivere l’atomizzazione algoritmica del presente in cui alla fine niente ci interessa davvero ma tutto si scrolla.

Milioni di milioni

E infatti, se di talk show ce n’erano tanti, di podcast ce n’è milioni di milioni, e il podcast dei testosteroni, ahimè, non vuol dire qualità. C’è Tintoria che fa da unico vero distributore – insieme a Belve – di aneddoti interessanti estrapolati con naturalezza dall’intimità di un incontro con ospiti famosi e alle volte anche improbabili, in un formato che, se fossimo ancora nel ventesimo secolo, avrebbe avuto la perfetta conformazione della seconda serata.

C’è il grande divorzio podcastaro mainstream che ha coinvolto mamme, avvocati e divisione dei beni, il Muschio Selvaggio che ora è tutto Sal e il Pulp Podcast che è diventato la roccaforte del nuovo Fedez sul redpillato andante. Ci sono i podcast di Giulia Salemi, per le trentenni glamour, di Alessia Lanza, più per la Gen Z tutta Vinted e salute mentale, e Diletta Leotta col suo Mamma Dilettante – voto dieci al titolo – dove si arriva addirittura a chiacchierare amabilmente con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in veste di mamma tra una inglesina sponsorizzata da Peg Perego e domande sulla chat della scuola di sua figlia. Gazzoli intervista chiunque nel suo BSMT con la sua ormai proverbiale espressività di stupore pascoliano e fanciullesco stampata in viso, Alessandro Masala parla con Cruciani, Travaglio o Gruber nella versione late night del suo Breaking Italy: il primo vent’anni fa sarebbe stato bene come talk su MTV, il secondo magari su La7. Alessandro Cattelan fa un podcast, Fabio Rovazzi fa un podcast, c’è un podcast dove si parla di cinema e da cui passano tutti gli attori e i registi del momento, ArteSettima, un podcast dove si parla di libri con Daria Bignardi. C’è un podcast in cui Marracash ci fa sapere quanto è Fuori dalla bolla e uno in cui Massimo Coppola se ne va sfanculando il “conduttore” al grido di «I fascisti con me non parlano». Ci sono i podcast dove si radicalizzano a destra i giovani maschi americani come il Joe Rogan Experience, c’è il podcast tratto dalle puntate de La Zanzara che sta sempre in cima alle classifiche, all’interno del quale tutto sembra ricordare lo studio televisivo di una rete privata anni Ottanta in cui l’unica regola è che non ci sono regole. Insomma, se qualcuno ha da dire qualcosa, oggi, è il momento giusto di farlo, e se i boomer si dovevano accontentare dei loro talk show in tarda serata da cui sbucava fuori Carmelo Bene per il suo Uno contro tutti, oggi possiamo goderci lo spettacolo del tutti contro tutti, visto che persino i bodybuilder gonfi di anabolizzanti hanno qualcosa da dire sul mondo, nonostante pare non si possa più dire niente.

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